venerdì 31 dicembre 2010

I giovani Pd e il pifferaio magico

Dando per assodato che un giovane impegnato in politica – a meno che non sia malato o ridotto da qualcuno in schiavitù o in condizioni di non intendere e non volere – lo faccia per passione disinteressata e non per calcolo opportunistico, a volte mi capita di provare a calarmi nei panni di quei ragazzi che – nati comunisti – si siano ritrovati nel Pd siciliano inseguendo una chimera che in realtà era un fuoco fatuo.
Tento di capire come possano essersi sentiti dopo che – ammaliati dal pifferaio magico dell’antimafia – si sono ritrovati a far parte e a difendere con le unghie e con i denti un governo mafioso.
Riporto la trama della fiaba tedesca, secondo Wikipedia: “La storia si svolge nel 1284 ad Hamelin, in Bassa Sassonia. In quell'anno la città viene invasa dai ratti. Un uomo con un piffero si presenta in città e promette di disinfestarla; il borgomastro acconsente promettendo un adeguato pagamento. Non appena il Pifferaio inizia a suonare, i ratti restano incantati dalla sua musica e si mettono a seguirlo, lasciandosi condurre fino alle acque del fiume Weser, dove muoiono annegati. La gente di Hamelin, ormai liberata dai ratti, decide incautamente di non pagare il Pifferaio. Questi, per vendetta, riprende a suonare mentre gli adulti sono in chiesa, questa volta attirando dietro di sé tutti i bambini della città. Centotrenta bambini lo seguono in campagna, e vengono rinchiusi dal Pifferaio in una caverna. Nella maggior parte delle versioni, non sopravvive nessun bambino, oppure se ne salva uno solo che, zoppo, non era riuscito a tenere il passo dei suoi compagni. Varianti più recenti della fiaba introducono un lieto fine in cui un bambino di Hamelin, sfuggito al rapimento da parte del Pifferaio, riesce a liberare i propri compagni”.
La prima volta che ho cercato di immaginare i pensieri di quei ragazzi è stato, appunto, quando il pifferaio e il suo fedelissimo onnipresente piffero li hanno trascinati come topi verso l’abbraccio mortale con il governo Lombardo spacciandolo per il migliore dei mondi possibile.
Come si sono sentiti? Hanno provato un po’ di vergogna? Gli è balenata per un attimo l’idea di un ripensamento? Hanno abbassato gli occhi ritrovando in fondo a un armadio la loro vecchia maglietta con l’immagine del Che?
Da quella prima volta, però, sono state sempre più numerose le volte che mi sono ritrovata a pensare a loro con un misto di rabbia e compassione. Perché ce n’è una al giorno.
C’è Mirello Crisafulli in quel partito, indagato per mafia, che se ora fa l’antiLombardo non è certamente perché si è pentito ma più probabilmente perché avrebbe voluto tenere tutta per sé e non condividerla con lo sgovernatore la sua liaison dangereuse con l’avvocato Raffaele Bevilacqua, capo di Cosa nostra nell’ennese.
C’è la Cgil, più o meno “cinghia di trasmissione” delle clientele del Pd, che – giusto per fare un esempio – non aderisce allo sciopero della Formazione professionale, brodo di coltura di clienti e voti quasi al pari della Sanità, indetto dagli altri sindacati. Sindacati gialli, sia chiaro, che certamente non lo avevano proclamato per difendere i lavoratori (che dovrebbe essere poi la ragione sociale di ogni sindacato) ma forse per lanciare qualche messaggio trasversale.
C’è il segretario regionale, Giuseppe Lupo, che viene dall’Opus dei e già questo basta e avanza.
C’è Piero Fassino, candidato a sindaco della Fiat, che si schiera con Marchionne.
C’è Massimo D’Alema, candidato a presidente interplanetario dei pupari, che si schiera con Marchionne.
C’è Pierluigi Bersani, candidato (anzi, già eletto) a zerbino di D’Alema, che si schiera con Marchionne.
C’è Pietro Ichino, l’ingiuslavorista candidato al nobel per il trasformismo, che si schiera con Marchionne e manda affanculo la Fiom di cui è stato persino dirigente.
C’è Walter Veltroni (lo so, parlare di lui è come sparare sulla Croce rossa), candidato passeggero dell’Airbotswana – il cui aereo però, ahinoi, non decolla mai -, che candida Calearo e figurati se non si schiera con Marchionne.
C’è Anna Finocchiaro, candidata alla presidenza della Repubblica (così evita la fatica di sottoporsi al giudizio degli elettori di cui non le è mai importato granché), che al momento non sembra essersi pronunciata su Mirafiori e Pomigliano (io, almeno, non ho trovato nessuna sua dichiarazione) ma del cui trasporto verso gli imprenditori nessuno dubita. Uno ce l’ha persino in casa, tipico esempio di riconversione industriale, da medico che era...
Ragazzi, davvero, non vorrei essere nei vostri panni, perché il mio specchio sarebbe pieno di sputi. Spero per voi, con tutto il cuore, che almeno uno riesca a sgattaiolare e a salvare i propri compagni. Altrimenti farete la fine dei topi.

giovedì 30 dicembre 2010

Incontri

Quando perdi irrimediabilmente qualcuno, ti capita di cercarlo nei volti o nell’andatura di persone vagamente somiglianti e inconsapevoli di essere scrutate: nel tentativo di trovare in loro un tratto somatico carico di affetto. Io ne ho perdute due nelle stesse ore, circa nove mesi fa, e da allora non ho smesso di vedere dei sosia ad ogni angolo di strada, consapevole che si trattasse soltanto di un mio bisogno di rinfocolare un ricordo. Anche se certe persone ce le hai marchiate a fuoco nel cuore e nella mente e incontrare qualcuno che gli somigli alla lontana serve solo a ricordarti che te le ricordi in ogni istante della tua vita - ad ogni passo che fai, mentre mangi, mentre piangi o mentre ridi e persino mentre dormi -, e a rendere immortale il dolore, in maniera inconsapevolmente volontaria.
Zina è una delle due persone che ultimamente incontro dappertutto. Di solito so bene che un profilo o un taglio di capelli simili sono, appunto, soltanto simili e incarnano il desiderio di vederla ancora. Qualche sera fa, però, mi veniva incontro una signora che le somigliava più delle altre e, man mano che si avvicinava a me, le somigliava sempre di più. Lacerata, il mio brandello razionale mi spiegava che era impossibile che fosse lei mentre l’altro le gridava: “Ehi, non mi riconosci? Perché non mi avvolgi in uno dei tuoi sorrisi contagiosi?”
Ho affrettato il passo, ho quasi sfiorato la sua spalla con la mia e mi sono allontanata pressoché correndo, mentre l’asfalto per le mie gambe diventava burro fuso.

mercoledì 29 dicembre 2010

Caro Travaglio

Caro Travaglio,
stavolta non mi sei piaciuto. Anzi, di più: mi sono sentita profondamente offesa e ferita. E tradita doppiamente, da lettrice che ti segue “con passione” e da collega che apprezza il tuo essere sempre preciso, puntuale e documentato – come un database -fino alle virgole.
Mi riferisco al tuo editoriale sul Fatto di ieri, 28 dicembre, nel quale, pur di attaccare D’Alema (impresa nobile e ineccepibile, che condivido in toto, considerandolo non, come fanno molti, il più intelligente – ma si può? -, ma anzi uno dei principali responsabili della disperazione in cui si trova – temo irreversibilmente – il nostro Paese), ti sei profuso in un triplo salto mortale con il quale insensatamente hai attaccato i comunisti.
Cito: “...D’Alema ha sempre detto pubblicamente e privatamente che la magistratura è una minaccia per l’Italia. Quando indaga sui politici, s’intende. E non perché sia diventato comunista, ma perché è sempre stato comunista. E i comunisti non conoscono la divisione dei poteri: per loro esiste un solo potere, quello politico, anzi partitico”.
Io sono una comunista vera (e per questo ho perso il lavoro), comunista illuminista per di più, adoro gli enciclopedisti e Montesquieu, e tu dovresti sapere quanto i comunisti – quelli veri, non il Pd che è il partito dei padroni o, meglio, e non sembri una contraddizione in termini, dei servi – quando erano ancora in Parlamento e dunque potevano dire in televisione oltre che nelle Camere quello che pensavano (ora non buchiamo il video e non ci caga più nessuno) siano stati strenui difensori della magistratura e della separazione dei poteri.
Perché, dunque, questa “leggerezza”? Sei caduto anche tu nella trappola luogocomunista berlusconiana di definire sinistra e comunisti il Pd dopo avere nei decenni precedenti diffuso via etere il terrore del comunismo? “Francamente”, come direbbe baffino, da te non me l’aspettavo. A meno che questo non sia dettato (ma sarebbe irrazionale e dunque non da te) dalla voglia di restituire a D’Alema – ma così insultando quelli che non vogliono avere niente a che fare con il miglior alleato di Berlusconi – un po’ del veleno che lui sputa su Di Pietro e dalla voglia, appunto, di prendere le difese del leader dell’Italia dei Valori che al momento a me sembra abbastanza indifendibile.
Sia chiaro, io penso che Antonio Di Pietro – pur con i suoi modi rudi, le sue idee di destra e il suo ego sconfinato – sia una brava persona, però mi rifiuto di credere che uno con la sua esperienza di poliziotto prima e magistrato dopo non sia accorto “a occhio” di chi si metteva in casa. Insomma, non è che ci voleva Lombroso per capire con chi aveva a che fare trovandosi davanti alcuni anni fa De Gregorio e recentemente Scilipoti. Ecco, non vorrei che Di Pietro fosse stato colto dalla sindrome che ha colpito gli ex Pci-Pds-Ds... Io ci sono stata ai Ds e me ne sono scappata appena ho colto i primi sintomi: una volta avevo manifestato a una dirigente catanese di quel partito la mia diffidenza verso un personaggio di cui persino la talpa Ugo, a un miglio di distanza, avrebbe visto che si trattava di una merda. Mi rispose, con volto cattocontrito: “Lo stiamo attenzionando”. E già per questo – per la voce del verbo attenzionare, che in Italiano non esiste - avrebbe meritato di essere mandata in galera. E comunque quello restò al suo posto. Un’altra volta, stessa rimostranza per aver candidato un altro che non ci voleva Lombroso per capirlo e di cui peraltro si vociferava che fosse amico delle cosche. Risposta: “Sì, ma non possiamo rinunciare ai suoi 800 voti”. Ecco, io non vorrei che Di Pietro avesse fatto lo stesso ragionamento “aritmetico” di quella dirigente Ds, dal momento che, a quanto pare, già nell’agosto scorso, e dunque quattro mesi prima che Scilipoti si prostituisse a Berlusconi, il capo dell’IdV era stato informato del fatto che il cosiddetto “onorevole” era indagato dalla magistratura.
Forse Di Pietro, invece di accusare De Magistris di fargli le scarpe, avrebbe dovuto prendere a calci in culo Scilipoti e i suoi simili e dovrebbe scusarsi con i suoi elettori, molti dei quali comunisti, e ammettere di avere fatto qualche cazzata.
E gli elettori comunisti che hanno votato per Di Pietro dovrebbero chiedere scusa all’Italia: perché noi abbiamo fatto certamente delle cazzate (soprattutto quella di stare divisi per tanto tempo e ora che siamo uniti o fingiamo di esserlo non esistiamo più) e forse andavamo “puniti”, ma farlo con un voto a un partito “incazzato” fa solo più danno. Perché un partito incazzato non nasce dalle idee, ma dal malcontento: di chi si è sentito tradito dai comunisti, di chi si è sentito tradito dalla sinistra, di chi non si è ritenuto abbastanza valorizzato nel proprio vecchio partito, di chi – infine – si era iscritto a un partito sperando di ricavarne privilegi. E se è quest’ultima la motivazione “nobile” che ti spinge a “scendere in campo”, come l’hai fatto la prima volta di lasciare un partito per approdare a un altro lo farai mille altre volte e non disdegnerai di diventare la puttana del Berlusconi di turno o, per restringere il campo alla Sicilia, del Lombardo di turno. E sapessi quante puttane ex comuniste, ex sinistre, ex iddivvine circolano di questi tempi in Sicilia!
Scusami, ho divagato un po’ troppo e mi sono persa. Resta il centro del discorso e cioè che – da comunista che ha sempre fatto politica per passione e mai per tornaconto (o molto peggio: nel senso di banche, appalti, eccetera) - quella tua frase mi ha fatto male. E che non si capisce il motivo di tanto livore verso i comunisti. Anche se oggi ti sei fatto perdonare con il pezzo su Belpietro. Ma qui bisognerebbe aprire una discussione prima che su Belpietro sulla funzione (?) dell’Ordine dei giornalisti. Che, non solo con Belpietro, ma anche con molti altri giornalisti servi e puttane, dovrebbe fare quello che Di Pietro avrebbe dovuto fare con Scilipoti e compari: prenderli a calci in culo o prendercisi da solo.

lunedì 20 dicembre 2010

Terno secco sulla ruota di Palermo

Venticinque, uno e quattordici. Tenete a mente questi numeri, ché vi devo dire una cosa. E, siccome la vado ripetendo da circa 35 anni e più, inascoltata, la scrivo così forse si capisce: potreste, per piacere, non dare per scontato che tutti festeggino il natale dei cattolici? Potreste, per piacere, evitare di farmi gli auguri per natale e capodanno? Potreste, per piacere, evitare di obiettare: “sì, ma capodanno perché?”
Cominciamo dalla fine: io non ho niente contro quel povero cristo (che, comunque, o era schizzato al punto da credersi il figlio di un dio o era un dritto pazzesco tanto da sapere – diciassette secoli prima che lo dicesse Voltaire e diciotto prima di Marx – che la religione serve a prendere per il culo la gente e a farle fare quello che si vuole), ma francamente preferisco festeggiare il mio di compleanno o quello di mio figlio, di mia madre, del mio compagno, di mia sorella e così via. E non vedo perché dovrei festeggiare i duemila e undici anni di un tipo che non è né un mio parente stretto né il mio fidanzato. Tipo che peraltro, ne sono certa, si sarebbe cucito la bocca con il fil di ferro se avesse saputo quanti strati di merda – accumulo di ricchezze spropositate, evasione fiscale, pedofilia, intolleranza e persecuzione verso chi non la pensava come loro, connivenza con la mafia, sostegno politico a un mafioso maniaco sessuale in cambio dell’esenzione dall’Ici e dei soldi alle loro scuole che valgono bene una bestemmia, contestualizzandola s’intende - avrebbero accumulato in questi secoli quelli che parlano in suo nome.
Dunque capodanno si conta dalla sua nascita e io non vedo perché dovrei festeggiarlo. E oltretutto non sopporto il divertimento a comando e le feste “comandate” (che, per essere comandate, quindi imposte, vuol dire che uno ne farebbe volentieri a meno di festeggiarle e lo devono obbligare per legge).
Quanto alle date, 25 è la mia data più importante. Ma è il 25 di aprile, festa della Liberazione dell’Italia dal nazifascismo. Poi c’è l’1, nel senso del primo maggio, festa dei lavoratori che hanno sempre meno da festeggiare in un Paese che li ha fatti schiavi. Infine il 14 luglio, che sarebbe una specie di “festa della ragione”. E la ragione, in quanto tale, è incompatibile con qualunque forma di superstizione fra le quali la suprema è la religione.
Dunque, ricordate bene: 25, 1 e 14. E ora, se volete, giocateli al lotto: terno secco sulla ruota di Palermo.
Ma, mentre aspettate che santa Rosalia vi faccia il miracolo, vi saluto con la definizione che del capodanno dava quell’esempio di lucidità mentale che si chiamava Antonio Gramsci: “tripudio a rime obbligate collettive”.

giovedì 16 dicembre 2010

42 idee per Catania? Cominciate dai tombini

Quanto è costata ai cittadini catanesi l’organizzazione degli Stati generali voluta dal sindaco, Raffaele Stancanelli, e conclusasi con l’illustrazione di ben quarantadue-idee-quarantadue per la vivibilità di Catania? Quanto è costato il rapporto commissionato espressamente al Censis per farci spiegare che la città ha una quantità di imprese superiore alla media regionale e addirittura nazionale? Quanto è costato fare venire gli ospiti da fuori? Quanto è costato portarseli tutti a mangiare allo Yachting club?
E poi: il Censis, pagato con i soldi dei catanesi per fare trionfalismo sulle capacità imprenditoriali della città, ha chiarito di che natura sono le imprese che fanno gridare al miracolo economico? No, perché, tanto per dirne una, proprio oggi su disposizione della Dia di Catania sono stati sequestrati beni per un valore complessivo di trenta milioni di euro a Maurizio Zuccaro, esponente di spicco del clan Santapaola, e fra le sue proprietà c’erano un lussuoso complesso residenziale e numerose attività commerciali.
E ancora: che bisogno aveva Stancanelli di invitare (e, quindi, di pagargli – sempre con i soldi dei catanesi – aereo, albergo e tutto il resto) il sindaco di Roma, Gianni Alemanno? Suvvia, senatore, non mi dirà che aveva bisogno di suggerimenti per capire come si fa ad assumere i parenti al Comune e alle partecipate?
E per finire: invece di spremervi le meningi ad elaborare ben 42 idee per la vivibilità di Catania (tipo quella, davvero esilarante, di allargare i marciapiedi per consentire ai pedoni di passare: naturalmente non vi è venuto in mente di mettere i vigili urbani al lavoro e fare fare un culo così a tutte quelle bestie che ci posteggiano sopra le loro auto), avreste potuto farvi un giro per la città – per esempio ieri e per esempio mentre pioveva – e accorgervi che i tombini sono cementati e le strade sono fiumi in piena e magari vi sarebbe venuto in mente, persino a voi che non brillate certo per intelligenza, che una parte, solo una piccola parte dei soldi che avete buttato per le vostre puttanate mondane sarebbe bastata a ripulire e riaprire i chiusini e ad evitare che qualcuno finisca annegato nell’acqua piovana. Già poter camminare per strada senza rischiare di essere travolti dalla piena sarebbe un’ideale geniale per rendere vivibile Catania.
Certo, poi ci sarebbe anche da parlare del lavoro che non c’è. Ma questo forse per voi è un concetto troppo difficile. A meno che non si tratti di pagare consulenti e analisti.

venerdì 10 dicembre 2010

Questi fantasmi

C’è una giovane donna travestita che da qualche giorno a Catania si intrufola fra lo smog e le macchine ferme ai semafori. Non è un travestimento né bello né divertente il suo, nessuna doratura sul corpo, né piume di struzzo o cappello da clown: solo cerone bianco malamente spalmato sul viso (che, già da solo, basterebbe a ricordare il pianto di un Pierrot), un lenzuolo bianco gettato addosso alla meno peggio, in mano un bicchiere di plastica ovviamente bianco. Nessuna performance teatrale, nessuno spettacolo di mimo: l’unica mimica è quella della mano che simula il versamento di qualcosa nel bicchiere. Pourboire la chiamano i francesi la mancia, per bere, ma qui forse si tratta di mangiare, di riuscire ancora a farlo sia pure a costo di travestirsi da fantasma.
Quanti sono questi fantasmi che – a differenza di quello munifico di Eduardo – si aggirano per le città non più in cerca di un lavoro, ma di un’elemosina? C’è chi lo fa a viso aperto, chi invece non ce la fa proprio a mostrarsi e anzi ha solo voglia di sparire e di nascondersi e si vergogna come se fosse colpa sua la mancanza di lavoro. Sicchè prende un lenzuolo e ci si copre i vestiti, prende il cerone e lo usa come calce per annullare il proprio volto e la propria identità.
D’altra parte, cos’è un disoccupato se non una persona che non ha più un’identità? Puoi essere la persona più colta del mondo, puoi avere delle idee brillanti, ma se non hai un lavoro semplicemente non sei. Sei un fantasma, appunto.
E ti fa ancora più impressione – in quest’Italia che non ha soldi per pagare mille euro al mese a un ricercatore universitario, ma ne ha mille a notte per comprarsi una escort - questa giovane donna che si copre mentre quasi tutte le altre si scoprono.

Berlusconi e berlusconismo

Qualche sera fa, a Otto e mezzo, si parlava di ciò che accadrà il 14 dicembre, nel giorno della fiducia/sfiducia a Berlusconi, e Lilli Gruber intervistava Ludina Barzini. Due giornaliste di grande esperienza, ma che (forse) hanno commesso l’errore di non riflettere una frazione di secondo, che a loro sarebbe bastata per non cadere nella trappola dello “spostamento semantico” delle parole.
Mi spiego: l’intervistatrice chiedeva se il berlusconismo sia in fase di declino e l’intervistata rispondeva parlando di berlusconismo, ma era chiaro che entrambe pensavano a Berlusconi e probabilmente al suo governo. Ora, io credo che dovremmo intenderci e, proprio per non farci fregare, ricordarci sempre di distinguere fra Berlusconi, governo Berlusconi e berlusconismo.
Il primo, cioè l’essere vivente, come tutte le cose umane – parafrasando Giovanni Falcone – ha avuto un inizio e avrà una fine: a occhio e croce fra una decina d’anni. Venti, se vogliamo farci abbindolare dagli imbonitori degli elisir di immortalità. E l’anagrafe sarà la nostra sola salvezza.
Il suo governo, invece, forse il 14 non finirà a causa del berlusconismo uno dei cui ingredienti è la predisposizione a corrompere e farsi corrompere, il pensare solo per sé, come dimostra la prostituzione di questi giorni che vede i deputati esercitare il mestiere piuttosto che esserne utilizzatori finali.
Quanto al berlusconismo, non finirà certamente il 14 e non finirà per un tempo infinito perché più che una corrente filosofica (ma de che?), come potrebbe far supporre il suffisso, è un virus invasivo, uno stato d’animo, una muffa le cui macchie hanno attaccato e intaccato ormai tutta la società. Più che di berlusconismo, chiedendo un prestito a Sciascia, parlerei di berlusconitudine: una cosa che ti porti dentro e fa parte di te. Con la differenza che sicilitudine non ha necessariamente un’accezione negativa. Mentre la berlusconitudine, il berlusconismo, concentra in sé il peggio di tutto e come un tumore ha ormai diffuso le sue metastasi in tutto il corpo del Paese. Perché ciascuno pensa di poter aprire o chiudere la strada sotto casa propria a seconda delle necessità, perché ciascuno salta la fila alla posta, perché ciascuno ritiene che un lavoro si prenda non per concorso ma per raccomandazione, perché ciascuno è certo che pagare le tasse sia un sopruso e non un contributo alla realizzazione di scuole e ospedali e al pagamento degli stipendi di quelli che ci lavorano, perché ciascuno/a si è convinto che per emergere non devi essere bravo ma troia, perché ciascuno – e politici per primi e purtroppo politici di sinistra – non ha dubbi sul fatto che è meglio apparire che essere.
E’ questa la grande e vera vittoria di Berlusconi: lui a un certo punto finirà, il suo governo finirà (forse solo per estinzione del suo capo), ma il berlusconismo gli sopravvivrà, alimentato da tutti quelli che dicono di volerlo combattere ma che in fondo desiderano soltanto vivere di privilegi, ingiustizie, affermazioni personali, protagonismi e schermi televisivi. Per dirla con Gaber: non ho paura di Berlusconi in sé, ho paura di Berlusconi in me. E ha avuto la fortuna di morire prima che Berlusconi fosse in tutti.

lunedì 29 novembre 2010

Cancellato il futuro. E anche il presente

E’ già un po’ che il futuro è sparito dai nostri discorsi, anni, forse decenni. Futuro come forma verbale, intendo: lentamente e subdolamente radio e televisione hanno cominciato a parlare solo al presente per abituarci al fatto che il futuro, inteso come prospettiva di vita – lavoro, famiglia, figli, qualche spicciolo da mettere da parte per uno sfizio -, non ci sarebbe più stato. Che il futuro era già passato o, al massimo, presente.
Ma da oggi non c’è più neanche il presente. Da due giorni ascolto con raccapriccio le notizie sulla scomparsa di Yara, la ragazzina di 13 anni di Brembate, di cui si è persa ogni traccia da quando, venerdì scorso, è uscita da casa per andare poco più in là, al palazzetto dello sport, per allenarsi.
Le ascolto con raccapriccio, non soltanto per la preoccupazione e i pensieri terribili che ti vengono in testa in questi casi, ma soprattutto perché tutti i giornalisti di ogni radio o tv – che è probabile leggano pedissequamente la stessa notizia di agenzia -, da tre giorni hanno eliminato anche il presente e ci dicono che Yara era brava a scuola, che era una promessa della ginnastica ritmica, che nella sua vita non c’erano ombre.
Yara non è morta. Perché mettere un’ipoteca così pesante non dico sul suo futuro, ma persino sul suo presente? E se fosse stata assassinata non lei ma la sua innocenza, perché pensare che genitori affettuosi, insegnanti premurosi, allenatori attenti e una schiera di psicologi non potranno aiutarla a riprendersi la sua vita pulita?
Così si getta la spugna, non si combatte, si vive solo il qui ed ora e finirà che – dopo avere smesso di cercare il lavoro – non cercheremo più nemmeno le ragazzine scomparse. E ci sembrerà normale.

domenica 28 novembre 2010

Sono entrato nella storia

Visto che ormai è diventato un gioco di società (e, in questo caso, forse sarebbe meglio dire uno sport nazionale), mi dedicherò anch’io a quello che appare sempre più un esercizio fisico, piuttosto che mentale, leggendovi o, meglio, scrivendo l’elenco delle parole usate da giornalisti sportivi, commissari tecnici e aspiranti tali (i famosi cinquanta milioni) per definire un calcio a un pallone dato particolarmente bene, una palla che va in rete, una partita vinta.
Parliamo, naturalmente, di football. Ma perché non vi siano dubbi sul mio pensiero (certamente impopolare), in premessa vi regalerò l’esegesi del Maltese-pensiero, non perché io mi creda una tale ideologa, ma perché se Maroni può permettersi di andare in tv a dire puttanate non vedo perché non possa dire la propria pure una che passa per strada come me. E allora vi dico subito che dell’uso che i giornalisti sportivi (e tutti gli altri che fanno loro il verso, in maniera totalmente acritica, “comme des perroquets”) fanno delle parole per i loro resoconti penso che abbia la stessa funzione che ha avuto nel 2004 lo tsunami che provocò migliaia di morti nel sudest asiatico e fu talmente forte da spostare – secondo quanto ci dissero gli esperti – l’asse della terra: come se le avessero dato un calcione nel sedere.
Ebbene, i giornalisti sportivi (che spero per loro abbiano almeno un tornaconto economico personale, altrimenti non si spiega) spostano il senso delle cose, sicché la conseguenza è che se una volta si moriva e si uccideva per l’unità nazionale, per liberare il Paese dal nazifascismo, per i diritti dei lavoratori, per la libertà, cioè per valori e ideali, adesso si muore e si uccide perché un analfabeta pieno di soldi ha commesso un fallo e un altro non meno analfabeta (ma forse meno ricco) non lo ha visto o ha finto di non vederlo.

A questo punto, ecco a voi l’elenco con qualche chiosa servendomi anche di commenti trovati su un sito specializzato:

- “L’azione di…poesia pura”. Poesia? Poesia???!!!! Ah, sì, poesia: Sempre caro mi fu quest’ermo colle, /E questa siepe, che da tanta parte/De l’ultimo orizzonte il guardo esclude…e così via…

- “La vittoria della Roma sul Bayern: impresa storica”. Esticazzi! E io che pensavo a Garibaldi e ai Mille.

- Dichiarazione di Fabrizio Miccoli, attaccante del Palermo: “Sono entrato nella storia superando il record di gol di Di Maso”. Minchia! Allons enfants de la Patrie/Le jour de gloire est arrivé.

- “Il club nerazzurro con il fiato sospeso per i due argentini tornati infortunati dall’amichevole contro il Giappone”. Ah, e io che pensavo che dovesse essere il Cile intero con il fiato sospeso per i 33 minatori bloccati nelle viscere della terra.

- “La disperazione di Cambiasso e Lucio dopo il gol del pareggio di Kroldrup in Fiorentina-Inter...” Chi è morto?
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- “Il calcio d'angolo del Manchester United, che contro il Chelsea ha realizzato un goal geniale”. Si vede che giocava Einstein.


Vi risparmio il cronista in estasi, che sembra avere visto la madonna, e la cronista a un passo dall’orgasmo e chiudo con un commento di un tifoso a una decisione arbitrale non condivisa: “Come spiegarlo a mio figlio? E’ stato vergognoso!” Il tifoso indignato conclude: “Questa è l’Italia”.
Per fortuna mio figlio ha trent’anni e non ho bisogno di spiegargli che questa è l’Italia: l’Italia che si indigna per un fallo annullato ma non per uno rattrappito che corre dietro alle minorenni.
Mio figlio l’ha capito da solo che questa è l’Italia. E infatti è andato a vivere in Spagna.

giovedì 25 novembre 2010

Spot ad personam

Da quando, un anno fa circa, mi regalarono un giallo di Fred Vargas, questa scrittrice francese e la sua scrittura vivace, intrigante, ironica e intelligente sono diventate per me qualcosa di cui non posso fare a meno. Per fortuna leggo in francese, altrimenti avrei dovuto accendere un mutuo. In Francia un tascabile (edizioni J’ai lu) di Fred Vargas costa fra 5 e 8 euro; in Italia i libri di questa scrittrice (edizioni Einaudi, quindi Berlusconi) vanno da un minimo di 12 fino a 18 euro come se niente fosse: cioè uno al prezzo di due o addirittura tre. Già, perché in Francia e a prescindere che ci sia un governo di destra o di sinistra, nessuno o quasi dubita del fatto che la cultura sia una sorta di bene inalienabile, che debba essere accessibile a tutti e che rappresenti una tutela per la democrazia.
Il preambolo della “Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino”, redatta nel 1789 e da allora perno su cui ruotano la Costituzione francese e le più avanzate carte costituzionali di altri Paesi, lo dice chiaramente fin dalle sue prime parole: “I Rappresentanti del Popolo Francese, costituiti in Assemblea Nazionale, considerando che l’ignoranza, l’oblio o il disprezzo dei diritti dell’uomo sono le uniche cause delle sciagure pubbliche e della corruzione dei governi…”. L’ignoranza come causa prima dei mali peggiori di un Paese. E ne sono talmente convinti che da tempo immemorabile la politica dei prezzi dei libri è stata orientata in questo senso: i “livres de poche”, invenzione tutta francese, pur essendo apparsi ufficialmente sotto questo nome nel 1953, c’erano già dagli inizi del secolo. Tascabili non solo per la rilegatura e le dimensioni che consentivano di metterli in tasca, ma soprattutto – così mi piace immaginare, anche se si tratta di un’interpretazione tutta mia dello spirito da cui nascevano – perché si potevano pagare con i pochi spiccioli che stanno in tasca. Ieri come oggi, grazie alla legge Lang del 1981 (recentemente aggiornata, ma rimasta uguale nella sostanza) che stabilisce per i libri un prezzo fisso di vendita stampato sulla copertina – e non, dunque, appesantito da pecette varie che si accumulano una sull’altra come accade in Italia – e soprattutto uno sconto massimo del 5% che tutela i piccoli editori dalle furbate dei grandi i quali, avendo maggiori margini di manovra, potrebbero altrimenti effettuare sconti maggiori e alterare il mercato. Quando, un paio di anni fa, due deputati della maggioranza – uno del Nc e l’altro dell’Ump, il partito di Sarkozy - hanno provato a proporre degli emendamenti che avrebbero favorito le multinazionali e minacciato (come denunciato all’unisono da tutte le categorie interessate, dagli scrittori ai librai agli editori) “gli equilibri del mercato del libro, oltre che la diversità della creazione e dell’edizione francese”, persino due ministre di peso del governo di centrodestra – quella della Cultura e la sua collega dell’Economia - hanno detto che non se ne parlava. E non solo i due parlamentari lobbisti non l’hanno avuta vinta, ma qualche tempo dopo, in seduta notturna e all’unanimità, il Senato francese ha approvato una norma che estendeva la legge Lang anche al mercato editoriale digitale.
In Italia invece la legge sul libro l’hanno fatta, nel silenzio quasi generale (eccezion fatta per gli addetti ai lavori), l’estate scorsa, nella canicola di luglio, ed è mossa da uno spirito totalmente opposto a quella francese. Anzi, per dirla tutta, sembra proprio essere l’ennesima legge ad personam. Primo firmatario, giusto per non farci mancare niente nell’èra dell’inciucismo sconfinato, il parlamentare del Pd Ricky Levi, che ha spacciato la sua norma per una tutela delle piccole librerie contro lo strapotere della grande distribuzione e invece sembra aver cucito l’ennesimo abitino su misura per Silvio Berlusconi. La legge infatti, formalmente, vieta ai librai di effettuare sconti superiori al 15% e questo potrebbe oggettivamente apparire come una protezione per i piccoli librai che non possono permettersi gli stessi sconti dei supermercati, ma c’è un “ma” grande quanto una libreria a tre piani e cioè che gli editori potranno fare promozioni per tutto l’anno (a parte il mese di dicembre) e senza alcun limite percentuale. Tradotto: i grandi potranno, i piccoli resteranno schiacciati.
E infatti i piccoli – centinaia fra editori e librai - si sono incazzati, si sono riuniti in gruppo dandosi il nome di “Mulini a vento” e hanno spiegato all’onorevole Levi (peraltro autore della cosiddetta legge “ammazza blog”, sempre perché in Italia ormai la moda è diventare più fascisti dei fascisti), che aveva sostenuto di avere “trovato il sostegno della stragrande maggioranza degli operatori, grandi e piccoli, librai ed editori, del settore librario”, come la sua creatura, nata con l’obiettivo di mettere ordine, “di fatto cristallizza dei vantaggi spropositati per le grandi case editrici e le librerie di catena”. Spiegazione dettagliata in tre punti:
“1) lo sconto del 15% permette di mantenere una buona redditività alle librerie di catena mentre porta alla soglia della perdita la piccola libreria indipendente, che dunque non può farlo;
2) che il piccolo medio editore, avendo tirature limitate, non può permettersi di fare promozioni con sconti addirittura superiori al 15%, perché si mangerebbe tutto il suo già piccolo margine, mentre la grande casa editrice grazie a tirature alte può fare sconti maggiori senza andare in perdita (anche perché spesso ha già provveduto a fissare prezzi alti in previsione dei futuri sconti);
3) la norma che prevede che le promozioni possano essere fatte solo dagli editori, mette loro in mano un’arma micidiale: si dice infatti che tutte le librerie devono essere informate e hanno facoltà di non aderire. Ma non si dice da nessuna parte che il maggiore sconto offerto dalla casa editrice alla libreria debba essere uguale per tutti (perché un grosso gruppo editoriale non dovrebbe favorire le sue librerie, se la legge glielo consente?)”
I Mulini a vento hanno anche fatto notare che “in Francia e in Germania ci sono da anni leggi che limitano o vietano drasticamente lo sconto e le promozioni, con ottimi risultati non solo per l’intera filiera del libro ma anche per la cultura (e senza danni per il lettore)” e che “se nessuno può fare sconti non ci sarà più bisogno di farli. Se nessuno potrà fare sconti il prezzo fisso dei libri diventerà elemento di concorrenza ad armi pari e i prezzi scenderanno”.
La legge ovviamente è passata senza tenere conto di queste considerazioni e, come se non bastasse, assistiamo allo sperpero di denaro pubblico per uno spot ad personam targato Presidenza del consiglio dei Ministri. Lo avete sentito in radio o visto in tv? Duemilioni e quattrocentomila euro hanno speso per spiegare in radio, in televisione, via web e sui giornali che leggere fa bene ed è il cibo della mente. Ma il sospetto che sia solo cibo per la panza (di Berlusconi, ça va sans dire) è forte. Non foss’altro che per un calcolo un po’ statistico e un po’ della serva: che se lui è proprietario di 8 case editrici su dieci (Einaudi, Mondadori, Electa, Le Monnier, I classici del giallo, I classici Disney, I classici Urania, Il Mulino, Paperino, Paperinik, Sperling&Kupfer, più un’infinità di altre minori), peraltro più note delle altre che non hanno abbastanza soldi per fare pubblicità martellanti, è molto probabile che i libri più venduti saranno i suoi.
Insomma, con i soldi nostri la Presidenza del Consiglio dei Ministri ha pagato uno spot non per incentivare la lettura, ma per favorire ulteriormente la vendita dei libri del presidente del Consiglio dei Ministri.
Perché se davvero avessero avuto un obiettivo nobile, avrebbero potuto fare altro. Per esempio. Quanto fa duemilioni e quattrocentomila euro diviso quindici (che potremmo assumere come prezzo medio di un libro)? Fa centosessantamila libri. Che, per esempio, il governo avrebbe potuto comprare (magari facendo il gesto elegante di evitare le case editrici del padrone) e regalare alle biblioteche. Oppure che il governo avrebbe potuto comprare (come sopra) e regalare a 160.000 cittadini italiani che ne avessero fatto richiesta, magari esibendo una fotocopia della dichiarazione dei redditi per dimostrare che un libro è un lusso che non possono permettersi. Oppure, perfino, senza nemmeno chiedergliela la dichiarazione dei redditi, ma a sorteggio. Chissà che qualche animale pieno di soldi, trovandosi fra le mani un libro, invece di pulircisi il culo come farebbe Bossi con la bandiera italiana, non si incuriosisca e cominci a leggere riuscendo persino a rendersi conto di quali siano le cose importanti della vita. Ma, già, questo – che a qualcuno si attivi il cervello – una dittatura non può permetterlo.

lunedì 22 novembre 2010

Bersani? Un boh!

Qualche giorno fa conversavo in chat con un amico: uno di sinistra, ma non un estremista ipercritico, anzi uno dei tanti che sono caduti nella doppia trappola del voto utile e del Pd partito di sinistra.
Si parlava della situazione politica nazionale e, naturalmente, di “Vieni via con me”. In particolare dell’elenco che avrebbero dovuto leggere di lì a qualche giorno Fini e Bersani, rispettivamente sui valori della destra e della sinistra.
A un certo punto lui mi ha scritto: “Certo che chiamare a parlare dei valori della destra e della sinistra un fascista e un…boh?..”
Un “boh”, capito? Una cosa indefinibile, un’entità indistinta, un nonloso.
A meno che non si riferisse alla formula chimica dell’idrossido di boro. Almeno in quel caso Bersani una sua utilità potrebbe averla.

lunedì 15 novembre 2010

Magistrati come foglie di fico

C’è una frase che mi ha colpito in modo particolare nel documento di quasi seicento pagine redatto dai magistrati della Procura di Catania che indagano sui rapporti fra Raffaele Lombardo e suo fratello Angelo e la mafia.
E’ il passaggio che riguarda la presenza in giunta di due magistrati (che, ai tempi a cui fanno riferimento le indagini, erano Massimo Russo e Giovanni Ilarda): secondo i pm catanesi quella di Lombardo era stata una scelta strategica. “Una strategia – si legge nel documento - che mirava a presentarsi come soggetto politico che, godendo della fiducia di due autorevoli e noti magistrati siciliani, non era per ciò stesso sospettabile di contiguità alcuna”.
Cioè, detto terra terra, quei magistrati all’interno del governo regionale avevano la funzione di specchietto per le allodole o, peggio, di foglia di fico per coprire le schifezze di Lombardo.
Frasi pesanti - soprattutto se ti arrivano dai tuoi colleghi e soprattutto se i tuoi colleghi sono dei magistrati - che inducono a qualche riflessione. Ilarda nel frattempo si è dimesso, ma Massimo Russo è rimasto inchiodato nel suo ruolo di assessore alla Sanità (perverso e perfetto esempio di spoil system, dove dai posti di comando levi i merdosi del tuo rivale e ci metti i merdosi tuoi) e nel frattempo è arrivata Caterina Chinnici, non solo magistrato ma figlia di un giudice ucciso dalla mafia. Possibile che non avvertano un minimo di vergogna ad essere visti dai loro stessi colleghi come portatori d’acqua? Possibile che, mentre sono a casa, passando davanti a uno specchio, non siano portati impercettibilmente ad abbassare lo sguardo?
Da Russo non me lo aspetto più, perché ha dimostrato di essere in perfetta sintonia con Lombardo, ma da Caterina Chinnici vorrei sentire un sussulto di dignità.
Come vorrei sentirlo da chi dovrebbe occuparsi dei rapporti (e della difficoltà di rapporti) fra magistrati all’interno di una procura e soprattutto da chi dovrebbe vigilare sulla correttezza e onestà dei magistrati. Perché non c’è dubbio che ci sia più di una nota stonata in questa vicenda, in cui i pm (cioè quelli che si sono studiate tutte le carte, virgole comprese) parlano senza alcun dubbio di rapporti provati “diretti e indiretti” dei boss di Cosa nostra con i fratelli Lombardo e anzi di “Rapporto non occasionale né marginale ma cospicuo, diretto e continuativo grazie al quale l’uomo politico poteva avvalersi del costante e consistente appoggio elettorale della criminalità organizzata di stampo mafioso a lui vicina”, mentre il loro procuratore capo, Vincenzo D’Agata, sente ogni due per tre il bisogno compulsivo di apparire in tv o sui giornali locali o forse persino di affacciarsi dal balcone di casa sua per sostenere – più o meno - che a carico del presidente della Regione non c’è niente. Limpido e puro come acqua di sorgente.
Forse qualcuno (il Csm?) dovrebbe chiedersi cosa sta accadendo alla procura di Catania, se ci sono problemi di “incompatibilità ambientale”, se ci sono magistrati che non sanno svolgere le indagini, se ci sono magistrati che mentono, se ci sono magistrati che hanno interessi personali in questa faccenda.

lunedì 8 novembre 2010

Italiani a mille euro, artisti della sopravvivenza

Franco Califano rivendica per sé i benefici della legge Bacchelli, il vitalizio per gli artisti che versano in stato di indigenza (indigenza - capito? - non indecenza): dice che non ce la fa a sbarcare il lunario e a pagare l’affitto con i soldi dei diritti d’autore, che sarebbero diecimila euro ogni sei mesi. Cioè più di 1.600 euro al mese, molto di più dello stipendio mensile di molti italiani, loro sì artisti della sopravvivenza, poeti della disperazione, che ogni giorno fanno i tripli salti mortali, stanno in equilibrio su una fune e si arrampicano sui muri per fare la spesa e pagare le bollette con uno stipendio da mille euro al mese (quando va bene). E non certo perché abbiano sputtanato i loro soldi in donne e coca.
E’ a loro che andrebbero estesi i benefici della Bacchelli.
A Califano consiglierei di prendere in affitto un monovano in periferia: vedrà che potrà persino andare in pizzeria una volta a settimana, farsi un viaggetto l’anno e comprarsi qualche vestito con 1.600 euro al mese.

Dei delitti e delle pene, di Nino Mandalà

La cosa curiosa è che vai sul motore di ricerca, gli dai come chiave “nino mandalà+wikipedia”, perché vorresti avere le notizie in maniera quanto più asettica possibile, ma il link che ti spunta non si intitola Nino Mandalà: si intitola Renato Schifani.
Poi, dentro, ci trovi il nome del capocosca di Villabate, la sua fedeltà a Bernardo Provenzano, l’essere stato il fondatore di uno dei primi club di Forza Italia a Palermo e i rapporti societari con il presidente del Senato: ma quello che comanda nel titolo è il nome di Schifani, come se l’uno fosse lo pseudonimo o il nome d’arte dell’altro.
Nom de plume si direbbe se si parlasse di uno scrittore. E in effetti Mandalà da qualche tempo si è messo a scrivere: come molti ha un blog e da lì diffonde il suo verbo.
Per esempio a proposito del 41 bis, l’articolo della legge sull’ordinamento penitenziario che prevede il carcere duro per i mafiosi.
Prima di cominciare a scrivere, l’amico di Schifani dà le sue credenziali e ci spiega di essere un’autorità in materia per emettere subito dopo la sua autorevole sentenza: "Ho una discreta competenza in proposito e posso dire che uomini che hanno vissuto in quelle condizioni sono stati cambiati dalla sofferenza, istupiditi da consuetudini che si ripetono per anni ininterrottamente sempre uguali, sono diventati i malconci residui del contesto originario, non saprebbero neanche leggere la realtà esterna che si è nel frattempo determinata".
Doverosamente, prima di dire la mia, faccio anch’io due premesse: 1) non ho competenze giuridiche e quindi non scendo nel dettaglio dell’efficacia della misura carceraria o della sua crudeltà; 2) in linea di massima non sono una forcaiola e – con la competenza minima di chi lo ha studiato in letteratura italiana da minore e non in quanto giurista – avrei una certa propensione a sentirmi seguace di Cesare Beccaria.
Detto questo, mio caro (si fa per dire) signor mafioso di merda, come pensa che si siano sentiti quelli che a Villabate e dintorni, per esempio, cercando un lavoro, sapevano di doversi sottomettere a voi per essere assunti nel centro commerciale che avreste voluto costruire a suon di mazzette, modifiche irregolari al piano regolatore e minacce?
Come pensa che si siano sentiti in questi anni commercianti, imprenditori e persino gestori di cinema, costretti dalla sua cosca mensilmente a pagare il pizzo?
Come pensa che si senta un’intera regione, il cui sviluppo è soffocato dalla presenza mafiosa sul territorio e nelle istituzioni?
Come pensa che sia sentito un bambino di 12 anni tenuto prigioniero in un maneggio proprio nel suo paese e poi sciolto nell’acido per punire il padre pentito?
Glielo dico io, usando le sue stesse parole: tutti “sono stati cambiati dalla sofferenza, istupiditi da consuetudini che si ripetono per anni ininterrottamente sempre uguali, sono diventati i malconci residui del contesto originario, non saprebbero neanche leggere la realtà esterna che si è nel frattempo determinata".
Zombie, siamo diventati tutti zombie in Sicilia, perché la mafia è dappertutto e ci stiamo convincendo che sia l’ordine naturale delle cose.
E allora, caro (si fa per dire) signor mafioso di merda, le comunico che me ne fotto delle sofferenze inflitte ai mafiosi dal 41 bis e le rivolgo un invito: la smetta di fare la vittima e l’avvocato difensore dei poveri mafiosi torturati e se ne vada affanculo. Con i suoi complici che stanno a Villabate, con quelli che stanno a Palermo e con quelli fungibili a lei che stanno a Roma.

venerdì 5 novembre 2010

Napoleone Bonaparte

Ora io dico, se tu incontri alle tre di notte, in una strada scarsamente illuminata, ferma sotto un lampione, una signorina in calze a rete, tacchi a spillo, labbra a canotto eccetera, e lei ti dice di essere la figlia della regina d’Inghilterra, i casi sono due: o tu sei un pollo e ci credi (e in questo caso non ti affiderei nemmeno l’amministrazione di un piccolissimo condominio di due soli appartamenti), oppure sei normale e, sghignazzando, le schiaffi una mano sul culo e rispondi: “Sèeeee, e io sono Napoleone Bonaparte”.
Effettivamente, ci sarebbe anche una terza possibilità: che tu sia convinto di essere veramente Napoleone Bonaparte.

sabato 30 ottobre 2010

Manutenzione stradale fai da te


Vi ricordate l’Ottavo nano e lo sketch sulla casa delle libertà? Uno si alzava la mattina e aveva bisogno di un po’ di luce in più in una stanza o di una parete divisoria? Prendeva un piccone e apriva; si armava di mattoni e cazzuola e chiudeva. Oppure, invece di portare il cane fuori a far pipì, lo teneva ben fermo oltre la ringhiera del balcone e gliela faceva fare giù, sulla testa dei passanti. La scena ogni volta si concludeva con lo slogan “La casa delle libertà, facciamo un po’ come cazzo ci pare”.
Ecco dev’essere per questo che l’80% dei catanesi – allergici se non pericolosamente intolleranti a qualsiasi norma, aspiranti fuori legge – vota per il centrodestra, così ognuno fa un po’ come cazzo gli pare: vuoi parcheggiare il motorino sul marciapiede (che, come dice la parola stessa, servirebbe a farci marciare i piedi e non le ruote) e lo scooter è pesante? Basta armarsi di cemento e darsi alla manutenzione stradale, costruendosi una piccola scivola.
E’ quello che ha fatto in via Tomaselli, all’altezza del numero 15, il proprietario di uno scooterone la cui ruota posteriore è visibile nella foto. Ovviamente, nessuno se ne occuperà: a meno di non voler varare una legge ad scooteronem.

venerdì 29 ottobre 2010

Simpaticoni

Sì, è vero: io non sono molto ingombrante, un metro e mezzo di altezza per 45 chili di peso e a 46 già mi sento grassa. Però non sono del tutto invisibile. E allora vorrei chiedere ai miei (casuali, perché non è possibile che apparteniamo alla stessa razza) concittadini catanesi perché, quando mi incrociano per strada, non fanno come faccio io quando incontro loro.
Io, se sto camminando su un marciapiede troppo stretto per contenere me e quelli che vengono dal senso opposto, mi metto a tre quarti; se sta piovendo, per non infilare il mio ombrello negli occhi degli altri, lo inclino a rischio di farmi la doccia; se vedo un poveretto che sta scaricando un vitello e se lo sta caricando sulle spalle non faccio una questione di sesso né (ahimé, ormai) di età: mi fermo e lo faccio passare; se urto qualcuno involontariamente, chiedo scusa; se qualcuno in auto – evento rarissimo – si ferma mentre io attraverso, sorrido e ringrazio.
Voi no: voi non accennate nemmeno a farmi un po’ di spazio; voi tirate dritto anche a costo di costringermi a buttarmi giù dal marciapiede mentre sta passando l’autobus; voi mi urtate e sembrate non accorgervene.
Perché voi, se io mi fermo per farvi passare, mi guardate con l’aria incazzata? Forse perché questo vi obbligherebbe alla cortesia?
Eppure dai risultati di un sondaggio di qualche settimana fa, effettuato da Seat Pagine gialle e Ispo, i catanesi si percepiscono generosi, ospitali, allegri e simpatici.
Ah, ecco: allora doveva essere un simpaticone quell’automobilista che, qualche giorno fa, mentre un’ambulanza occupava la strada per caricare un’anziana signora in barella, si è messo a suonare il clacson a perdidito. E certamente quella melodia serviva a tirare su il morale alla vecchietta: allegria!
Ma, chissà com’è, io non mi sono divertita affatto e in quel momento avrei voluto essere l’invincibile Hulk, prenderlo con una mano, stritolarlo e poi sbattergli la testa sull’asfalto fino a fargli uscire il cervello, ammesso che ne avesse uno. E invece, di fronte a tanta maleducazione e mancanza di umanità, ti senti ancora più piccolo e impotente.

lunedì 25 ottobre 2010

U spacchiusu

Il suo nome non ce l’hanno detto e non ci hanno mostrato nemmeno la foto. Ha 18 anni, ma è incensurato e questo lo mette al riparo dalla gogna. Però, già me lo immagino: dev’essere uno di quei “mammoriani” (si chiamano ancora così o nel frattempo è cambiato qualcosa?), con la sfumatura dei capelli altissima, sei chili di gel in testa, la merda al posto del cervello e lo sguardo da pesce bollito. Uno di quelli “spacchiusi” che per sentirsi maschi se la prendono con i più deboli.
Le tv nazionali di questo non hanno parlato (a chi volete che importi?), ma il fatto è che questo giovane catanese di belle speranze un sabato sera se n’è andato in piazza Duomo e, in mancanza di meglio da fare, ha preso di mira un venditore ambulante del Bangladesh, un ragazzo poco più grande di lui, regolare, gli ha rubato tre o quattro cose che aveva sulla bancarella (giocattoli di quelli che valgono meno di niente) e, quando quello ha protestato perché le voleva restituite, lo ha “corcato”.
Il referto dell’ospedale parla di “contusioni al viso, laterocervicali, toracoaddominali” e alla gamba destra: vuol dire che lo ha pestato selvaggiamente e, se non fossero arrivati in tempo i carabinieri, chiamati al telefono dallo stesso aggredito, che ha dimostrato di avere molto più senso della legalità di tanti italiani, probabilmente oggi sentiremmo parlare dell’ennesimo omicidio assurdo in questo Paese che ha smarrito il senso delle cose. E per fortuna questo giovane ambulante è in Italia con permesso regolare, altrimenti avrebbe subìto anche la beffa dei calci in culo della Bossi-Fini.
Io quello lì invece – u spacchiusu - vorrei vederlo in faccia. Anzi, vorrei che lo si esponesse sulla stessa piazza e che tutti gli sputassero in faccia per dirgli quanto non sia nemmeno un mezzo uomo.

Trenitalia e la Sicilia: il delitto perfetto

Un giorno mi era venuta voglia di andare a Mazara del Vallo. Così, tanto per. Noi siciliani (persino una stanziale, come me) conosciamo quasi tutto delle località estere, ma la nostra terra non la visitiamo mai. “Quanto saranno? – mi sono detta - Trecento chilometri, forse meno”. Macchina troppo vecchia, però. E poi costerebbe un botto di benzina. Così, avevo pensato di prendere il treno. In nord Italia (o, forse, dovrei dire in Italia, e non solo per la farneticante secessione padana ma per quella reale e concreta già da tempo messa in atto da Trenitalia) la gente lo fa sempre quando si tratta di poche centinaia di chilometri: prendono il treno e risparmiano in benzina, in pedaggi autostradali e in stress. Sono andata sul sito delle ferrovie per vedere gli orari. Ebbene, sapete quanto ci sta il treno per andare da Catania a Mazara del Vallo? Dodici ore, più che da Catania a Firenze! Anzi, dovrei dire: quanto ci stava. Già, perché non c’è più, sparito. Sul sito non si trova più: “nessuna soluzione trovata”.
E comunque, a quel punto, siccome vuoi farti del male, continui la ricerca: Catania-Trapani, 10 ore; Palermo-Catania (come dire, da capitale a capitale) 6 ore e cocci; Palermo-Siracusa, da 6 ore a 7 ore e mezza, sempre se non prendi quello che – presumo - fa la circumnavigazione del globo terraqueo e allora di ore ne impieghi 11 e 47 minuti, cioè quasi 12; Messina-Noto, cioè dalla presunta capitale del Ponte con annesse magnifiche sorti e progressive (tre chilometri da attraversare in un battito di ciglio, ma a cui aggiungerne almeno 40 dal pilone alla città) alla capitale del barocco, fra quattro ore e mezza e cinque ore e mezza; sei ore e mezza per Ragusa, altrettante per Agrigento… Dev’essere questa quella cosa che chiamano “lunga percorrenza”. Ed è meglio non continuare nella ricerca.
Anche perché, sia che si tratti di trasporto merci o passeggeri - che poi vuol dire lavoro, lavoro e ancora lavoro che non c’è o è a rischio, per i ferrovieri, per i pendolari, per chi vive di turismo, di agricoltura o di artigianato - la situazione delle ferrovie in Sicilia è disastrosa e tale da far pensare di essere andati indietro ben oltre quei primi decenni dell’unità d’Italia a cui risalgono le tratte isolane. Basterebbe guardare soltanto a quanti chilometri sull’intera rete ferroviaria siciliana sono a doppio binario: solo 169, mentre gli altri 1209 – pari all’88% dell’intera rete – sono a binario unico.
Basterebbe, ma non basta: perché i sindacati da tempo hanno lanciato l’allarme su un disimpegno di Trenitalia nei confronti della Sicilia e ora puntualmente i nodi vengono al pettine. L’estate scorsa, per esempio, la Fit Cisl ha fatto sapere di ritardi cronici – fino a quasi un’ora e mezza – dei treni in partenza da Palermo e questo perché manca il personale di manovra e pure quello preposto alla manutenzione, tanto da parlare di stato di abbandono delle officine. E già un anno fa i macchinisti del Comitato Lavoratori Cargo Trenitalia avevano denunciato la “progressiva dismissione” degli scali di Palermo-Brancaccio, Alcamo, Canicattì e Fiumetorto, aggiungendo: “Temiamo che nel futuro i treni merci si fermeranno a Villa San Giovanni, tagliando fuori la Sicilia dal resto del territorio nazionale. In questa ipotesi, il danno per l’economia e l’ambiente siciliano sarebbe disastroso e incalcolabile”. Allarme d’altra parte ripreso e rilanciato dalla Filt-Cgil che negli stessi giorni confermava la chiusura dei “servizi merci a carro singolo, diffuso e combinato” e la “conseguente dismissione degli scali” i cui “effetti diretti e i riflessi metteranno in dubbio la tenuta produttiva di tutto il sistema”. La Filt avanzava quindi l’ipotesi di un “definitivo scollegamento del nostro sistema da quello nazionale ed europeo in un arco di tempo che stimiamo di 2-3 anni”, chiarendo quindi le proporzioni del fenomeno: “Dai 330 addetti attuali, a fine 2010 si arriverà probabilmente a 130”.
Solo un’ipotesi allarmistica? Non si direbbe. Quest’estate la faccenda ha cominciato ad esplodere. A un certo punto, nel giugno scorso, si è saputo che da oltre un mese nella stazione catanese di Acquicella porto i treni merci non arrivavano più e che vagoni carichi di legname erano fermi a Marcianise, in Campania, senza una ragione ma con conseguenze devastanti per una fra le più antiche industrie catanesi per la lavorazione e la trasformazione del legno, la cui sede si trova proprio in prossimità di quello scalo e che in quel momento aveva riserve soltanto per sei mesi.
Negli stessi giorni, la Cna di Vittoria denunciava lo stesso rischio di fine attività per le segherie di marmo perché Trenitalia (che si difendeva, dicendo di non avere competenza) aveva chiuso o stava per chiudere gradualmente tutte le stazioni – Comiso, Gela, Catania Bicocca – dove fino a quel momento erano arrivati i blocchi di granito. Altro che corridoio 1 dalla Scandinavia al bacino del Mediterraneo e altro che Ponte sullo Stretto! In quell’occasione Giorgio Stracquadanio, responsabile organizzativo della Cna, faceva rilevare come sostituire il trasporto su ferro con quello gommato sarà impossibile a causa dei costi e dello stato delle strade siciliane e che questo avrebbe provocato l’isolamento definitivo dal resto d’Europa delle province della Sicilia sud-orientale.
E di disimpegno evidente di Trenitalia, da almeno due anni, parla Franco Spanò, segretario regionale della Filt-Cgil, che – ricordando le ultime decisioni della società, in base alle quali proprio in questi mesi viene attuata la riduzione di vagoni e posti passeggeri e dei treni a lunga percorrenza – fa rilevare come il cosiddetto “servizio universale” sarà “sostanzialmente soppresso”: e già, per esempio, i treni che vanno da Siracusa a Roma sono rimasti soltanto due e da un po’ sono stati ridotti anche quelli da Agrigento e da Palermo. Per di più, vengono meno anche quei servizi che dovrebbero rendere dignitoso l’andare in treno, come la pulizia dei vagoni, il controllo di qualità delle vetture, la manutenzione. I danni maggiori ancora si devono vedere, ma già comincia a farne le spese più di altre città Messina, dove fra l’altro resterà soltanto una nave traghetto (con ulteriore perdita di posti di lavoro) perché i treni italiani si fermeranno in Calabria.
Per il sindacalista, sul versante dei treni a lunga percorrenza è evidente la responsabilità del governo nazionale che ha già ridotto negli anni i finanziamenti statali per il trasporto pubblico e nella finanziaria 2011 ha previsto tagli ulteriori. Come se non bastasse, dall’ultima delibera del Cipe sono scomparsi i raddoppi delle tratte Messina-Catania e Messina-Palermo. E sul versante dei trasporti regionali, Spanò definisce “importanti” le responsabilità del governo siciliano per non avere ancora firmato con le Ferrovie il nuovo contratto di servizio, cioè il documento in cui Trenitalia e la regione (che ha competenza sul trasporto pubblico locale) stabiliscono quali servizi saranno erogati, quali saranno i loro costi, dove sarà necessario apportare modifiche, tutto tenendo conto delle esigenze della clientela. Che, in realtà, non sembrano interessare granché né Trenitalia né il governo regionale siciliano, se è vero che migliaia di pendolari salgono quotidianamente su treni in ritardo, con pochi posti, sporchi, con nessuna garanzia di qualità e dunque di sicurezza: è quello che il segretario della Filt chiama “atteggiamento di chi disprezza anche l’utenza più fidelizzata”. “Disagi incomprensibili e insostenibili”, per Spanò, e “scelte scellerate” quelle di sopprimere i treni “fregandosene delle utenze” quasi a volerle indurre a usare la strada – con i suoi costi elevati in termini di carburanti e pedaggi autostradali – e penalizzando il mezzo più ecologico e a minor impatto ambientale. Scelte, quelle di Trenitalia, che - oltre a produrre in breve tempo la perdita di circa 500 posti di lavoro (fra ferrovieri e dipendenti di ditte affidatarie di appalti e subappalti) – secondo Spanò vanno “nella direzione opposta” ai tanti proclami sul Ponte, svelandone l’inutilità dal momento che proprio una parte della megaopera dovrebbe essere destinata al passaggio dei treni. Forse gli faranno fare avanti e indietro per fare divertire i bambini.
A completare l’architettura di quello che appare come il disegno per un delitto perfetto, c’è infine la questione dei binari bomba. Palmiro Prisutto, il parroco di Brucoli in prima linea sui temi ambientali, lo denuncia da anni ed è tornato a farlo dopo la sciagura di Viareggio del giugno 2009, quando l’esplosione di un treno merci che trasportava gas provocò decine di morti e di feriti e costrinse un migliaio di persone ad andare via dalle loro case. Nella tratta da Augusta a Siracusa, il rischio è quotidiano da più di trent’anni e i passeggeri – secondo Prisutto – vengono mandati “deliberatamente incontro al pericolo”: perché per ben 15 chilometri la ferrovia passa all’interno degli stabilimenti del Petrolchimico, in mezzo a quelle fabbriche nelle quali in passato si sono verificati più volte incidenti. E con un rischio in più: che ad esplodere siano anche le autobotti che ogni giorno a decine passano nel centro abitato di Priolo per portare il loro carico ad alto rischio al deposito che si trova proprio fra la stazione ferroviaria e alcune abitazioni.
Giusto per farsi un’idea di quanta gente potrebbe essere coinvolta soltanto fra gli utenti delle Ferrovie, è sufficiente ancora una volta andare a guardare orari e percorsi: fra regionali e a lunga percorrenza i treni che vanno a Siracusa da Messina o Catania fra le 6 del mattino e le nove di sera sono almeno una quindicina. Anzi, di nuovo, dovrei dire: “andavano” ed “erano”, perché nel frattempo un po’ di convogli a lunga percorrenza li hanno soppressi. Così, semmai, a saltare in aria saranno solo i siciliani.

giovedì 14 ottobre 2010

Il suggeritore

Da qualche tempo in Italia i giornalisti si fanno le domande e si danno le risposte: è la nuova figura professionale del cronista suggeritore. In questo mondo televisivo in cui ogni avvenimento ha il copione già scritto, il professionista solerte – presente cinque minuti dopo il delitto sul luogo di una violenza carnale o un omicidio (che sia lui, e non più il maggiordomo, l’assassino?) - avvicina la comparsa di turno, inebetita non si sa se dall’atrocità del fatto o da quella domanda con risposta incorporata, e le chiede: “Rabbia e dolore?”. E quella, rassegnata, annuisce: “Rabbia e dolore”.
E poi giù con una teoria infinita di banalità che si susseguono come slavine, rotolano l’una sull’altra, si fondono, ci travolgono e alla fine ci inghiottono tutti.
Ai funerali c’era “una folla commossa”. Mai che ci dicano che – parenti stretti a parte – quelli che erano là se ne sbattevano i coglioni e c’erano andati solo per farsi riprendere dalle telecamere.
Se la vittima aveva 15 anni, a seconda che fosse un ragazzo o una ragazza, gli intervistati ripeteranno come un’eco le parole dell’intervistatore e ci diranno – anche se li avevano solo visti passare per strada un paio di volte – che era “allegro” o “solare” e naturalmente aveva grandi aspettative per il suo futuro e la sua vita. E nessuno viene sfiorato dal dubbio che - proprio perché aveva 15 anni e non aveva ancora capito quale fosse il suo posto nel mondo – pensasse più spesso alla morte e al suicidio che alla vita.
Bandiere tricolori, massime autorità dello Stato e amor di Patria a go go - fino alla sbornia irreversibile a meno che non si riesca a vomitare - invece per il militare morto in una guerra che chiamano pace. E il giornalista credente, obbediente e combattente suggerisce ai genitori di esaltare la fede del figlio in quella missione.
Immancabile, quando la vittima è un ragazzo – con un impegno straordinario ad accumulare strato su strato ovvietà e stereotipi -, la maglia della “squadra del cuore” posata sulla bara, giusto per alimentare l’inganno in base al quale la Patria e il football sono equamente (anzi, il calcio di più) ideali talmente alti da giustificare persino una guerra. E infatti eserciti senza regole si fronteggiano negli stadi. E infatti cronisti suggeritori non provano la minima vergogna a parlare di un goal “entrato nella Storia”.
Poi ci sono le interviste ai vicini di casa e a quelli che abitano nella stessa strada del morto: “Lei lo conosceva? Vi parlavate?” Risposta: “Lo vedevo passare, ogni tanto salutava”. Fondamentale.
Impagabile, infine, l’intervista al prete, che – non si capisce perché – è garanzia di purezza e santità pure se è stato condannato per pedofilia. Così come essere cattolico, per il suggeritore (che evidentemente non conosce la Storia – quella vera – e nemmeno la cronaca, che sarebbe il suo mestiere), è sinonimo di bontà d’animo, onestà, serietà sul lavoro: “Un bravo ragazzo” suggerisce il suggeritore. E allora è divertente vedere il religioso arrampicarsi sugli specchi, perché il morto in chiesa non ci è mai entrato e forse cambiava pure marciapiede quando passava da quelle parti: “Sì, sì, un bravo ragazzo…Non veniva spesso…ma la mamma viene a messa tutte le domeniche e fa le offerte per i poveri. Una santa”. Dunque, per la proprietà transitiva o forse solo per l’ipocrisia di non parlare male dei morti, un santo pure lui.
Ma quand’è che recupererete la dignità? Parlo con voi, sì: voi giornalisti e voi intervistati. Voi giornalisti, perché potreste anche rendervi conto che si può porre una domanda intelligente o che ancora più intelligente (e umano) sarebbe non costringere una madre o un padre devastati dal dolore a recitare per forza la loro parte in commedia. Voi intervistati, voi comparse, perché potreste sottrarvi al rito dell’intervista se non ne avete voglia e invece preferite apparire. Anche se ci fate la figura dei coglioni.

domenica 10 ottobre 2010

Eroi della disoccupazione

Eroi della pace li hanno chiamati. E’ l’ultima puttanata che ho sentito per giustificare l’omicidio di quattro ragazzi da parte di uno Stato che li manda a morire perché non sa che farsene di loro; che giudica più economico mandarli in guerra piuttosto che creare per loro posti di lavoro.
Eroi della disoccupazione li chiamerei. Tre su quattro erano meridionali; uno di quei tre era siciliano. E i siciliani non si contano più in queste guerre maledette contro la mancanza di lavoro che li obbliga ad arruolarsi e farsi ammazzare pur di portare a casa a fine mese uno straccio di stipendio; come negli anni Cinquanta e Sessanta facevano i meridionali e siciliani che entravano in Polizia o nei Carabinieri, pur di non arruolarsi nella criminalità, e spesso finivano ammazzati per stipendi di fame e dovevano subire pure lo scherno di diventare macchiette nei film che li dipingevano piccoli, brutti, neri, con i baffetti, un po’ tonti e dall’accento marcato.
Eroi della disperazione, nascono sul mare o in mezzo agli aranceti e se ne vanno a fare gli alpini, una cosa quasi contronatura, cacciati dalla loro terra che, oggi come cinquant’anni fa, produce solo disoccupazione.
Ci vadano, a fare la guerra e a farsi ammazzare, lo psicopatico che gioca ancora con i soldatini di piombo e tutto il suo governo che dal Meridione e dai suoi figli affamati cerca solo voti; ci vada a fare la guerra un governatore che governa solo clientele e posti di lavoro a tre mesi, dai quali scappare anche a costo di morire in una guerra che produce solo guerra.
E la smettano, dopo, all’ennesima conta delle vittime, di iniettarci in vena la loro orribile retorica patriottarda tagliata male.

venerdì 8 ottobre 2010

Racket delle estorsioni

La storia mi ricorda tanto quelle che sentiamo quotidianamente in Sicilia, quando arrestano uno del racket delle estorsioni.
Davanti al negozio trovi una tanica di benzina, un avvertimento inequivocabile, ti rivolgi al boss della zona (di denunciare alle forze dell’ordine non se ne parla), chiedi protezione, ti accordi sul prezzo e da quel momento dormi tranquillo.
Solo che in questo caso protagonisti (e colpevoli in egual misura) sono il capo degli industriali italiani, il direttore di un quotidiano nazionale e un componente più che autorevole del cda dello stesso giornale (oltre che amico intimo del mandante).

mercoledì 6 ottobre 2010

Maggior partito di Esposizione

Alcuni vecchi catanesi – vecchi non soltanto per questioni anagrafiche, ma per una sorta di “sclerosi cerebrale” che colpisce alcuni a quarant’anni, impedendo loro di accettare i cambiamenti – piazza Verga la chiamano ancora piazza Esposizione: “nni viremu all’esposizione” è l’appuntamento che getta nel panico i più giovani, che non sanno di che si stia parlando, e nello smarrimento persino quelli della mia generazione che sono nati e cresciuti chiamandola con il nuovo nome e troppo distanti da quell’evento (l’Esposizione agricola siciliana del 1907) che appunto aveva dato il nome alla piazza.
Ora, quando sento parlare di “maggior partito di opposizione” a proposito di una formazione politica che tutto ha fuorché essere “maggiore” e di “opposizione”, mi viene da pensare proprio a quegli ottantenni con i piedi saldamente incollati alla loro gioventù come un bambino capriccioso.
Allora ve lo spiego io: questo partito di cui parlate voi (sceso ormai a percentuali da suicidio grazie alle sue scelte di destra) non è quel partito di cui si vorrebbe far credere erede (e che, se potesse, vi dovrebbe denunciare per millantato credito e appropriazione indebita). Quello era il maggior partito di opposizione. Questo - per usi, costumi, pratiche consociative, propensione all’inciucio, traccheggiamenti e attrazione fatale nei confronti del potere – somiglia molto di più al partito di maggioranza relativa. Senza averne i numeri.

domenica 3 ottobre 2010

Pirati a Palermo

Avete visto i manifesti che annunciano la festa del Pd a Catania? Esauriti animali, fiori, frutti, alberi, ora si passa alle cose. Nella parte centrale campeggia una lampadina (nemmeno di quelle a basso consumo, che potrebbe suggerire una certa attenzione ai temi dell’ambiente, no: una di quella antiche) accompagnata dallo slogan “Sotto una nuova luce”.
Scusate, ma mi viene da ridere. Perché, da qualunque parte la si guardi, non hanno scampo. Se, putacaso, la lampadina a cui pensavano era Edi, l’aiutante di Archimede Pitagorico, e se dunque pensano di avere fatto una genialata sostenendo il governo Lombardo, c’è solo da compatirli. Convinti di guadagnarci (e sperando di spartirsi l’ampia torta delle clientele, delle consulenze e dei posti di sottogoverno), si ritroveranno con le scarpe sfondate e i guanti di lana bucati a mendicare qualche voto sui marciapiedi e a pietire dall’arraffatutto qualche posto di lavoro precario e in nero per loro stessi o per i loro figli. Se invece – ritenendo Lombardo il salvatore della Patria e dell’umanità – volevano dire di essere di essere stati folgorati sulla via di Palermo, sarebbe stato meglio per la loro dignità e per il bene dei loro elettori se fossero stati folgorati da una scarica elettrica potentissima mentre in gruppo avvitavano la lampadina. D’altra parte, siccome mi rifiuto di credere nell’ingenuità di gente che sta in politica da quarant’anni, l’unica festa che mi viene in mente pensando al Pd è quella dei 18 anni di Noemi Letizia: ci manca solo che arrivi il sultano pedofilo a impalmarli pubblicamente.
E già, d’altra parte, se non proprio nel lettone di Putin ma almeno dietro le quinte qualcosa dev’essere successo e da tempo, se per esempio – parlando di questioni nazionali – fu proprio Massimo D’Alema a buttare a mare la legge sul conflitto di interessi; se Veltroni (che, invece che andare in Africa, dovrebbe passare al Pdl: perché un terzo mondo così in fatto di illegalità non lo trova da nessuna parte) ha candidato il più “padrone” degli imprenditori (quel Massimo Calearo che, in un’intervista a dir poco esilarante, dice che nel Pd – da cui ha già traslocato – ci sono i bolscevichi); se Vannino Chiti, alla notizia della presunta iscrizione di Schifani sul registro degli indagati per concorso esterno in associazione mafiosa si precipita ad esprimere solidarietà al presidente del Senato piuttosto che agli italiani che se lo ritrovano come seconda carica dello Stato; se la prima carica dello Stato prova il bisogno compulsivo di firmare qualunque porcheria serva al duce; se l’unica volta che hanno candidato un operaio alle elezioni (quel Boccuzzi scampato all’incendio della Thyssen-Krupp) hanno preso uno che secondo i suoi compagni di lavoro votava Forza Italia; se non gli è parso vero che Bossi facesse le sue scuse ai romani (ma non alle istituzioni romane, cioè allo Stato) per ritirare in fretta e furia la mozione di sfiducia nei confronti del ministro ai rutti e alle canottiere; se – scendendo in Sicilia – Anna Finocchiaro non prova nemmeno un briciolo di vergogna a definire persone per bene quelle che stanno dentro il governo di Raffaele Lombardo (indagato per mafia); se un sindacalista ex deputato regionale dei Ds figura fra i questuanti nel presunto libro delle clientele del presidente della Regione; se i dirigenti di quel partito si guardano bene dal privarsi della presenza (e dei pacchetti di voti, immagino) dell’onorevole Wladimiro Crisafulli che – come se non bastasse l’accusa di farsela con i boss – si è fatto beccare recentemente pure per essersi fatto pavimentare a spese della provincia di Enna la strada che porta alla sua villa. E queste sono solo le cose che ricordo a memoria.
Che forse si possono spiegare proprio a partire da una metaforica lampadina, una luce che – secondo un signore che su Internet si fa chiamare Zenadir – trasmetterebbe “l’insegnamento della Via”, per “ricevere una Tradizione che consente il miglioramento del nostro Io, un affinare quelle potenzialità e caratteristiche che ci permetteranno, un giorno, di salire la Scala che collega il pavimento bianco e nero alla volta Celeste, al Delta che illuminiamo proprio perché esso, a sua volta, illumini noi ed i nostri passi”. E via così farneticando.
Citazione per citazione, io ne preferisco una che – alla “luce” delle nuove alleanze politiche siciliane – delinea perfettamente il quadro: “N’arrubbaru lu suli, lu suli/
Arristammu allu scuru,
/chi scuru
/Sicilia chianci!”

lunedì 27 settembre 2010

Iacp Catania, un pentolone nauseabondo

A leggere la relazione degli ispettori inviati circa un anno e mezzo fa dall’Assessorato regionale ai Lavori pubblici (in seguito a una serie di denunce e segnalazioni) per vedere cosa accadeva all’interno dell’Istituto autonomo case popolari di Catania, c’è da mettersi le mani nei capelli. E, più leggi e più ti ripeti che non è vero, che non può essere vero.
E invece sì e parlano le carte.
Uno e multipli di tre, per avere accentrato su di sé tutte le cariche dirigenziali -secondo quanto scrivono nella loro relazione i dirigenti regionali Cosimo Aiello, Aldo Gangi e Castrenze Marfia a conclusione dell’attività ispettiva che comunque per loro andrebbe ulteriormente approfondita ed estesa “almeno a un decennio dell’attività dell’istituto” -, il Direttore generale dello Iacp, Santo Schilirò, metteva le mani in tutti i settori più importanti dell’istituto e lo faceva perché, con la scusa che non c’erano in organigramma figure dirigenziali adeguate, si autonominava reggente. Ad interim, che in realtà significherebbe per un breve periodo e invece nel suo personalissimo vocabolario di latino significava “a vita”. E per di più con pieni poteri e senza oppositori, perché – a quanto sembra di capire – in questa gestione dittatoriale alcuni erano amici e complici, tutti gli altri avevano paura.
Gestione dittatoriale e familiare, sempre a giudicare da quello che scrivono gli ispettori, perché Schilirò l’istituto delle case popolari lo gestiva come fosse la sua casa (non popolare) ma certamente non con la diligenza del buon padre di famiglia. Anzi. Facendo favoritismi, discriminando alcuni impiegati evidentemente non allineati, truccando le carte, spendendo e spandendo: tanto che gli ispettori hanno detto che il risultato dei loro accertamenti andava inviato alla Procura di Catania e alla Corte dei Conti, perché si ravvisavano reati penali e danni all’erario.
E, giusto per dovere di cronaca, bisogna dire che di questa storia si sarebbe saputo poco se non fosse stato per i Comunisti italiani, che hanno tenuto una conferenza stampa in cui Orazio Licandro è arrivato con una carpettina piena di documenti serviti a scoperchiare quello che il responsabile nazionale Organizzazione del Pdci-FdS ha definito “un pentolone nauseabondo”.
Ma andiamo con ordine e vediamo di riassumere il contenuto della relazione degli ispettori, trasmessa al Dipartimento regionale dei Lavori pubblici il 9 marzo 2009. La premessa è che l’ispezione è stata disposta “a seguito di copiosa corrispondenza”: dopo di che i tre si sono messi a studiare centinaia di pagine e hanno ascoltato i dipendenti dell’Istituto traendone l’impressione che la cosa vada approfondita ulteriormente data la “notevole quantità di fatti e attività” venuti alla luce. E guardate un po’, per punti – prima di scendere nei dettagli (con l’avvertenza di assumere prima un gastroprotettore e un antiemetico) –, a cosa si riferiscono i “fatti di assoluta discrezionalità operati” da Schilirò ed elencati nella lettera di accompagnamento della relazione: “gestione di protocollo con inserimenti postumi di allegati; mancanza di registri di catalogazione per le delibere del Consiglio di Amministrazione; assegnazioni arbitrarie di alloggi, di locali in favore di parenti e sigle Sindacali per i quali non sempre è stato percepito alcun canone di locazione; pagamenti anomali per spese di economato; rinvio di pensionamento; assunzione di personale”.
Bene, se avete già preso le medicine, mettetevi comodi che vi spiego punto per punto a cosa si riferivano gli ispettori. Con l’ulteriore premessa che, già commissariato, Schilirò pretendeva di continuare a prendere decisioni, lui e il Cda, che – come sanno anche i bambini – quando arriva il commissario decadono e, inoltre, che il Direttore si era autonominato dirigente dell’Area contabile e amministrativa, del Servizio legale e dell’Area tecnica e in più anche Presidente del nucleo di valutazione e verifica del personale, segretario del Cda (incarico che può essere svolto da un funzionario qualunque, ma che – secondo i bene informati – avrebbe avocato a sé proprio per tenere sotto controllo la situazione)….insomma: lui se la cantava e lui se la suonava. E, proprio per cantarsela e suonarsela quando e come voleva lui, in base a quanto riscontrato dagli ispettori, nel Protocollo faceva lasciare alcuni numeri vuoti, così da metterci quello che voleva anche successivamente, e per di più in pratiche protocollate inseriva gli allegati con molti anni di distanza: allegati – come dire? – a cazzo di cane, perché spesso non c’entravano niente con l’oggetto della pratica. Poi non c’è traccia di molte delibere del Cda o di “determine e provvedimenti del Direttore”, mentre – altro che tracce! – le impronte digitali (metaforiche) di Schilirò sembrano macchiare i documenti di assegnazione di case popolari a gente che risultava proprietaria di appartamenti o che comunque non aveva i requisiti, come pure le carte grazie alle quali il figlio di Schilirò, Ettore, vinceva la lotteria di un locale commerciale in piazza Spedini, teoricamente in affitto, di cui il rampollo di questa famigliola esemplare (ancora non è finita: vedrete dopo) non solo non ha mai pagato il canone ma se l’è fatto ristrutturare a spese dello Iacp e da operai dello Iacp. E mentre ci siamo, vogliamo continuare a parlare della famiglia? Bene. La moglie di Schilirò, dipendente dell’Istituto, avrebbe dovuto andare in pensione nel 2006 ma il marito ha ritardato di anno in anno il pensionamento, fino al 2009, non senza avere un anno prima promosso la stessa signora caposervizio, inutile dire con quali benefici per la sua pensione. La nuora di Schilirò, invece, partecipò a un concorso nella cui commissione c’era il suocero, che si era guardato bene dal dichiarare la propria incompatibilità e, anzi, aveva fatto di più: aveva predisposto lui i quesiti da sottoporre ai candidati. Dal produttore al consumatore. Poi, famiglia estesa, ci sono gli amici: come quella dipendente a cui il Direttore ha fatto rimborsare delle spese legali senza nemmeno vedere la sentenza (che, infatti, non si trova) o quel sindacalista (Carlo D’Alessandro, segretario del Sicet, il sindacato della Cisl che dovrebbe tutelare gli inquilini, e componente del Cda Iacp) che si è fatto rimborsare le spese di numerosi viaggi in nord Italia solo sulla parola: perché, anche in questo caso, di ricevute, fatture, scontrini, pezze d’appoggio qualsiasi, nemmeno l’ombra. Per non parlare del fatto che lo stesso sindacato ha avuto assegnate della case dallo Iacp che non si è mai curato di chiedere il pagamento dell’affitto.
E quanto alle spese dell’Economato, gli ispettori scrivono educatamente che “in alcuni casi non sembrano attinenti all’attività dell’Ente”. Effettivamente, si tratta di giochi per pc, riviste di computer, una cuffia per ascoltare musica e perfino una irrinunciabile enciclopedia della casa.
Gli ispettori non hanno dubbi sul fatto che le carte debbano essere esaminate dalla Procura per gli aspetti penali e dalla Corte dei Conti per il danno alle casse pubbliche, ma – dopo che un giornale ha pubblicato stralci della loro relazione – il presidente della Regione, Raffaele Lombardo, noto moralizzatore, oltre che riformatore, ha disposto un nuova ispezione. E sapete con quale obiettivo? “Al fine di accertare la fondatezza di quanto riportato da un periodico locale circa presunte irregolarità nell’assegnazione di alloggi popolari”. Ma perché, se va nella sede del Dipartimento Lavori pubblici della Regione di cui lui è presidente non gliele danno le carte?

giovedì 23 settembre 2010

Il silenzioso sacco di Catania

Da qualche tempo a Catania accadono cose strane. Da qualche tempo i catanesi vivono in una bolla – come il protagonista della pubblicità dell’Amplifon – e non solo non sentono, ma non vedono, non parlano, non reagiscono agli stimoli e nella bolla sembrano galleggiare senza mai toccare terra.
Della sporcizia al largo Paisiello – con corredo di piscio e puzza annessa, a cui ora si è aggiunta anche la merda debitamente spalmata sulle scale come Nutella – ho già parlato, come della mancanza di dignità di un’amministrazione comunale che ai turisti offre piazze sporche e maleodoranti come cessi pubblici. Ma almeno in questo caso, sia pure per inconsapevole istinto, i catanesi e i muscoli del loro viso quando passano da lì un minimo di reazione l’accennano, arricciando il naso e serrando le labbra.
Nessuna reazione invece – non solo da parte di “semplici” cittadini, ma soprattutto di magistratura, Soprintendenza, associazioni di tutela del patrimonio storico e architettonico, presunte opposizioni – di fronte a un nuovo, silenzioso, strisciante sacco di Catania.
Faccio qualche esempio: già da qualche anno, nella zona fra largo Rosolino Pilo e piazza Verga, antiche costruzioni (alcune anche di prestigio e già offese negli anni Sessanta e Settanta da un proliferare di funghi multicolori) vengono abbattute en un clin d’oeil per fare spazio a ben più redditizi futuribili edifici che somigliano molto da vicino a delle astronavi. L’ultimo episodio l’ho notato qualche settimana fa: in via Musumeci c’era un palazzetto degli inizi del Novecento in ottimo stato e con un’invidiabilissima terrazza. Sono passata e non c’era più: c’è una voragine adesso, come dopo i bombardamenti, e chissà quale miscuglio di acciaio e materiali altamente tecnologici andrà a deturpare una zona già saccheggiata nei decenni.
Ora, dato che non sembra che a Catania l’emergenza abitativa sia così grave, è realistico che lo scempio serva a fare uffici e studi legali da vendere a un miliardo a mattonella e per la cui costruzione servirà una semplice licenza edilizia dal momento che a Catania il Piano regolatore non esiste.
Ma è possibile che in questa città ciascuno possa svegliarsi una mattina e fare il suo dio senza che nessuno accenni a una minima protesta? E’ possibile che la magistratura non si accorga di quel che accade a due passi dal Palazzo di Giustizia? E’ possibile che da quelle parti non sia passato, per dire, un esponente di Italia nostra o di qualche altra associazione che abbia a cuore la tutela della memoria storica della città?
A volte ho il sospetto che i catanesi siano stati rapiti dagli alieni, lobotomizzati e rimessi in circolazione come automi senza pensieri e senza emozioni. Altrimenti c’è solo un’altra spiegazione: che siano esattamente uguali agli amministratori corrotti, corruttibili e inetti che d’altra parte hanno eletto; che la loro indifferenza sia funzionale al poter fare anche loro quello che vogliono passando attraverso la catena di montaggio dei favori e senza sottoporsi alle leggi; che il loro silenzio dipenda dal fatto che sono ricattabili.

mercoledì 22 settembre 2010

Sinistra? Ma de che?

Allora, vediamo di fare un elenco delle cose che piacciono ai dirigenti del Pd:

- Industriali (che già sono cattivi per definizione: loro li preferiscono cattivissimi)
- Banche e banchieri
- Uomini di potere in odor di mafia
- Congreghe segrete e loro filiali palesi (per intenderci, massoneria e club services)
- Appalti e gare truccate
- Potere
- Soldi
- Salotti buoni
- Gioielli e tacchi alti
- Alte cariche ecclesiastiche


No, nell’elenco i lavoratori non ci sono.
Ora, dato che in politica “sinistra” non è solo un’indicazione geografica, ma intende le forze che prima di tutto hanno a cuore la tutela dei diritti dei lavoratori e dei ceti sociali più deboli, perché il Pd si ostina a definirsi sinistra? E perché, soprattutto, gli elettori di sinistra continuano a votare un partito inequivocabilmente di destra? Non è che, in fondo, è comodo e fa chic essere di sinistra, ma solo finché non si toccano i privilegi?

P.S.: l’elenco è ovviamente incompleto perché dopo un po’ che penso alle cose peggiori del mondo mi viene da vomitare e mi devo fermare: si accettano integrazioni.

giovedì 16 settembre 2010

Matita blu

Il dottor Alberto Lomeo l’ha detto chiaro: quella di aneurisma all’aorta è una diagnosi grave.
Intervistato dal Tg regionale della Rai, dopo aver presentato un esposto alla magistratura di Catania, Lomeo – che è primario di Chirurgia vascolare all’ospedale Cannizzaro – ha spiegato che, se il paziente ha una cosa del genere, la sua attività è fortemente limitata e comunque va operato subito se non si vuole rischiare la rottura dell’aorta e la morte quasi certa.
Il fatto è che il paziente in questione si chiama Raffaele Lombardo ed è il “governatore” della Sicilia e che questa diagnosi, con tanto di referto (che Lomeo si sarebbe rifiutato di firmare), è stata fatta da un medico che lavora proprio in quel reparto di Chirurgia vascolare del Cannizzaro e risale proprio ai giorni in cui il presidente della Regione – secondo voci di corridoio – rischiava l’arresto nell’ambito dell’inchiesta su mafia e politica in cui è coinvolto insieme al fratello.
Ora qui i casi sono due: o il medico in questione dal punto di vista professionale è un cesso e (conseguentemente) un assassino, perché se fai una diagnosi di quel genere – a quanto capisco – devi preparare subito l’intervento chirurgico per evitare che il paziente esploda alla prima incazzatura (e per uno che fa politica non è difficile che accada) e che ti mettano sotto inchiesta per malasanità; oppure è un fuorilegge (la procura ha ipotizzato il reato di falso) o un suddito che dichiara una cosa che non è per collusione o per sottomissione.
In ogni caso, è interessante leggere la dichiarazione stizzita dello specialista in questione che – fingendo di incazzarsi per la violazione della privacy di Lombardo – sembra piuttosto voler parargli e pararsi il culo attraverso un uso smodato dei termini tutela e tutelare: il cardiologo infatti sostiene che queste notizie siano state diffuse “per fini certo diversi da quello della tutela della salute” e quindi avverte: “A tutela della mia onorabilità preannuncio fin d’ora che tutelerò la mia correttezza professionale nelle sedi opportune”.
Tre volte in poche righe è da matita blu.

lunedì 13 settembre 2010

Il partito del Fatto (nell'assenza dei partiti)

E così Il Fatto (quotidiano) si è fatto – scusate il bisticcio di parole – partito. Una volta erano i partiti a organizzare le feste dei loro giornali; ora è il giornale che organizza la festa – tre giorni in Versilia, comme il faut: con dibattiti politici, proiezioni di film, spazio libri e momenti di divertimento - del partito che gli è nato e cresciuto intorno quasi inconsapevolmente.
Una volta erano i partiti a scrivere le proposte di legge e portarle in Parlamento, ed erano i partiti e gli uomini di sinistra a fare quelle serie e importanti. Uno per tutti, Pio La Torre, di cui indegnamente e infangandone la memoria il Pd si proclama erede. La legge seria e importante – quella contro la corruzione - ora l’ha scritta il Fatto. Evento curioso ma onore al merito, dal momento che i partiti che stanno in Parlamento e certamente il principale (?) partito di opposizione (???) si guarda bene dal disturbare il manovratore mentre i veri partiti di opposizione che stanno fuori dal Parlamento – ormai afasici e depressi, spero non cronicamente - sembrano non riuscire a riemergere dalle sabbie mobili nemmeno con una legge di iniziativa popolare. Lodevole, dunque, l’iniziativa del Fatto, giornale ottimo, serio e combattivo (anche se alcuni suoi giornalisti – permettetemi un appunto – sconoscono l’uso della punteggiatura e a volte ti sembra di esserti imbattuto nell’oracolo della Sibilla cumana) e sicuramente preferisco il partito del Fatto al partito del fare (che poi sarebbe del farsi i cazzi propri, cioè quello di Berlusconi) e a quello dei fatti e strafatti, ma francamente preferirei tornare a quella cosa antica che si chiama “centralità della politica” e vorrei che quella cosa antica fosse gestita da quell’altra cosa antica, ma ancora sinonimo di democrazia, che sono i partiti. Partiti veri: non partiti-giornali, né partiti-persona (e ce n’è, ahimè, anche nel centrosinistra e nella sinistra), né tantomeno partiti-azienda.
Perché in tutti e tre i casi si rischia il qualunquismo. Ora, per esempio, oltre che le feste e le leggi, c’è una terza cosa che Il Fatto si è intestato al posto dei partiti: una cosa che non amo, come quasi tutto ciò che viene dall’America, ma ormai esiste, è realtà consolidata e bisogna farci i conti, e cioè le primarie. Sarà che non mi sento rappresentata da nessuno dei candidati proposti dal quotidiano – Bersani, Fini, Di Pietro, Grillo, Pannella e Vendola, perché dei primi due, uno è il leader di un partito che ha svenduto gli interessi dei lavoratori e il secondo è un fascista, mentre gli altri coltivano il culto della personalità e sono essi stessi “partito” -, ma mi sembra che in questo caso il giornale indulga all’antipolitica.
Certamente c’è da stare preoccupati a leggere i commenti di alcuni lettori che rispondono a quello che Il Fatto saggiamente chiama “sondaggio”. Vogliamo fare un esempio? Ce n’è uno, tanto per dire, che si cimenta nel gioco del governo, facendo i nomi di chi dovrebbe farne parte e ipotizza una sorta di monocolore democristiano – cioè Pd – con Bersani premier e qualche piccolissima concessione a esponenti di altri partiti (ammesso che Vendola possa essere considerato di un altro partito), dimenticando che il cosiddetto maggior partito di opposizione oggi è un po’ sopra il 20% e quindi c’è poco da fare gli “sboroni” e anzi sarebbe auspicabile un po’ di umiltà, magari ricordando a cosa ha portato l’autosufficienza veltroniana. Ma il lettore in questione dà il meglio (!) di sé quando assegna le deleghe e una in particolare, riproponendo una visione del mondo vecchia, maschilista e di divisione di ruoli. Insomma, secondo lui non solo alle Pari opportunità, ministero universalmente considerato minore, quasi uno zuccherino, è ovvio che debba starci una donna, ma per di più dovrebbe starci l’unico essere umano (a prescindere dal sesso) con i controcazzi che sia rimasto nel Pd: Rosi Bindi. Roba da far drizzare i capelli in testa.
Poi c’è un altro che propone una “Federazione di sinistra” fra “Pd, IdV e Vendola” e auspica da parte di quest’ultimo una leadership di colloquio con i giovani individuata in Debora Serracchiani. Vediamo di analizzare questa proposta: 1) il confuso lettore dimentica che esiste già la “Federazione della Sinistra” (Prc, Pdci, Socialismo 2000 e Lavoro e solidarietà) e infatti non ne parla proprio; 2) il Pd non è un partito di sinistra, per sua stessa ammissione e perché è nei fatti (qualcuno ricorda Calearo?); 3) è evidente che anche lui considera Vendola un partito (lo ribadisco: si chiama culto della personalità, che al diretto interessato non sembra dispiacere affatto); 4) Debora Serracchiani? Ma l’ha mai sentita parlare? Questa è una che si è fatta eleggere spacciandosi per “nuovo che avanza” e ha una terminologia da vecchio volpone della politica, per di più senza capire un cazzo di politica. Ma la gente dove vive?
Vogliamo continuare? Ma sì, vi annoio ancora per un po’. Giusto il tempo di notare che la gran parte di quelli che sostengono Vendola ha un’argomentazione comune e cioè che il governatore della Puglia parla bene. Cioè, è un grande affabulatore. Cioè, detta ancora più chiaramente: è bravissimo a prenderci per il culo. Poi ci sono quelli che sbavano per Grillo, chi definisce Bersani un ottimo leader e l’unica alternativa (scusate se mi sto scompisciando dalle risate) e infine chi lancia un nuovo candidato nell’agone e dichiara che “il sogno (non specifica di che genere) sarebbe la Finocchiaro”.
Infine qualcuno – drammaticamente – non lascia un commento, ma soltanto un nome e un cognome: Enrico Berlinguer. Appunto: perché partiti veri non ce n’è più e dirigenti politici nemmeno.

sabato 11 settembre 2010

Compagni e borghesi

Un mio amico ha lasciato la moglie perché ama un'altra donna. "Non mi andava - mi ha spiegato - di fare la cosa squallida dell'uomo sposato che ha l'amante". Questi sono i compagni, quelli che fanno le cose alla luce del sole e che tutelano la lealtà come un bene prezioso. Gli altri, anche se si definiscono compagni, sono solo merde borghesi.

giovedì 9 settembre 2010

Massimo D'Alema, Franco Basaglia e Napoleone Bonaparte

Diciamocelo chiaramente: il primo a parare il culo all’infimo dittatore non è stato Massimo D’Alema (che certamente rosicherà all’idea di perdere questo primato), ma un altro uomo di sinistra. E’ stato Franco Basaglia, che alla fine degli anni Settanta spiegò che era il momento di eliminare i matti ope legis (non è andata esattamente così: la legge l’hanno fatta e poi le hanno messo il suo nome, anche se lui non era d’accordo, ma tant’è). Solo che lui (a differenza di D’Alema) era in buona fede: lui davvero credeva che si potessero curare, che la società potesse farsene carico senza rinchiuderli e poi già allora erano passate abbondantemente di moda le patetiche barzellettine sui manicomi e sul solito, immancabile ospite che cammina avanti e indietro con la mano sotto la giacca altezza petto.
Che ne poteva sapere il povero Basaglia che un giorno quelle barzellette sarebbero tornate di attualità? Non poteva certo immaginare che nella realtà italiana una trentina d’anni dopo sarebbe apparso un ometto, un omuncolo che pensava di essere il padrone e di poter licenziare il Presidente della Camera e dare ordini al Presidente della Repubblica.

martedì 7 settembre 2010

Sei un cretino!

Ora l’indagato è il pilota. Sempre così: cade un aereo e l’indagato è il pilota (meglio se morto, così non si può difendere); un treno deraglia e l’indagato è il macchinista; un’auto arriva in picchiata sugli spettatori durante una gara e l’indagato è il pilota.
Atto dovuto, certo. Così anche per quello che è accaduto due giorni fa durante la cronoscalata Catania-Etna, dove è morto un ragazzo di 27 anni. Il pilota, sembra di capire, avrebbe perso il controllo della vettura. Ma il fatto è che quel ragazzo lì, su quel muretto insieme a tutti gli altri, non avrebbe dovuto starci perché si sapeva che era in una curva pericolosa e c’era pure scritto. Eppure nessuno si è preoccupato di non farli stare là.
In tv ho sentito un giornalista intervistare qualcuno. Due domande: alla prima – chi avrebbe dovuto impedire la presenza di quelle persone su quel muretto – quel qualcuno ha risposto correttamente, spiegando che avrebbero dovuto farlo gli organizzatori e le forze dell’ordine. Alla seconda – sul perché non l’hanno fatto – è arrivata la risposta sbagliata: fra il compiaciuto e il divertito, l’uomo al microfono ha infatti certificato che “noi siciliani siamo ingovernabili”.
Beh, sai che ti dico? Sei un cretino! Non mi interessa se sei un grande esperto di gare automobilistiche: chiunque tu sia e se anche fossi il Presidente della Repubblica, dopo che hai detto una cosa del genere sei solo un cretino.
E perché mai, di grazia, si può schierare l’esercito contro lavoratori in lotta per il loro futuro e non si può mandare via (anche con la forza, se necessario, visto che serve a salvargli la vita) una folla di tifosi? Cosa raccontiamo ai genitori di quel ragazzo di 27 anni, che loro figlio è morto perché “noi siciliani siamo ingovernabili”? Io, invece che il pilota, nel registro degli indagati iscriverei quello che ha detto una simile cazzata: atto dovuto, contro la stupidità.

lunedì 6 settembre 2010

Il comitatone d'affari

Dalle indagini sulla cricca dei Servizi sociali di Catania al libro dei favori: da questo pezzo, scritto per il numero in uscita di Casablanca, emerge chiaramente come in Sicilia la sudditanza a Lombardo non abbia colore politico e come la Prima Repubblica non sia mai finita


La verità è che – al di là degli scontri sul governo, delle discussioni su chi sia maggioranza e chi opposizione, delle rivendicazioni di paternità a proposito di riformismo, dei correntismi, degli spezzettamenti e delle ricomposizioni anomale; e da qualunque parte la si guardi e anche a costo di apparire qualunquisti – l’inchiesta sulla cricca catanese dei servizi sociali, con tutte le indagini correlate come quella sul famoso libro delle clientele di Lombardo o l’altra su presunti rapporti con la mafia, svela come, al momento di spartirsi la torta (non solo soldi, ma soprattutto voti e dunque potere), Catania e la Sicilia siano in mano ad un unico, enorme comitato d’affari che mette radici nella Prima Repubblica e continua a proliferare nella cosiddetta Seconda Repubblica.
Per accorgersene, basta spulciare i nomi dei 16 arrestati e dei 55 indagati dell’inchiesta che ha svelato l’esistenza di un vero e proprio “sistema” per aggiudicare agli amici gli appalti per servizi (che spesso non venivano nemmeno erogati) alle fasce sociali più deboli: uno a me e uno a te, uno a Lombardo e uno a Firrarello, uno all’Mpa e uno al Pdl - compreso qualche esponente di An -, e poi sindacalisti Cisl, candidati di presunte liste civiche/civetta legate al sindaco Stancanelli, qualche ex socialista magari non transitato in Forza Italia e nelle sue successive metamorfosi, ma certamente rimasto con le mani in pasta. Con ruoli determinanti, comunque, degli uomini di Raffaele Lombardo. Tanto che la procura di Catania, forse anche sollecitata da un video del giornalista Antonio Condorelli passato sul sito del quotidiano “Il fatto”, ha deciso di estendere le indagini e cominciare a esaminare anche il “libro delle clientele” saltato fuori all’indomani dell’elezione del presidente della Regione.
E’ del Movimento per l’autonomia, ad esempio, l’ex assessore alle Politiche sociali della giunta Scapagnini, Giuseppe Zappalà, arrestato perché secondo il procuratore aggiunto di Catania, Michelangelo Patanè, era il “referente politico” dell’ideatore della megatruffa ai danni dei più deboli: quell’Ubaldo Camerini (anch’egli finito in cella, ma per il tempo di un batter di ciglio), responsabile del settore amministrativo dell’assessorato oltre che del distretto socio-sanitario numero 16, non nuovo a quanto sembra a maneggi e dimostrazioni di arroganza di ogni genere, come dimostra un’altra inchiesta della magistratura catanese, dell’ottobre 2009, dalla quale è emerso che il direttore dei Servizi sociali e la sua banda avevano magicamente trasformato in premi di produzione per il personale oltre cinquanta dei poco più di settanta milioni di euro del progetto “Estate sicura” 2004 che prevedeva l’acquisto di condizionatori d’aria per i vecchietti. Ovviamente, se è vero quanto riferiscono alcuni dipendenti comunali, nella gamma delle manifestazioni di arroganza non poteva mancare l’isolamento e poi l’epurazione di collaboratori che avevano il grave torto di essere “persone per bene”.
Zappalà, come da copione, al momento dell’arresto è stato colto da malore (che gli viene sempre dopo, quando vengono beccati con le mani nella marmellata, e mai prima di compiere le loro porcherie) e così ha vinto una vacanza a casa. Anche se sembra che una casa non ce l’abbia, perché i magistrati avevano emesso anche nei suoi confronti (come in quelli di Camerini) un provvedimento di sequestro di beni e hanno scoperto che risulta nullatenente, povero in canna. Un’epidemia, quella del malore postumo, che ha colpito anche Nino Novello, avvocato e dirigente dell’Unione italiana ciechi, rappresentante legale della cooperativa “Città del Sole” (il cui nome rende omaggio all’opera di Tommaso Campanella “che – si legge sul sito della coop – propone un modello ideale di società di giustizia e di uguaglianza ed, insieme, l’utopia di un totale rinnovamento civile e spirituale” e che da quasi un ventennio è assegnataria di appalti e finanziamenti vari, da sola o nel ruolo di capofila, come è accaduto nel 2009, quando la Fondazione Sud stanziò trecentomila euro per un progetto di recupero dell’arte dei pupari da far conoscere anche a giovani non vedenti), dirigente regionale della Lega delle Cooperative, associazione che nelle ore successive all’operazione del Carabinieri (arrivata a conclusione di due anni di indagini) lo aveva sospeso dalla carica, “in ottemperanza al codice etico”, ma pochi giorni dopo lo ha reintegrato e rinnovato la fiducia motivando la decisione – si legge in un comunicato di sfida al senso del ridicolo – “alla luce degli sviluppi della vicenda giudiziaria di Catania”. Come se gli arresti domiciliari fossero una sentenza di assoluzione.
Emblematica la vicenda di Novello e della sua assoluzione per sentenza di Legacoop – che rappresenta le cooperative tradizionalmente etichettate “di sinistra” -, perché dà la misura di quel grumo di interessi trasversali che come un blob avvolge e soffoca la Sicilia impedendo qualunque sussulto di dignità a un popolo stremato: nella terra di Raffaele Lombardo e dell’opposizione che non fa opposizione, se vuoi lavorare ti serve la raccomandazione; se hai bisogno di un trapianto, ti serve la raccomandazione; persino se devi iscrivere il bambino all’asilo ti serve la raccomandazione. E’ questo quello che emerge dal libro delle clientele di Raffaele Lombardo, migliaia di clientes e di favori elargiti a destra e a manca; ed è questo che ha evidenziato fra le righe ma non troppo Sonia Alfano, durante una conferenza stampa tenuta nel maggio del 2008 dopo la scoperta di questo documento zeppo di nomi e di casi umani di ogni genere, oltre che di politici di ogni schieramento, quando chiedeva dove fosse finito “il capo dell’opposizione” siciliana e aggiungeva che quell’incontro con i giornalisti avrebbero dovuto indirlo “la senatrice Finocchiaro e il Pd siciliano”. Già, e come avrebbero potuto dal momento che (molto prima che persino Beppe Lumia decidesse inspiegabilmente di fare da stampella al “riformatore” Lombardo) i nomi di alcuni esponenti di quel partito figurano fra i questuanti? C’è bisogno di un grande lavoro di intelligence, per esempio, per scoprire chi è quel G. V., “deputato regionale e sindacalista” (ne parlava Antonio Condorelli in un articolo su Centonove) che chiede una docenza a Palermo per una laureata in Ingegneria?
Ma dal “libro” emerge anche il ruolo fondamentale dei Servizi sociali, settore che vive su fondi statali vincolati e che dunque non possono venir meno in caso di insolvenza del comune (come è il caso di Catania): referente il solito ex assessore Zappalà, fra le associazioni che chiedono un finanziamento (centomila euro) per un progetto redatto facendo riferimento alla legge 285, c’è per esempio la Muoversi per gli altri. Acronimo: Mpa.
Stupisce però – e secondo alcuni uomini di legge è difficile che si tratti di un fatto di prescrizione dei reati – che la magistratura catanese abbia limitato le sue indagini sulla cricca dei Servizi sociali a un periodo relativamente recente, trascurando invece quello in cui l’assessore era Forzese (della cui gestione “spregiudicata” parlano in molti, ricordando le convenzioni con case di riposo o di accoglienza dei minori “a costo pieno”: l’appalto prevedeva dieci e – a quanto si dice - veniva pagato per dieci, anche se gli assistiti reali erano tre) e soprattutto in cui accanto a un sindaco vanesio ed evanescente sedeva e comandava un vicesindaco molto potente: Raffaele Lombardo.