Oggi il sondaggista impomatato Masia – quello che sembra uscito da una rivista patinata degli anni Ottanta - in apertura della diretta de La7 sui risultati elettorali, evidentemente ignaro del risultato del primo turno e di avere sbagliato clamorosamente (ammesso che di errore si sia trattato) riguardo alla Federazione della Sinistra, ha continuato a fornire intenzioni (indicazioni?) di voto sballate, con la complicità del direttore Enrico Mentana che, per sovrappiù, definiva la FdS “ex Rifondazione comunista”. Dimenticando (?) che della Fds fanno parte Rifondazione comunista, i Comunisti italiani, Socialismo 2000 e Lavoro e Solidarietà, cioè quelli che stanno dalla parte dei lavoratori e dei ceti deboli, categorie evidentemente fuori moda per qualcuno. Così, giusto per fare un po’ di confusione perché torna utile a qualcuno. Mentana, invece, avrebbe fatto bene a dire a Masia: “Grazie, ci faremo risentire noi”. E farebbe bene a riprendere a dare le notizie in maniera corretta, se non vuole che gli elettori truffati gli facciano una class action e lo licenzino.
Quanto a me, mi è bastato ascoltare i sondaggi taroccati di Masia per sapere che avevamo vinto e, quando ne ho avuto la certezza, mi è venuto un mezzo infarto (come, penso, a tutti i miei amici, i compagni, le persone per bene, quelli che non ne possono più di un governo di delinquenti che ha affamato l’Italia e costretto i nostri ragazzi ad andarsene), ho riso, ho pianto, ho ballato, ho sentito il mio cuore che faceva bungee jumping come quando ti innamori per la prima volta, ho fatto tanta pipì. Ho incontrato un ragazzo nero, gli ho sorriso e ho detto: “Ora andrà meglio anche per te”. Ho pensato a mio figlio e alla sua compagna, negli ultimi giorni doppiamente “indignados”, per il loro Paese natale e per quello di adozione, e mi sono detta: “Ora forse potete tornare”. E non credo che Mentana e Masia abbiano mai provato tante emozioni tutte in una volta.
lunedì 30 maggio 2011
Zia Tata, zia Cosima e i giornalisti
Mia zia si chiama Tata e non mi ha mai torto un capello. Anzi, a dirla tutta, quand’ero molto piccola ero io che li torcevo a lei, intere ciocche, perché non riuscivo ad addormentarmi se non arrotolandomi i suoi capelli fra le dita. Ora confesso che stamattina ho sentito un misto di raccapriccio, fastidio, repulsione e rabbia ascoltando un giornale radio di quella Rai che fa di tutto perché io smetta di pagare il canone (ma l’insana abitudine di cui sto per parlarvi vige a reti unificate) in cui, nell’ennesimo vampiresco servizio sul delitto di Avetrana, si parlava di “zia Cosima”. Così, quasi con affetto, come uno dice zia Tata: “zia Cosima”.
Non riesco a capire perché. E, soprattutto, non riesco a capire se i miei colleghi si prestano a questo gioco perché totalmente funzionali al sistema o perché si sono bevuti totalmente il cervello.
Mi spiego: la prima volta che io ricordi tanta umana partecipazione e il protagonista di una vicenda chiamato per nome fu ai tempi di Vermicino. Tutti parlavano soltanto di Alfredino (Rampi), il bimbo finito in un pozzo artesiano e morto dopo giorni di agonia in diretta. Ma, appunto, era un bambino. Ed era una vittima: chiamarlo soltanto per nome, senza aggiungere il burocratico cognome, era un modo per sentirci tutti partecipi, per sentirci tutti la sua famiglia. Il fatto è che poi quest’uso è diventato dilagante e allora sono arrivati Omar ed Erika. E fino a lì posso capire: erano minorenni all’epoca in cui ammazzarono come animali al macello la mamma e il fratellino di lei. Ma perché, adesso, Annamaria? Perché Olindo e Rosa? Perché zia Cosima? Perché parlarcene come fossero gli amici con cui si va a mangiare la pizza il sabato sera o come la sorella di nostra mamma e, in ogni caso, come persone che rientrano nella sfera degli affetti? Io non vado a cena con gli assassini e mia zia (la zia, anche se si tratta di un’amica di famiglia) è la persona più tenera del mondo. Qual è l’obiettivo, farceli diventare simpatici? O prepararci al peggio, al fatto che le cose più terribili possono venirti dalla famiglia? Cos’è, una versione aggiornata, riveduta e corretta della sindrome di Stoccolma? E’ la stessa strategia in base alla quale chiamando Silvio uno che si è inculato un Paese intero, fa meno male perché – dal momento che lo chiami per nome – vuol dire che eravate intimi e dunque eri consenziente? O non sarà che, in questa foga di celebrità e di religione dell’apparire, chiamare per nome il personaggio celebre (che lo sia perché è un assassino o perché è Berlusconi, che poi è quasi lo stesso) è un modo per illudersi di godere di un po’ della sua celebrità?
Io preferisco il mio anonimato e l’anonimato delle persone a cui voglio bene. Preferisco zia Tata e non so che farmene della celeberrima “zia Cosima”.
Restando in argomento Rai e in argomento “chi cazzo me lo fa fare a pagare il canone se poi mi deve venire la gastrite?”, segnalo che sempre questa mattina il gr regionale della Sicilia ha ritenuto opportuno fottersene di elezioni amministrative, di immigrati che non vengono soccorsi, di un presidente di regione indagato per mafia e di un’altra serie di amenità per privilegiare l’argomento principe: una partita di calcio.
Sì, lo so che era la finale di coppa Italia e so che era decisiva per il Palermo, ma era una partita di calcio. Cioè: una minchiata rispetto ai problemi enormi della Sicilia. Invece loro non solo l’hanno messa in apertura, ma le hanno dedicato tre quarti di giornale radio, con il servizio lacrimoso da funerale, le interviste ai tifosi, i pareri dei tecnici e degli “esperti” (boom!), le recriminazioni di chi immancabilmente si è sentito rubata la partita, di chi addirittura parla di poteri forti (ma andate a cagare!)…dopo, soltanto dopo, dopo avere assolto alla loro funzione di rincretinire le persone facendogli credere che il calcio sia la cosa più importante al mondo e quando l’ascoltatore era esausto e avrebbero persino potuto dirgli che gli era appena scoppiata sotto il culo la bomba atomica senza che avesse la minima reazione, solo allora, en passant e molto in fretta – come a dover sbrigare una fastidiosa pratica burocratica -, hanno riferito delle elezioni amministrative, degli immigrati che non vengono soccorsi, di un presidente di regione indagato per mafia…
Ma a me chi cazzo me lo fa fare a pagare il canone? E, soprattutto, a me chi cazzo me lo fa fare di definirmi giornalista. Sì, lo so, sono iscritta all’ordine: ma ci dev’essere qualcosa che non quadra. O io o loro, ma qualcuno è fuori posto. Ed è probabile che sia io.
Non riesco a capire perché. E, soprattutto, non riesco a capire se i miei colleghi si prestano a questo gioco perché totalmente funzionali al sistema o perché si sono bevuti totalmente il cervello.
Mi spiego: la prima volta che io ricordi tanta umana partecipazione e il protagonista di una vicenda chiamato per nome fu ai tempi di Vermicino. Tutti parlavano soltanto di Alfredino (Rampi), il bimbo finito in un pozzo artesiano e morto dopo giorni di agonia in diretta. Ma, appunto, era un bambino. Ed era una vittima: chiamarlo soltanto per nome, senza aggiungere il burocratico cognome, era un modo per sentirci tutti partecipi, per sentirci tutti la sua famiglia. Il fatto è che poi quest’uso è diventato dilagante e allora sono arrivati Omar ed Erika. E fino a lì posso capire: erano minorenni all’epoca in cui ammazzarono come animali al macello la mamma e il fratellino di lei. Ma perché, adesso, Annamaria? Perché Olindo e Rosa? Perché zia Cosima? Perché parlarcene come fossero gli amici con cui si va a mangiare la pizza il sabato sera o come la sorella di nostra mamma e, in ogni caso, come persone che rientrano nella sfera degli affetti? Io non vado a cena con gli assassini e mia zia (la zia, anche se si tratta di un’amica di famiglia) è la persona più tenera del mondo. Qual è l’obiettivo, farceli diventare simpatici? O prepararci al peggio, al fatto che le cose più terribili possono venirti dalla famiglia? Cos’è, una versione aggiornata, riveduta e corretta della sindrome di Stoccolma? E’ la stessa strategia in base alla quale chiamando Silvio uno che si è inculato un Paese intero, fa meno male perché – dal momento che lo chiami per nome – vuol dire che eravate intimi e dunque eri consenziente? O non sarà che, in questa foga di celebrità e di religione dell’apparire, chiamare per nome il personaggio celebre (che lo sia perché è un assassino o perché è Berlusconi, che poi è quasi lo stesso) è un modo per illudersi di godere di un po’ della sua celebrità?
Io preferisco il mio anonimato e l’anonimato delle persone a cui voglio bene. Preferisco zia Tata e non so che farmene della celeberrima “zia Cosima”.
Restando in argomento Rai e in argomento “chi cazzo me lo fa fare a pagare il canone se poi mi deve venire la gastrite?”, segnalo che sempre questa mattina il gr regionale della Sicilia ha ritenuto opportuno fottersene di elezioni amministrative, di immigrati che non vengono soccorsi, di un presidente di regione indagato per mafia e di un’altra serie di amenità per privilegiare l’argomento principe: una partita di calcio.
Sì, lo so che era la finale di coppa Italia e so che era decisiva per il Palermo, ma era una partita di calcio. Cioè: una minchiata rispetto ai problemi enormi della Sicilia. Invece loro non solo l’hanno messa in apertura, ma le hanno dedicato tre quarti di giornale radio, con il servizio lacrimoso da funerale, le interviste ai tifosi, i pareri dei tecnici e degli “esperti” (boom!), le recriminazioni di chi immancabilmente si è sentito rubata la partita, di chi addirittura parla di poteri forti (ma andate a cagare!)…dopo, soltanto dopo, dopo avere assolto alla loro funzione di rincretinire le persone facendogli credere che il calcio sia la cosa più importante al mondo e quando l’ascoltatore era esausto e avrebbero persino potuto dirgli che gli era appena scoppiata sotto il culo la bomba atomica senza che avesse la minima reazione, solo allora, en passant e molto in fretta – come a dover sbrigare una fastidiosa pratica burocratica -, hanno riferito delle elezioni amministrative, degli immigrati che non vengono soccorsi, di un presidente di regione indagato per mafia…
Ma a me chi cazzo me lo fa fare a pagare il canone? E, soprattutto, a me chi cazzo me lo fa fare di definirmi giornalista. Sì, lo so, sono iscritta all’ordine: ma ci dev’essere qualcosa che non quadra. O io o loro, ma qualcuno è fuori posto. Ed è probabile che sia io.
venerdì 27 maggio 2011
Il mio "quid" di speranza e di emozione
Stamattina riflettevo sul fatto che – pur essendo consapevole dell’importanza nazionale delle elezioni amministrative di Milano, del fatto che la sconfitta della Moratti sarebbe il colpo di grazia a Berlusconi, dell’emozione e delle palpitazioni che mi suscitano queste come tutte le altre elezioni, avendo io il vizio di appassionarmi alle cose del mio Paese – la mia attenzione per Napoli ha quel “quid” in più, qualcosa forse di irrazionale e che attiene più alle ragioni del cuore, che mi fa aspettare il risultato del ballottaggio con particolare fibrillazione.
Catania e Napoli, la Sicilia e la Campania, hanno tante – troppe - cose in comune perché io non mi senta particolarmente partecipe, vivono la stessa disperazione perché io non possa sperare che – in caso di vittoria a Napoli – anche qui si possa cambiare. Catania e Napoli, unite dal problema principale: no, non il traffico. La mafia a Catania, la camorra a Napoli. Da cui derivano tutti gli altri problemi: la disoccupazione a livelli insostenibili, il clientelismo, le raccomandazioni, l’assenza di servizi sociali (utili solo a elargire consulenze e nomine), l’illegalità diffusa, le strade sporche e poi, sì, anche il traffico, figlio di amministrazioni che non sanno e soprattutto non vogliono mettere a punto piani per la viabilità che rendano civile la città. Napoli e Catania, la Sicilia e la Campania. Se vinciamo lì, se vince De Magistris, forse anche qui può succedere qualcosa. Anche nella Sicilia governata dal re delle clientele che incontra i boss mafiosi.
Lì, però, un Pd pessimo, perfettamente integrato in un orribile sistema di potere, alla fine ha capito, ha dovuto capire – perché gliel’hanno fatto capire chiaramente i suoi elettori al primo turno, fregandosene degli ordini di scuderia e votando per la persona giusta – che il tema della legalità è irrinunciabile e che un centrosinistra senza sinistra è una contraddizione in termini.
Qui ci vorrebbe da parte del Pd a un tempo uno scatto d’orgoglio e un bagno di umiltà; bisognerebbe che il Pd ammettesse di aver preso una cantonata decidendo di sostenere il peggio del peggio (ammesso che sia possibile stilare una classifica) del centrodestra soltanto per “vincere facile”, perché i voti e/o i posti di governo ottenuti al gratta e vinci della politica come sono venuti se ne vanno; bisognerebbe – e sarebbe sufficiente - che i vertici del Pd aprissero gli occhi e si accorgessero del degrado e della disperazione in cui versa la Sicilia; basterebbe che ritrovassero la dignità e il senso delle loro origini. E – senza voler essere a tutti i costi attaccati a quelle che altri definiscono vecchie categorie della politica – che si rendessero conto che il centrosinistra non può essere centrocentrodestra. Il centrosinistra, di solito, è costituito da un centro moderato e da una sinistra: non da un altro centro, ma una sinistra vera. Se non è così, non si va da nessuna parte. Soprattutto in Sicilia. Per questo spero nella vittoria di De Magistris (oltre che in quella di Pisapia a Milano, naturalmente): perché se ce la fa Napoli, anche la Sicilia potrà ritrovare la dignità.
Catania e Napoli, la Sicilia e la Campania, hanno tante – troppe - cose in comune perché io non mi senta particolarmente partecipe, vivono la stessa disperazione perché io non possa sperare che – in caso di vittoria a Napoli – anche qui si possa cambiare. Catania e Napoli, unite dal problema principale: no, non il traffico. La mafia a Catania, la camorra a Napoli. Da cui derivano tutti gli altri problemi: la disoccupazione a livelli insostenibili, il clientelismo, le raccomandazioni, l’assenza di servizi sociali (utili solo a elargire consulenze e nomine), l’illegalità diffusa, le strade sporche e poi, sì, anche il traffico, figlio di amministrazioni che non sanno e soprattutto non vogliono mettere a punto piani per la viabilità che rendano civile la città. Napoli e Catania, la Sicilia e la Campania. Se vinciamo lì, se vince De Magistris, forse anche qui può succedere qualcosa. Anche nella Sicilia governata dal re delle clientele che incontra i boss mafiosi.
Lì, però, un Pd pessimo, perfettamente integrato in un orribile sistema di potere, alla fine ha capito, ha dovuto capire – perché gliel’hanno fatto capire chiaramente i suoi elettori al primo turno, fregandosene degli ordini di scuderia e votando per la persona giusta – che il tema della legalità è irrinunciabile e che un centrosinistra senza sinistra è una contraddizione in termini.
Qui ci vorrebbe da parte del Pd a un tempo uno scatto d’orgoglio e un bagno di umiltà; bisognerebbe che il Pd ammettesse di aver preso una cantonata decidendo di sostenere il peggio del peggio (ammesso che sia possibile stilare una classifica) del centrodestra soltanto per “vincere facile”, perché i voti e/o i posti di governo ottenuti al gratta e vinci della politica come sono venuti se ne vanno; bisognerebbe – e sarebbe sufficiente - che i vertici del Pd aprissero gli occhi e si accorgessero del degrado e della disperazione in cui versa la Sicilia; basterebbe che ritrovassero la dignità e il senso delle loro origini. E – senza voler essere a tutti i costi attaccati a quelle che altri definiscono vecchie categorie della politica – che si rendessero conto che il centrosinistra non può essere centrocentrodestra. Il centrosinistra, di solito, è costituito da un centro moderato e da una sinistra: non da un altro centro, ma una sinistra vera. Se non è così, non si va da nessuna parte. Soprattutto in Sicilia. Per questo spero nella vittoria di De Magistris (oltre che in quella di Pisapia a Milano, naturalmente): perché se ce la fa Napoli, anche la Sicilia potrà ritrovare la dignità.
giovedì 26 maggio 2011
La mafia è una montagna di merda 2
Oggi sono uscite due notizie che sembrano speculari. Una viene dalla Sicilia occidentale, da Corleone per l’esattezza; l’altra dalla parte orientale dell’Isola: da Catania. Entrambe danno un senso di scoramento e di smarrimento, perché entrambe ci raccontano cosa è diventata – al di là delle ipocrite parate in occasione degli anniversari – la lotta alla mafia. Se una volta, fino a non troppi anni fa, i mafiosi dicevano che la mafia non esiste, oggi l’obiettivo è oscurare in qualsiasi modo chi in questa terra di saccheggiatori - governata da un uomo che frequenta i boss – si batte in difesa della legalità. E fa male al cuore dover registrare una terza notizia che, sempre oggi, quasi a chiudere il cerchio o un ideale triangolo, viene dalla parte meridionale della Sicilia, da Ragusa, e riguarda una sentenza della magistratura.
Cancellare, oscurare, imbrogliare le carte. Anzi, i faldoni. Perché la prima notizia riguarda proprio la “Stanza dei faldoni” che si trova a Corleone, all’interno del Centro internazionale di documentazione sulle mafie e movimento antimafia. Inaugurata nel 2000, la struttura ha ricevuto in dono dalla camera penale del Tribunale di Palermo centinaia di documenti riguardanti il maxiprocesso, che però nessuno può consultare. Non un archivio. Non un inventario.
A denunciarlo è stata Massimiliana Fontana – che gestisce il Centro – spiegando come dal giorno dell’inaugurazione, ben undici anni fa, “aspettiamo che si proceda alla digitalizzazione dei documenti. Senza, è impossibile, per chi deve fare una ricerca, trovare dei riferimenti precisi. E’ come cercare un ago in un pagliaio”. Ed è quanto accaduto – secondo il racconto di Fontana - a una ragazza arrivata apposta da Parigi per studiare i documenti che le servivano per la sua tesi di laurea e tornata a casa con un pugno di mosche in mano. Mentre a Corleone – è sempre la denuncia di Fontana – molti nemmeno sanno che esiste il Cidma. Cancellare, oscurare, imbrogliare le carte.
La seconda notizia è quella di Catania e segue un’altra simile, proveniente sempre dal capoluogo etneo, arrivata all’inizio del mese. Tutte e due, non so quanto casualmente, in concomitanza con due anniversari importanti: il 9 maggio, giorno dell’uccisione di Peppino Impastato per mano mafiosa, e il 23 maggio, la data della strage di Capaci. Della prima avevo già parlato: Addiopizzo aveva lanciato una campagna di sensibilizzazione che si chiama “Un muro contro la mafia” e proprio dal muro in cui l’associazione aveva scritto la frase “Contro la mafia l’amore per la memoria e l’impegno dell’azione” qualcuno si era premurato di cancellare le prime tre parole. Oggi la seconda puntata: un altro mafioso – di questo si tratta, e non mi stancherò mai di ripeterlo – ha versato della vernice sul volto di Giovanni Falcone, raffigurato su un altro muro insieme a Francesca Morvillo, al viale Ulisse. Cancellare, oscurare.
Dev’essere per questo che oggi mi fa ancora più rabbia (rabbia accresciuta dal fatto che non mi piace commentare le sentenze della magistratura e invece mi sento quasi costretta a farlo, e accresciuta dal fatto che la magistratura, che tanto ha pagato in vite umane, metta a tacere le voci libere contro la mafia) sapere che la Corte d’Appello di Catania ha confermato la condanna al giornalista ragusano Carlo Ruta per “stampa clandestina”: un reato vecchio quanto il cucco tanto che, come ricordò due anni fa Beppe Giulietti in occasione della condanna di primo grado, negli ultimi trent’anni nessuno è mai più stato condannato per una cosa simile in Italia.
In Italia, appunto. Ma in Sicilia, no. In Sicilia chi tocca i fili muore e Carlo Ruta, dal suo blog, finché non è stato oscurato dal Tribunale di Ragusa, non ha mai smesso di toccare i fili, con le sue inchieste antimafia. Cancellare, oscurare.
Lo avevo già proposto in occasione del primo imbrattamento di Catania e lo ripropongo di nuovo adesso: facciamogli capire che noi con la mafia non vogliamo avere niente a che fare, che non abbiamo paura. Come abbiamo fatto con le bandiere della pace, mettiamo ai nostri balconi striscioni con le parole di Peppino Impastato: “La mafia è una montagna di merda”.
Cancellare, oscurare, imbrogliare le carte. Anzi, i faldoni. Perché la prima notizia riguarda proprio la “Stanza dei faldoni” che si trova a Corleone, all’interno del Centro internazionale di documentazione sulle mafie e movimento antimafia. Inaugurata nel 2000, la struttura ha ricevuto in dono dalla camera penale del Tribunale di Palermo centinaia di documenti riguardanti il maxiprocesso, che però nessuno può consultare. Non un archivio. Non un inventario.
A denunciarlo è stata Massimiliana Fontana – che gestisce il Centro – spiegando come dal giorno dell’inaugurazione, ben undici anni fa, “aspettiamo che si proceda alla digitalizzazione dei documenti. Senza, è impossibile, per chi deve fare una ricerca, trovare dei riferimenti precisi. E’ come cercare un ago in un pagliaio”. Ed è quanto accaduto – secondo il racconto di Fontana - a una ragazza arrivata apposta da Parigi per studiare i documenti che le servivano per la sua tesi di laurea e tornata a casa con un pugno di mosche in mano. Mentre a Corleone – è sempre la denuncia di Fontana – molti nemmeno sanno che esiste il Cidma. Cancellare, oscurare, imbrogliare le carte.
La seconda notizia è quella di Catania e segue un’altra simile, proveniente sempre dal capoluogo etneo, arrivata all’inizio del mese. Tutte e due, non so quanto casualmente, in concomitanza con due anniversari importanti: il 9 maggio, giorno dell’uccisione di Peppino Impastato per mano mafiosa, e il 23 maggio, la data della strage di Capaci. Della prima avevo già parlato: Addiopizzo aveva lanciato una campagna di sensibilizzazione che si chiama “Un muro contro la mafia” e proprio dal muro in cui l’associazione aveva scritto la frase “Contro la mafia l’amore per la memoria e l’impegno dell’azione” qualcuno si era premurato di cancellare le prime tre parole. Oggi la seconda puntata: un altro mafioso – di questo si tratta, e non mi stancherò mai di ripeterlo – ha versato della vernice sul volto di Giovanni Falcone, raffigurato su un altro muro insieme a Francesca Morvillo, al viale Ulisse. Cancellare, oscurare.
Dev’essere per questo che oggi mi fa ancora più rabbia (rabbia accresciuta dal fatto che non mi piace commentare le sentenze della magistratura e invece mi sento quasi costretta a farlo, e accresciuta dal fatto che la magistratura, che tanto ha pagato in vite umane, metta a tacere le voci libere contro la mafia) sapere che la Corte d’Appello di Catania ha confermato la condanna al giornalista ragusano Carlo Ruta per “stampa clandestina”: un reato vecchio quanto il cucco tanto che, come ricordò due anni fa Beppe Giulietti in occasione della condanna di primo grado, negli ultimi trent’anni nessuno è mai più stato condannato per una cosa simile in Italia.
In Italia, appunto. Ma in Sicilia, no. In Sicilia chi tocca i fili muore e Carlo Ruta, dal suo blog, finché non è stato oscurato dal Tribunale di Ragusa, non ha mai smesso di toccare i fili, con le sue inchieste antimafia. Cancellare, oscurare.
Lo avevo già proposto in occasione del primo imbrattamento di Catania e lo ripropongo di nuovo adesso: facciamogli capire che noi con la mafia non vogliamo avere niente a che fare, che non abbiamo paura. Come abbiamo fatto con le bandiere della pace, mettiamo ai nostri balconi striscioni con le parole di Peppino Impastato: “La mafia è una montagna di merda”.
martedì 24 maggio 2011
Scilipoti for sale
Ricordate Gaetano Saya? E’ un fascista pluripregiudicato che ciclicamente appare e scompare – o resta “in sonno”, come si dice nei suoi ambienti – nelle vicende politiche italiane, con particolare predilezione per le più torbide.
Secondo la pagina inglese di Wikipedia (quella italiana è stata oscurata in seguito a una minaccia di azioni legali), oltre a essere “leader” (parola grossa, ma se chiamano così anche Berlusconi non c’è da stupirsi) del Partito neofascista Destra Nazionale ed essere stato membro di Gladio, la struttura paramilitare segreta della Nato creata in chiave anticomunista ai tempi della guerra fredda, nel 2004 fu accusato di diffondere l’odio razziale attraverso il sito internet del suo movimento e nel 2005 fu arrestato con l’accusa di avere costituito una polizia parallela chiamata Dipartimento studi strategici antiterrorismo.
Le informazioni di Wikipedia finiscono qui e non dicono che Saya è legato ai servizi segreti e alla massoneria. Cosa che svela il diretto interessato, nel suo sito Internet, ricordando gli insegnamenti del nonno marciatore su Roma e le sue frequentazioni con personaggi inquietanti che hanno condizionato pesantemente e in maniera antidemocratica l’Italia degli anni Settanta e non solo: a partire dall’assassino Ciccio Franco, esponente del Msi e animatore dei Fatti di Reggio Calabria (in cui Saya fu in prima linea), passando dal generale Giuseppe Santovito, ex capo del Sismi e artefice della strategia della tensione, fino ad arrivare a Licio Gelli, che ancora oggi governa il Paese per interposta persona: il fantoccio chiamato Silvio Berlusconi.
A un certo punto, di Saya – personaggio a un tempo inquietante e da operetta, che nelle foto non disdegna di presentarsi con divise cariche di medaglie, pronuncia la parola “Patria” pancia in dentro e petto in fuori e sembra uscito dritto dritto dal film di Monicelli, “Vogliamo i colonnelli” – si perdono le tracce. O, comunque, non fa più parlare di sé in maniera eclatante. Riemerge dalle fogne (perdonate il mio rigurgito antifascista sessantottardo, ma quanno ce vo’ ce vo’) nel 2004, durante la guerra in Iraq. Indagando sulla morte di Fabrizio Quattrocchi, il mercenario rapito e ucciso a Bagdad, la Digos di Genova scoprirà appunto l’organizzazione di Saya (sarebbe stato proprio lui a reclutare Quattrocchi per andare ad ammazzare la gente in Iraq) e i suoi presunti legami con la Cia e con il Mossad.
Ebbene, se ne sentivate la nostalgia, il messinese Gaetano Saya, che secondo qualcuno avrebbe anche rapporti con la mafia, è tornato. E’ riemerso un paio di giorni fa, con una lettera infarcita di retorica fascista che nemmeno in una seduta spiritica, per chiedere – udite, udite! – a quel galantuomo del suo conterraneo, Domenico Scilipoti, detto Mimmo, agopunturista e puttana parlamentare a prezzi da saldi di fine stagione, di diventare segretario del Movimento sociale-Destra nazionale.
A quanto si intuisce dalla lettera, a Saya vedere Scilipoti dà lo stesso orgasmo mistico che se vedesse la madonna. E infatti, come si legge nella nota dell’agenzia Ansa che riporta le sue parole ispirate, Saya definisce il cosiddetto responsabile “un gentiluomo d’altri tempi, probo, onesto, fervente credente in Dio Padre Onnipotente, un uomo che con il suo gesto ha riscattato decenni di servilismo parlamentare”, dove per “il suo gesto” si intende avere parato il culo a Berlusconi votandogli la fiducia il 14 dicembre scorso.
Ora io non so se la droga inacidisca come il latte o lo yougurt, ma certo quella che deve aver preso il fascistissimo Saya prima di scrivere a Scilipoti un qualche processo degenerativo lo avrà subìto. Perché se vi sembravano farneticanti già le prime parole, è meglio che vi prepariate al peggio: nemmeno alla neurodeliri hanno mai sentito niente di simile.
Dunque Saya, avendo appreso che Scilipoti Mimmo da Barcellona Pozzo di Gotto avrebbe scritto il manifesto fondativo del suo Movimento di Responsabilità nazionale ispirandosi al programma fascista del 1925 elaborato da Giovanni Gentile, gli rende onore affermando che nessuno da tempo osava parlare di “Patria”, sostiene di condividere “siffatto proclama” e in più aggiunge: “lo facciamo nostro”. Nostro nel senso di “a noi!”? E poi, facile dire lo facciamo nostro: Scilipoti non è uno che lo dà (il proclama) gratis.
Comunque sia, val la pena di leggere integralmente la parte conclusiva della lettera: “essendo consci del lento, ma inesorabile scivolamento della nostra amata Patria verso l’abisso, ben consci della pochezza umana che alberga nei palazzi del potere romano, invitiamo ufficialmente l’onorevole Domenico Scilipoti a guidare la direzione nazionale del Movimento Sociale Italiano-Destra Nazionale, assumendone il coordinamento nazionale, portando di nuovo tra i banchi del Parlamento il partito storico MSI-DN voluto da Almirante e da Gianfranco Fini, iniquamente tentato di sopprimere, non sapendo che stava firmando la sua morte politica. Un tentativo comunque fallito grazie alle migliaia di Missini che ancora oggi sono pronti a scendere in campo sotto la ventata di libertà iniziata da Domenico Scilipoti il 14 dicembre 2010”. Amen
Quanto al destinatario dell’offerta, di cui ora si vocifera che da giovane abbia militato nel Fuan (ma dove cazzo era Antonio Di Pietro quando se l’è preso in casa?!), fa un po’ la ritrosa, si schermisce, civetta: “'La proposta di Saya di diventare io segretario del Msi-Dn? Vedremo, ne dobbiamo parlare. Ci sto riflettendo…”
Forse, essendo lui la personificazione di una gara d’appalto al massimo rialzo, deve valutare le altre offerte prima di decidere. Chi offre di più?
Secondo la pagina inglese di Wikipedia (quella italiana è stata oscurata in seguito a una minaccia di azioni legali), oltre a essere “leader” (parola grossa, ma se chiamano così anche Berlusconi non c’è da stupirsi) del Partito neofascista Destra Nazionale ed essere stato membro di Gladio, la struttura paramilitare segreta della Nato creata in chiave anticomunista ai tempi della guerra fredda, nel 2004 fu accusato di diffondere l’odio razziale attraverso il sito internet del suo movimento e nel 2005 fu arrestato con l’accusa di avere costituito una polizia parallela chiamata Dipartimento studi strategici antiterrorismo.
Le informazioni di Wikipedia finiscono qui e non dicono che Saya è legato ai servizi segreti e alla massoneria. Cosa che svela il diretto interessato, nel suo sito Internet, ricordando gli insegnamenti del nonno marciatore su Roma e le sue frequentazioni con personaggi inquietanti che hanno condizionato pesantemente e in maniera antidemocratica l’Italia degli anni Settanta e non solo: a partire dall’assassino Ciccio Franco, esponente del Msi e animatore dei Fatti di Reggio Calabria (in cui Saya fu in prima linea), passando dal generale Giuseppe Santovito, ex capo del Sismi e artefice della strategia della tensione, fino ad arrivare a Licio Gelli, che ancora oggi governa il Paese per interposta persona: il fantoccio chiamato Silvio Berlusconi.
A un certo punto, di Saya – personaggio a un tempo inquietante e da operetta, che nelle foto non disdegna di presentarsi con divise cariche di medaglie, pronuncia la parola “Patria” pancia in dentro e petto in fuori e sembra uscito dritto dritto dal film di Monicelli, “Vogliamo i colonnelli” – si perdono le tracce. O, comunque, non fa più parlare di sé in maniera eclatante. Riemerge dalle fogne (perdonate il mio rigurgito antifascista sessantottardo, ma quanno ce vo’ ce vo’) nel 2004, durante la guerra in Iraq. Indagando sulla morte di Fabrizio Quattrocchi, il mercenario rapito e ucciso a Bagdad, la Digos di Genova scoprirà appunto l’organizzazione di Saya (sarebbe stato proprio lui a reclutare Quattrocchi per andare ad ammazzare la gente in Iraq) e i suoi presunti legami con la Cia e con il Mossad.
Ebbene, se ne sentivate la nostalgia, il messinese Gaetano Saya, che secondo qualcuno avrebbe anche rapporti con la mafia, è tornato. E’ riemerso un paio di giorni fa, con una lettera infarcita di retorica fascista che nemmeno in una seduta spiritica, per chiedere – udite, udite! – a quel galantuomo del suo conterraneo, Domenico Scilipoti, detto Mimmo, agopunturista e puttana parlamentare a prezzi da saldi di fine stagione, di diventare segretario del Movimento sociale-Destra nazionale.
A quanto si intuisce dalla lettera, a Saya vedere Scilipoti dà lo stesso orgasmo mistico che se vedesse la madonna. E infatti, come si legge nella nota dell’agenzia Ansa che riporta le sue parole ispirate, Saya definisce il cosiddetto responsabile “un gentiluomo d’altri tempi, probo, onesto, fervente credente in Dio Padre Onnipotente, un uomo che con il suo gesto ha riscattato decenni di servilismo parlamentare”, dove per “il suo gesto” si intende avere parato il culo a Berlusconi votandogli la fiducia il 14 dicembre scorso.
Ora io non so se la droga inacidisca come il latte o lo yougurt, ma certo quella che deve aver preso il fascistissimo Saya prima di scrivere a Scilipoti un qualche processo degenerativo lo avrà subìto. Perché se vi sembravano farneticanti già le prime parole, è meglio che vi prepariate al peggio: nemmeno alla neurodeliri hanno mai sentito niente di simile.
Dunque Saya, avendo appreso che Scilipoti Mimmo da Barcellona Pozzo di Gotto avrebbe scritto il manifesto fondativo del suo Movimento di Responsabilità nazionale ispirandosi al programma fascista del 1925 elaborato da Giovanni Gentile, gli rende onore affermando che nessuno da tempo osava parlare di “Patria”, sostiene di condividere “siffatto proclama” e in più aggiunge: “lo facciamo nostro”. Nostro nel senso di “a noi!”? E poi, facile dire lo facciamo nostro: Scilipoti non è uno che lo dà (il proclama) gratis.
Comunque sia, val la pena di leggere integralmente la parte conclusiva della lettera: “essendo consci del lento, ma inesorabile scivolamento della nostra amata Patria verso l’abisso, ben consci della pochezza umana che alberga nei palazzi del potere romano, invitiamo ufficialmente l’onorevole Domenico Scilipoti a guidare la direzione nazionale del Movimento Sociale Italiano-Destra Nazionale, assumendone il coordinamento nazionale, portando di nuovo tra i banchi del Parlamento il partito storico MSI-DN voluto da Almirante e da Gianfranco Fini, iniquamente tentato di sopprimere, non sapendo che stava firmando la sua morte politica. Un tentativo comunque fallito grazie alle migliaia di Missini che ancora oggi sono pronti a scendere in campo sotto la ventata di libertà iniziata da Domenico Scilipoti il 14 dicembre 2010”. Amen
Quanto al destinatario dell’offerta, di cui ora si vocifera che da giovane abbia militato nel Fuan (ma dove cazzo era Antonio Di Pietro quando se l’è preso in casa?!), fa un po’ la ritrosa, si schermisce, civetta: “'La proposta di Saya di diventare io segretario del Msi-Dn? Vedremo, ne dobbiamo parlare. Ci sto riflettendo…”
Forse, essendo lui la personificazione di una gara d’appalto al massimo rialzo, deve valutare le altre offerte prima di decidere. Chi offre di più?
lunedì 23 maggio 2011
Fra comandare e fottere
Una volta in Sicilia (e probabilmente anche nelle altre regioni e nei loro dialetti) si diceva: “U cumannari è megghiu du futtiri”. C’è poco da spiegare: è l’orgasmo del potere. Ma oggi, per via di una classe politica bulimica, dovrebbero cambiarlo quel modo di dire: “cumannari è futtiri, futtiri è cumannari”, dove l’atto sessuale non contempla sentimenti ed emozioni ma è, esso stesso, esercizio di potere. E a un tempo, però, sintomo di impotenza: impotenza di vivere la vita come viene, impotenza di essere onesti, impotenza di avere ideali e valori e passioni, impotenza di ridere e piangere e farsi battere il cuore. Impotenza di vivere normalmente: impotenza nella quale comandare e scopare sono come una pista di coca, fuga dalla realtà che trasforma gli uomini in animali.
Dominique Strauss-Kahn, uno degli uomini più potenti del mondo, l’ultimo esempio: gli scappava – come se dovesse pisciare -, ha preso la prima donna che gli è capitata a tiro e se l’è fatta. Sicuro di sé, sicuro del fatto che – se lei avesse protestato – sarebbe bastato gettarle addosso delle banconote. Poi le ha gettate addosso ai giudici le banconote, una montagna di banconote, per uscire su cauzione e scontare arresti domiciliari di lusso.
Silvio Berlusconi, il verme che striscia davanti ai potenti (o che lui crede tali) della Terra, l’esempio che abbiamo sotto gli occhi da una ventina d’anni e da qualche tempo in maniera sempre più disgustosa: incapace (impotente) di governare e di fottere, compra a peso le donne e i parlamentari.
Raffaele Lombardo, no. No, non è che non scopi. Probabilmente è che non l’hanno ancora beccato a farlo in pubblico perché – essendo molto più giovane dei due utenti da geriatrico di cui sopra – non ha bisogno di aprire la patta e tirare fuori il pisello ogni quarto d’ora come un vecchio prostatico e poi perché i maschi siciliani sono molto più bravi a non farsi scoprire: nel loro bisogno di harem frutto della discendenza araba, tradiscono la moglie, la prima amante e la seconda amante nell’omertà più assoluta. E poi ci sono i suoi “frequentati”: forse nel frattempo anche lì le regole sono cambiate ed è andato tutto letteralmente a puttane, ma certo è che una volta i capimafia diffidavano i loro affiliati dal farsi l’amante perché in certi momenti di debolezza ti può scappare di rivelare qualcosa e invece di fottere sei fottuto.
No, il governatore della Sicilia è rimasto fedele al vecchio detto: lui comanda. Comanda su tutto e tutti: se hai bisogno di un lavoro devi passare da lui e dargli in cambio un pacchetto di voti; se devi iscrivere tuo figlio all’asilo devi passare da lui e impegnarti a farlo votare da tutta la famiglia; se devi diventare primario devi passare da lui e dargli in cambio un pacco consistente di voti; se ti devi aggiudicare un appalto devi passare da lui e passare con lui armi e bagagli, tu e tutto il tuo partito, dimenticando di aver affermato – appena tre anni fa – che Lombardo era in continuità con il suo predecessore Totò Cuffaro.
Ora: 1) l’appalto è stato annullato perché era stato assegnato senza gara e dunque era irregolare; 2) è del primo aprile scorso (e non era uno scherzo) il sondaggio di Demopolis in base al quale il Pd in Sicilia perde 250.000 voti e 8 punti percentuali scendendo al 18% - perché se stai al governo con uno che basa tutto il suo potere sulle clientele e che frequenta i mafiosi, ci può arrivare anche un dirigente nazionale del Pd a capire che alla sua base gireranno i coglioni; 3) talmente non era uno scherzo, che i risultati delle ultime amministrative sono stati un sonoro ceffone al Pd – convinto di accrescere consensi e potere, il potere che dà orgasmo, grazie ai suoi accordi sottobanco con il peggio del peggio - da parte degli elettori schifati da inciucismo, consociativismo e una gestione del potere finalizzata non a servire la gente ma, appunto, a fotterla. E così all’improvviso ci si trova nella necessità di rifarsi una verginità, fare un’ulteriore inversione ad “u”, accorgersi che al governo con Lombardo non ci si può stare, che ci vuole una verifica “per avviare il cambiamento”. Di mafia non se ne parla, ovviamente. Non è questo che preoccupa il Pd. Al governo con Lombardo che frequenta i boss e lo ha ammesso pubblicamente (sia pure con la motivazione risibile della frequentazione a fini politici, cioè per averne i voti, che se possibile aggrava ulteriormente la sua posizione) il Pd pseudogarantista avrebbe continuato a restarci ottimamente, se questo avesse portato qualche appalto, la gestione della formazione professionale, i voti…e invece no, la gente non è poi così cretina, “c’è un clima nuovo nel Paese” – dice la stessa signora che a furia di inversioni a “u” ci ha fatto venire il mal di mare con annesso vomito e che adesso corteggia Sel e IdV (dimenticando anche lei dolosamente, come gli altri, che a Napoli De Magistris al primo turno era sostenuto da Idv e Federazione della Sinistra e che la FdS si aggira intorno al 4% e dunque è una forza politica di cui bisogna tenere conto) perché quando e se anche in Sicilia la gente dovesse accorgersi che la destra da Lombardo a Berlusconi ci affama e ci schiavizza e dovesse decidersi a votare a sinistra, il Pd potrà lucrare da quei voti e dire di avere vinto.
Ben venga un nuovo centrosinistra in Sicilia che spazzi via l’Mpa di Lombardo e il suo capo, il Pdl, l’Udc, il Pid di Totò Cuffaro e Saverio Romano, la Forza del Sud di Gianfranco Miccichè e tutte le loro scomposizioni e ricomposizioni, ma il Pd sia chiaro, onesto e leale (soprattutto con la sua base) e non creda di uscirsene con un’avventura da una botta e via in attesa di meglio. Altrimenti, che vadano a farsi fottere.
Dominique Strauss-Kahn, uno degli uomini più potenti del mondo, l’ultimo esempio: gli scappava – come se dovesse pisciare -, ha preso la prima donna che gli è capitata a tiro e se l’è fatta. Sicuro di sé, sicuro del fatto che – se lei avesse protestato – sarebbe bastato gettarle addosso delle banconote. Poi le ha gettate addosso ai giudici le banconote, una montagna di banconote, per uscire su cauzione e scontare arresti domiciliari di lusso.
Silvio Berlusconi, il verme che striscia davanti ai potenti (o che lui crede tali) della Terra, l’esempio che abbiamo sotto gli occhi da una ventina d’anni e da qualche tempo in maniera sempre più disgustosa: incapace (impotente) di governare e di fottere, compra a peso le donne e i parlamentari.
Raffaele Lombardo, no. No, non è che non scopi. Probabilmente è che non l’hanno ancora beccato a farlo in pubblico perché – essendo molto più giovane dei due utenti da geriatrico di cui sopra – non ha bisogno di aprire la patta e tirare fuori il pisello ogni quarto d’ora come un vecchio prostatico e poi perché i maschi siciliani sono molto più bravi a non farsi scoprire: nel loro bisogno di harem frutto della discendenza araba, tradiscono la moglie, la prima amante e la seconda amante nell’omertà più assoluta. E poi ci sono i suoi “frequentati”: forse nel frattempo anche lì le regole sono cambiate ed è andato tutto letteralmente a puttane, ma certo è che una volta i capimafia diffidavano i loro affiliati dal farsi l’amante perché in certi momenti di debolezza ti può scappare di rivelare qualcosa e invece di fottere sei fottuto.
No, il governatore della Sicilia è rimasto fedele al vecchio detto: lui comanda. Comanda su tutto e tutti: se hai bisogno di un lavoro devi passare da lui e dargli in cambio un pacchetto di voti; se devi iscrivere tuo figlio all’asilo devi passare da lui e impegnarti a farlo votare da tutta la famiglia; se devi diventare primario devi passare da lui e dargli in cambio un pacco consistente di voti; se ti devi aggiudicare un appalto devi passare da lui e passare con lui armi e bagagli, tu e tutto il tuo partito, dimenticando di aver affermato – appena tre anni fa – che Lombardo era in continuità con il suo predecessore Totò Cuffaro.
Ora: 1) l’appalto è stato annullato perché era stato assegnato senza gara e dunque era irregolare; 2) è del primo aprile scorso (e non era uno scherzo) il sondaggio di Demopolis in base al quale il Pd in Sicilia perde 250.000 voti e 8 punti percentuali scendendo al 18% - perché se stai al governo con uno che basa tutto il suo potere sulle clientele e che frequenta i mafiosi, ci può arrivare anche un dirigente nazionale del Pd a capire che alla sua base gireranno i coglioni; 3) talmente non era uno scherzo, che i risultati delle ultime amministrative sono stati un sonoro ceffone al Pd – convinto di accrescere consensi e potere, il potere che dà orgasmo, grazie ai suoi accordi sottobanco con il peggio del peggio - da parte degli elettori schifati da inciucismo, consociativismo e una gestione del potere finalizzata non a servire la gente ma, appunto, a fotterla. E così all’improvviso ci si trova nella necessità di rifarsi una verginità, fare un’ulteriore inversione ad “u”, accorgersi che al governo con Lombardo non ci si può stare, che ci vuole una verifica “per avviare il cambiamento”. Di mafia non se ne parla, ovviamente. Non è questo che preoccupa il Pd. Al governo con Lombardo che frequenta i boss e lo ha ammesso pubblicamente (sia pure con la motivazione risibile della frequentazione a fini politici, cioè per averne i voti, che se possibile aggrava ulteriormente la sua posizione) il Pd pseudogarantista avrebbe continuato a restarci ottimamente, se questo avesse portato qualche appalto, la gestione della formazione professionale, i voti…e invece no, la gente non è poi così cretina, “c’è un clima nuovo nel Paese” – dice la stessa signora che a furia di inversioni a “u” ci ha fatto venire il mal di mare con annesso vomito e che adesso corteggia Sel e IdV (dimenticando anche lei dolosamente, come gli altri, che a Napoli De Magistris al primo turno era sostenuto da Idv e Federazione della Sinistra e che la FdS si aggira intorno al 4% e dunque è una forza politica di cui bisogna tenere conto) perché quando e se anche in Sicilia la gente dovesse accorgersi che la destra da Lombardo a Berlusconi ci affama e ci schiavizza e dovesse decidersi a votare a sinistra, il Pd potrà lucrare da quei voti e dire di avere vinto.
Ben venga un nuovo centrosinistra in Sicilia che spazzi via l’Mpa di Lombardo e il suo capo, il Pdl, l’Udc, il Pid di Totò Cuffaro e Saverio Romano, la Forza del Sud di Gianfranco Miccichè e tutte le loro scomposizioni e ricomposizioni, ma il Pd sia chiaro, onesto e leale (soprattutto con la sua base) e non creda di uscirsene con un’avventura da una botta e via in attesa di meglio. Altrimenti, che vadano a farsi fottere.
venerdì 20 maggio 2011
Il Fatto e i comunisti
Caro Ilfattoquotidiano, ti do due notizie, una di carattere generale e l’altra più personale (anche se, credo, condivisa da molti). La prima è che in Italia esiste una formazione politica che si chiama Federazione della Sinistra, frutto di un faticoso e anche sofferto processo unitario fra due partiti comunisti, il Pdci e Rifondazione: una forza politica che oscilla fra il 3,5 e il 4% dei consensi ma che tu – in buona compagnia di Repubblica e altri giornali e tv – ignori sistematicamente e scientificamente, così come hanno fatto in maniera dolosa durante tutta la campagna elettorale i sondaggisti. E malgrado ciò, non sono riusciti a farci fuori. Per quanto, forse, sarebbe da prendere seriamente in considerazione l’ipotesi di fargli causa e farsi restituire i voti perduti a causa loro che ci davano perdenti o estinti.
La seconda notizia è che smetterò di comprarti, a malincuore, ma lo farò: perché mi sento offesa, umiliata e ferita, da elettrice comunista, per questa scientifica, sistematica e – lo ripeto – dolosa sottovalutazione dei voti comunisti. Il 4% dei voti, se qualcuno non lo avesse ancora capito, non è soltanto un numero: sono persone in carne ed ossa, con le loro idee, i loro desideri, i loro valori, le loro passioni, centinaia di migliaia di persone che hanno il diritto sacrosanto di non essere considerate invisibili.
D’altra parte (non credo di dover essere io a ricordarvelo), in questo Paese in anni passati ci sono stati partiti politici che, pur oscillando intorno al 3% dei consensi (prima che l’ambizione dei due maggiori partiti spacciasse per necessità di governabilità la voglia di fare man bassa di potere, fagocitando i voti degli altri con il trucco dei vari sbarramenti fra il 3 e il 5%), hanno pesato in maniera autorevole nella vita politica nazionale, qualcuno persino esprimendo il presidente del consiglio. Ricordate Spadolini? Il suo partito, il Pri, da quando io ho memoria politica e nel corso della prima Repubblica andava dal 2 al 4% dei voti; i Liberali (che non c’entravano niente con i libertini debosciati di governo) erano sugli stessi numeri; come pure il Psdi che addirittura diede all’Italia un presidente della Repubblica. E, ironia della sorte, questi tre che oggi verrebbero definiti “partitini” e ignorati in nome del bipolarismo a quel tempo furono chiamati a far parte di un governo pentapartito con lo stesso obiettivo perseguito oggi dal vostro giornale, da Repubblica, dalle tv di stato (?), dai sondaggisti, eccetera: fare fuori i comunisti.
Ora, io non pretendo per i comunisti un presidente del consiglio o della Repubblica (anche se mi permetto, sommessamente e lasciandomi andare a un po’ di campanilismo politico, di ricordare un ottimo ministro della Giustizia, di nome Oliviero Diliberto, mangiatore di bambini), ma fra la presidenza della Repubblica e il non essere cagati di striscio ne passa.
Ma forse oggi a dettare legge, anche per voi del Fatto, è l’audience: non tirano più i comunisti, con quelle loro vecchie “fisse” del diritto al lavoro, della difesa dei diritti dei lavoratori, della scuola pubblica, della legalità, dell’uguaglianza e pari dignità dei cittadini davanti alla legge e nella società. E’ uno dei principi fondanti della Costituzione italiana, la stessa alla quale – unica – voi affermate di rispondere ogni giorno confezionando il vostro giornale. Non è che dovreste dare una ripassatina all’articolo 3?
La seconda notizia è che smetterò di comprarti, a malincuore, ma lo farò: perché mi sento offesa, umiliata e ferita, da elettrice comunista, per questa scientifica, sistematica e – lo ripeto – dolosa sottovalutazione dei voti comunisti. Il 4% dei voti, se qualcuno non lo avesse ancora capito, non è soltanto un numero: sono persone in carne ed ossa, con le loro idee, i loro desideri, i loro valori, le loro passioni, centinaia di migliaia di persone che hanno il diritto sacrosanto di non essere considerate invisibili.
D’altra parte (non credo di dover essere io a ricordarvelo), in questo Paese in anni passati ci sono stati partiti politici che, pur oscillando intorno al 3% dei consensi (prima che l’ambizione dei due maggiori partiti spacciasse per necessità di governabilità la voglia di fare man bassa di potere, fagocitando i voti degli altri con il trucco dei vari sbarramenti fra il 3 e il 5%), hanno pesato in maniera autorevole nella vita politica nazionale, qualcuno persino esprimendo il presidente del consiglio. Ricordate Spadolini? Il suo partito, il Pri, da quando io ho memoria politica e nel corso della prima Repubblica andava dal 2 al 4% dei voti; i Liberali (che non c’entravano niente con i libertini debosciati di governo) erano sugli stessi numeri; come pure il Psdi che addirittura diede all’Italia un presidente della Repubblica. E, ironia della sorte, questi tre che oggi verrebbero definiti “partitini” e ignorati in nome del bipolarismo a quel tempo furono chiamati a far parte di un governo pentapartito con lo stesso obiettivo perseguito oggi dal vostro giornale, da Repubblica, dalle tv di stato (?), dai sondaggisti, eccetera: fare fuori i comunisti.
Ora, io non pretendo per i comunisti un presidente del consiglio o della Repubblica (anche se mi permetto, sommessamente e lasciandomi andare a un po’ di campanilismo politico, di ricordare un ottimo ministro della Giustizia, di nome Oliviero Diliberto, mangiatore di bambini), ma fra la presidenza della Repubblica e il non essere cagati di striscio ne passa.
Ma forse oggi a dettare legge, anche per voi del Fatto, è l’audience: non tirano più i comunisti, con quelle loro vecchie “fisse” del diritto al lavoro, della difesa dei diritti dei lavoratori, della scuola pubblica, della legalità, dell’uguaglianza e pari dignità dei cittadini davanti alla legge e nella società. E’ uno dei principi fondanti della Costituzione italiana, la stessa alla quale – unica – voi affermate di rispondere ogni giorno confezionando il vostro giornale. Non è che dovreste dare una ripassatina all’articolo 3?
mercoledì 18 maggio 2011
A.A.A.: azienda farmaceutica cerca Stancanelli
Sembra di sentire Antonio Razzi, il deputato “responsabile” pagato da Berlusconi con un incarico di consigliere del ministro delle Politiche agricole per occuparsi di lotta alla contraffazione alimentare, che motivava la sua nuova carica con l’essere un buongustaio e persino un bravo cuoco che qualche volta aiuta la moglie in cucina. E’ come se un’industria farmaceutica mettesse il custode dell’azienda, solo perché stitico, a fare ricerca sui lassativi.
Stessa logica aristotelica per Raffaele Stancanelli, sindaco di Catania ed ex assessore regionale alle Politiche sociali del governo Cuffaro, indagato dalla procura per abuso d’ufficio nell’ambito dell’inchiesta sulla cricca dei Servizi sociali e accusato dagli inquirenti di avere nominato arbitrariamente presunti esperti in realtà incompetenti (ma tutti più o meno suoi camerati di partito), che ha provato a farsi beffe dei giudici spiegando loro – per esempio – di avere infilato in una commissione aggiudicatrice di un appalto per il servizio di assistenza agli anziani un tal Giuseppe Calì, impiegato delle Poste, la cui competenza risiederebbe nel fatto di essere “padre di un soggetto disabile”, come si legge nelle carte del Gip.
Arroganza del potere: pensare di poter fare qualunque porcheria e poi – grazie all’impunità diffusa – giustificarla sparando cazzate senza paracadute.
Non sempre però la fanno franca. Stavolta il giudice delle indagini preliminari – a dispetto di qualche suo collega che forse avrebbe preferito nascondere la polvere sotto il tappeto – è andato sino in fondo, tanto da decidere per il sindaco di Catania l’imputazione coatta: Stancanelli dovrà essere processato malgrado la richiesta di archiviazione da parte del pubblico ministero.
Le carte parlano chiaro: Stancanelli e il fido Ubaldo Camerini, direttore dei Servizi sociali del Comune di Catania, erano il gatto e la volpe. Stancanelli ordinava e Camerini eseguiva: il primo adottava provvedimenti – scrive il Gip – “in radicale assenza di potere” e Camerini, in seguito alla designazione dell’allora assessore, “nominava come esperti dell’area socio-sanitaria, soggetti del tutto estranei al settore di riferimento e quindi funzionalmente incompetenti in materia”. Porcherie su porcherie: secondo il giudice, Stancanelli non solo non avrebbe potuto, ma lo sapeva pure. Nella decisione di imputazione coatta si parla chiaramente di “piena consapevolezza dell’arbitrio perpetrato” e svolto con arroganza tale che le designazioni venivano comunicate all’esecutore materiale dal fax della segreteria politica del mandante. Nomine – specifica ancora il giudice – legate “a logiche politiche e clientelari”.
Stancanelli avrebbe dovuto dimettersi già da molto tempo, per il suo essere un sindaco dimezzato e per avere fatto – ammesso che sia possibile – ancora più danno del suo predecessore Scapagnini e avere ridotto Catania allo stremo. Se avesse un po’ di dignità, adesso dovrebbe recuperare il tempo perduto. Se poi ha paura di restare disoccupato, si tranquillizzi: c’è un’azienda farmaceutica pronta ad assumerlo come ricercatore sui lassativi. Per competenza.
Stessa logica aristotelica per Raffaele Stancanelli, sindaco di Catania ed ex assessore regionale alle Politiche sociali del governo Cuffaro, indagato dalla procura per abuso d’ufficio nell’ambito dell’inchiesta sulla cricca dei Servizi sociali e accusato dagli inquirenti di avere nominato arbitrariamente presunti esperti in realtà incompetenti (ma tutti più o meno suoi camerati di partito), che ha provato a farsi beffe dei giudici spiegando loro – per esempio – di avere infilato in una commissione aggiudicatrice di un appalto per il servizio di assistenza agli anziani un tal Giuseppe Calì, impiegato delle Poste, la cui competenza risiederebbe nel fatto di essere “padre di un soggetto disabile”, come si legge nelle carte del Gip.
Arroganza del potere: pensare di poter fare qualunque porcheria e poi – grazie all’impunità diffusa – giustificarla sparando cazzate senza paracadute.
Non sempre però la fanno franca. Stavolta il giudice delle indagini preliminari – a dispetto di qualche suo collega che forse avrebbe preferito nascondere la polvere sotto il tappeto – è andato sino in fondo, tanto da decidere per il sindaco di Catania l’imputazione coatta: Stancanelli dovrà essere processato malgrado la richiesta di archiviazione da parte del pubblico ministero.
Le carte parlano chiaro: Stancanelli e il fido Ubaldo Camerini, direttore dei Servizi sociali del Comune di Catania, erano il gatto e la volpe. Stancanelli ordinava e Camerini eseguiva: il primo adottava provvedimenti – scrive il Gip – “in radicale assenza di potere” e Camerini, in seguito alla designazione dell’allora assessore, “nominava come esperti dell’area socio-sanitaria, soggetti del tutto estranei al settore di riferimento e quindi funzionalmente incompetenti in materia”. Porcherie su porcherie: secondo il giudice, Stancanelli non solo non avrebbe potuto, ma lo sapeva pure. Nella decisione di imputazione coatta si parla chiaramente di “piena consapevolezza dell’arbitrio perpetrato” e svolto con arroganza tale che le designazioni venivano comunicate all’esecutore materiale dal fax della segreteria politica del mandante. Nomine – specifica ancora il giudice – legate “a logiche politiche e clientelari”.
Stancanelli avrebbe dovuto dimettersi già da molto tempo, per il suo essere un sindaco dimezzato e per avere fatto – ammesso che sia possibile – ancora più danno del suo predecessore Scapagnini e avere ridotto Catania allo stremo. Se avesse un po’ di dignità, adesso dovrebbe recuperare il tempo perduto. Se poi ha paura di restare disoccupato, si tranquillizzi: c’è un’azienda farmaceutica pronta ad assumerlo come ricercatore sui lassativi. Per competenza.
Il Pd, Napoli e la Sicilia: parrami soggira e sentimi nora
Vogliamo parlare di Napoli? Parliamo di Napoli. Ma è un “parrami soggira e sentimi nora”, per parlare della Sicilia. Partiamo dicendo che a Napoli c’è un buon 27% di persone perbene. Forse anche di più in realtà, ma quel 27% ha anche il coraggio e l’orgoglio di essere per bene. Poi c’è un altro 20% scarso che a naso potrebbe essere diviso fra persone per bene che però non hanno abbastanza coraggio da fare il salto di qualità; indolenti che votano per abitudine convinti di votare un partito che non c’è più; fedeli alla linea che votano per disciplina di un partito che ha fatto un’incomprensibile scelta di convenienza e di appiattimento ma aveva fatto male i calcoli; venduti che preferiscono la scorciatoia dell’assimilazione ai metodi di un centrodestra corrotto piuttosto che la fatica dell’onestà.
A Napoli – regno dell’illegalità - le persone per bene hanno dimostrato di essere molte di più di quanto non facciano pensare le semplificazioni giornalistico/folkloristiche e hanno votato per una persona per bene. Di più: per il simbolo della legalità. Luigi De Magistris è una di quelle persone che lo senti a pelle, per istinto, che ti puoi fidare e la cosa meravigliosa della sua candidatura a sindaco di Napoli è che ha preso più del 27% dei voti malgrado fosse sostenuto soltanto da due (anche se giornali e tv hanno fatto i salti mortali ancora una volta per cancellare i comunisti dalla scena) formazioni politiche nemmeno troppo grandi: Italia dei Valori e la Federazione della Sinistra – cioè i due partiti comunisti insieme -, quest’ultima data per spacciata e il più delle volte scientificamente nemmeno presa in considerazione dai sondaggisti, abilissimi nello spacciare indicazioni di voto per intenzioni di voto. L’IdV ha preso circa l’8%, la FdS poco meno del 4. E fa 12. Gli altri, evidentemente, l’altro 15% è fatto di elettori – probabilmente anche militanti ed elettori di Sel e del Pd - che si sono riconosciuti nella candidatura di De Magistris e che hanno voluto dare un segnale forte di cambiamento. Soprattutto dopo il disgusto che il Pd è riuscito a suscitare, a partire dalle numerose indagini in cui è stato coinvolto Bassolino fino al grande imbroglio delle primarie.
De Magistris non sindaco di Napoli, dove il “di” in questi casi – quando si parla di sindaci, presidenti o imperatori – è più un “su” che un “di” e non indica appartenenza ma potere, ma sindaco “per” Napoli, come ama dire: talmente per Napoli che, in vista del ballottaggio, ha detto di volere come interlocutori solo gli elettori e annunciato l’intenzione di non far alcun apparentamento con i partiti. Se vogliono, lo votino a prescindere. Perché dopo tutto lo schifo che ha fatto Il Pd in quella città e in quella regione, finendo con il somigliare in tutto e per tutto al centrodestra delle regioni del sud (rapporti con la criminalità compresi), e dopo che Sel ha scelto di fare le costola del Pd forse in cambio di qualche assessorato, non è che ora - se De Magistris sarà eletto - possono uscirsene magari dicendo che è merito loro. Traggano lezione, invece. Il Pd a Napoli ha pagato per le sue scelte, che definire sbagliate è davvero un eufemismo, e per una volta almeno dovrebbe provare ad analizzare i suoi errori. Il Pd è stato punito dagli elettori napoletani per essere diventato come il centrodestra. Ma Napoli e la Campania sono troppo simili alla Sicilia: stessi problemi, stessi livelli insostenibili di disoccupazione, stessa soffocante e velenosa presenza della criminalità organizzata, stessi rapporti fra politica e criminalità. I campani si sono già stufati, alla fine hanno capito: hanno detto no alla “munnezza di miracolo” dell’imbonitore Berlusconi ma hanno detto no anche a un Pd snaturato. Se ne accorgeranno anche i siciliani: quanto può durare questo tenerli schiavi, questo sottometterli, questo pretendere il loro voto prospettandogli un surrogato di lavoro che durerà tre mesi e forse non sarà nemmeno pagato? E per quanto ancora il Pd siciliano potrà avere la faccia, davanti ai suoi elettori, di sostenere un presidente della Regione che ha rapporti con i boss? Se Lombardo è un criminale sul piano giudiziario lo stabiliranno i giudici; che lo sia sul piano politico è sotto gli occhi di tutti e chi lo sostiene è correo.
Il Pd siciliano, assettato di potere ma senza voti perché ha già deluso negli anni le aspettative del suo elettorato, si è prestato a questa porcheria di sostenere Lombardo e di diventare come lui, alimentando il sistema di clientele e appalti più o meno truccati. Mi chiedo se qualcuno dei suoi dirigenti (non la base, che ha già abbastanza vergogna e che al momento del voto saprà cosa fare, come è stato a Napoli) abbia provato almeno un po’ di disagio nel sentire un presidente che affama i siciliani – in occasione del ritorno in Sicilia della venere di Morgantina – dire, come un passante qualunque, che ora sarebbe bello se tornassero anche i nostri conterranei costretti ad emigrare. E chi ce li ha mandati fuori, in numero sempre crescente, se non il suo governo e quelli precedenti di cui era parte? E chi dovrebbe fare qualcosa per invertire la tendenza e creare posti di lavoro veri? O vogliamo aprire un contenzioso con il Getty Museum per farci restituire i nostri migranti? E magari poi li mettiamo a fare le statue.
A Napoli – regno dell’illegalità - le persone per bene hanno dimostrato di essere molte di più di quanto non facciano pensare le semplificazioni giornalistico/folkloristiche e hanno votato per una persona per bene. Di più: per il simbolo della legalità. Luigi De Magistris è una di quelle persone che lo senti a pelle, per istinto, che ti puoi fidare e la cosa meravigliosa della sua candidatura a sindaco di Napoli è che ha preso più del 27% dei voti malgrado fosse sostenuto soltanto da due (anche se giornali e tv hanno fatto i salti mortali ancora una volta per cancellare i comunisti dalla scena) formazioni politiche nemmeno troppo grandi: Italia dei Valori e la Federazione della Sinistra – cioè i due partiti comunisti insieme -, quest’ultima data per spacciata e il più delle volte scientificamente nemmeno presa in considerazione dai sondaggisti, abilissimi nello spacciare indicazioni di voto per intenzioni di voto. L’IdV ha preso circa l’8%, la FdS poco meno del 4. E fa 12. Gli altri, evidentemente, l’altro 15% è fatto di elettori – probabilmente anche militanti ed elettori di Sel e del Pd - che si sono riconosciuti nella candidatura di De Magistris e che hanno voluto dare un segnale forte di cambiamento. Soprattutto dopo il disgusto che il Pd è riuscito a suscitare, a partire dalle numerose indagini in cui è stato coinvolto Bassolino fino al grande imbroglio delle primarie.
De Magistris non sindaco di Napoli, dove il “di” in questi casi – quando si parla di sindaci, presidenti o imperatori – è più un “su” che un “di” e non indica appartenenza ma potere, ma sindaco “per” Napoli, come ama dire: talmente per Napoli che, in vista del ballottaggio, ha detto di volere come interlocutori solo gli elettori e annunciato l’intenzione di non far alcun apparentamento con i partiti. Se vogliono, lo votino a prescindere. Perché dopo tutto lo schifo che ha fatto Il Pd in quella città e in quella regione, finendo con il somigliare in tutto e per tutto al centrodestra delle regioni del sud (rapporti con la criminalità compresi), e dopo che Sel ha scelto di fare le costola del Pd forse in cambio di qualche assessorato, non è che ora - se De Magistris sarà eletto - possono uscirsene magari dicendo che è merito loro. Traggano lezione, invece. Il Pd a Napoli ha pagato per le sue scelte, che definire sbagliate è davvero un eufemismo, e per una volta almeno dovrebbe provare ad analizzare i suoi errori. Il Pd è stato punito dagli elettori napoletani per essere diventato come il centrodestra. Ma Napoli e la Campania sono troppo simili alla Sicilia: stessi problemi, stessi livelli insostenibili di disoccupazione, stessa soffocante e velenosa presenza della criminalità organizzata, stessi rapporti fra politica e criminalità. I campani si sono già stufati, alla fine hanno capito: hanno detto no alla “munnezza di miracolo” dell’imbonitore Berlusconi ma hanno detto no anche a un Pd snaturato. Se ne accorgeranno anche i siciliani: quanto può durare questo tenerli schiavi, questo sottometterli, questo pretendere il loro voto prospettandogli un surrogato di lavoro che durerà tre mesi e forse non sarà nemmeno pagato? E per quanto ancora il Pd siciliano potrà avere la faccia, davanti ai suoi elettori, di sostenere un presidente della Regione che ha rapporti con i boss? Se Lombardo è un criminale sul piano giudiziario lo stabiliranno i giudici; che lo sia sul piano politico è sotto gli occhi di tutti e chi lo sostiene è correo.
Il Pd siciliano, assettato di potere ma senza voti perché ha già deluso negli anni le aspettative del suo elettorato, si è prestato a questa porcheria di sostenere Lombardo e di diventare come lui, alimentando il sistema di clientele e appalti più o meno truccati. Mi chiedo se qualcuno dei suoi dirigenti (non la base, che ha già abbastanza vergogna e che al momento del voto saprà cosa fare, come è stato a Napoli) abbia provato almeno un po’ di disagio nel sentire un presidente che affama i siciliani – in occasione del ritorno in Sicilia della venere di Morgantina – dire, come un passante qualunque, che ora sarebbe bello se tornassero anche i nostri conterranei costretti ad emigrare. E chi ce li ha mandati fuori, in numero sempre crescente, se non il suo governo e quelli precedenti di cui era parte? E chi dovrebbe fare qualcosa per invertire la tendenza e creare posti di lavoro veri? O vogliamo aprire un contenzioso con il Getty Museum per farci restituire i nostri migranti? E magari poi li mettiamo a fare le statue.
sabato 14 maggio 2011
A lezione di autonomia
Oggi ho imparato una cosa nuova: la bandiera della Sicilia è gialla e rossa perché il giallo e il rosso sono i colori della nostra terra, i colori del limone e dell’arancio (che poi: a) dovrebbe essere arancione e non rosso; b) semmai è l’arancia e non l’arancio ad essere rossa o arancione e non certo l’arancio). E, siccome è a scuola che si impara, io questa cosa l’ho imparata proprio in una scuola, la media “Dante Alighieri” di Catania, ascoltandola dalla viva voce della preside (giuro: ho registrato, purtroppo, e ho riascoltato, così non posso nemmeno restare con il dubbio di aver capito male), una signora bicolore, bianco e nero dalla testa ai piedi – o, meglio, dalla montatura degli occhiali alla scarpa (tacco 15!) – che sembrava appena uscita da un bozzetto dello stilista André Courrèges (che dell’accostamento geometrico dei due non colori aveva fatto la sua cifra) e che così ha spiegato il bicolore siculo ai suoi alunni, convocati in aula magna a conclusione di un “progetto” sull’autonomia finanziato dall’assessorato regionale all’Istruzione e alla vigilia della giornata dell’Autonomia siciliana istituita l’anno scorso dal presidente Lombardo nel giorno della nascita dello Statuto isolano. Magari avrebbe potuto prima consultare un bignamino della sicilitudine e scoprire che quei due colori più probabilmente erano quelli comunali di Palermo (rosso) e Corleone (giallo) in lotta contro gli Angioini.
Non ha fatto meglio il deputato regionale dell’Mpa, Giuseppe Arena (il suddito, per intenderci, che – in base alle intercettazioni della procura di Catania che indaga Lombardo per rapporti con la mafia – si rivolgerebbe al presidente della regione con l’appellativo di “Sua maestà”), che si è premurato di raccontare ai ragazzini una storia liofilizzata della bandiera siciliana usando pari pari le parole che avrebbero potuto leggere da soli su Wikipedia e poi ha annunciato come grande traguardo del suo straordinario lavoro (?) di parlamentare regionale che lunedì prossimo depositerà un disegno di legge per stabilire che quella famosa bandiera debba essere appesa non – come stabilito nel 2000 – soltanto nel primo giorno di scuola, ma dal primo all’ultimo, sia nell’ufficio del dirigente scolastico che all’esterno dell’istituto. Sarebbe carino sapere quale fabbrica di bandiere vincerà questo vitalizio, dal momento che è chiaro come – mentre quella piazzata nella stanza del preside sarà protetta dalle intemperie – il gonfalone fuori se lo mangerà il sole. A occhio e croce ogni tre mesi, da moltiplicare per tutte le scuole di ogni ordine e grado della Sicilia.
Patetico e stucchevole, poi, l’assessore all’Istruzione e alla Formazione professionale (settore, quest’ultimo, giardino perennemente in fiore del clientelismo di Lombardo), Mario Centorrino, autentico tedoforo del passaggio quasi in massa del Pd alla corte di Lombardo, che si è profuso in una performance teatrale definendo l’iniziativa con gli studenti “un’ora di autentica emozione” e distinguendo fra la Sicilia “pura, degli onesti e delle persone perbene” da quella “rappresentata dai giornali”, cioè da quei cattivacci che parlano di mafia. Con punte di retorica degne di miglior causa quando ha spiegato che dietro lo Statuto siciliano “c’è lotta, sangue, azione, persone che sono morte” (ovviamente non si riferiva ai magistrati uccisi dalla mafia) e ha esortato a “coltivare l’orgoglio della nostra identità”, a pensarla “da siciliani”, a “essere un popolo, con i propri diritti, con i propri bisogni, con la possibilità di farsi valere”.
Ha dimenticato di spiegare a quei ragazzini che quando avranno finito la media, avranno fatto il liceo e si saranno laureati, per farsi valere dovranno andarsene il più lontano possibile dalla Sicilia perché qui non troveranno un lavoro nemmeno come schiavi. A meno di non voler chiamare “Sua maestà” il presidente della Regione.
Non ha fatto meglio il deputato regionale dell’Mpa, Giuseppe Arena (il suddito, per intenderci, che – in base alle intercettazioni della procura di Catania che indaga Lombardo per rapporti con la mafia – si rivolgerebbe al presidente della regione con l’appellativo di “Sua maestà”), che si è premurato di raccontare ai ragazzini una storia liofilizzata della bandiera siciliana usando pari pari le parole che avrebbero potuto leggere da soli su Wikipedia e poi ha annunciato come grande traguardo del suo straordinario lavoro (?) di parlamentare regionale che lunedì prossimo depositerà un disegno di legge per stabilire che quella famosa bandiera debba essere appesa non – come stabilito nel 2000 – soltanto nel primo giorno di scuola, ma dal primo all’ultimo, sia nell’ufficio del dirigente scolastico che all’esterno dell’istituto. Sarebbe carino sapere quale fabbrica di bandiere vincerà questo vitalizio, dal momento che è chiaro come – mentre quella piazzata nella stanza del preside sarà protetta dalle intemperie – il gonfalone fuori se lo mangerà il sole. A occhio e croce ogni tre mesi, da moltiplicare per tutte le scuole di ogni ordine e grado della Sicilia.
Patetico e stucchevole, poi, l’assessore all’Istruzione e alla Formazione professionale (settore, quest’ultimo, giardino perennemente in fiore del clientelismo di Lombardo), Mario Centorrino, autentico tedoforo del passaggio quasi in massa del Pd alla corte di Lombardo, che si è profuso in una performance teatrale definendo l’iniziativa con gli studenti “un’ora di autentica emozione” e distinguendo fra la Sicilia “pura, degli onesti e delle persone perbene” da quella “rappresentata dai giornali”, cioè da quei cattivacci che parlano di mafia. Con punte di retorica degne di miglior causa quando ha spiegato che dietro lo Statuto siciliano “c’è lotta, sangue, azione, persone che sono morte” (ovviamente non si riferiva ai magistrati uccisi dalla mafia) e ha esortato a “coltivare l’orgoglio della nostra identità”, a pensarla “da siciliani”, a “essere un popolo, con i propri diritti, con i propri bisogni, con la possibilità di farsi valere”.
Ha dimenticato di spiegare a quei ragazzini che quando avranno finito la media, avranno fatto il liceo e si saranno laureati, per farsi valere dovranno andarsene il più lontano possibile dalla Sicilia perché qui non troveranno un lavoro nemmeno come schiavi. A meno di non voler chiamare “Sua maestà” il presidente della Regione.
mercoledì 11 maggio 2011
Commissione parlamentare antigiudici
Conversazione (fra la Sicilia e Roma) con Orazio Licandro, a proposito della Commissione parlamentare che il Presidente del Consiglio vorrebbe costituire per fermare i giudici
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Non c’è che dire: negli ultimi cinquant’anni l’Italia ha subìto una metamorfosi che Kafka non avrebbe nemmeno potuto immaginare. Una volta in questo Paese si promuovevano le commissioni parlamentari di inchiesta sul fenomeno mafioso. Ora si sollecita la costituzione di una commissione per indagare sull’operato dei giudici. A proporre per primo una commissione antimafia fu Ferruccio Parri, un antifascista, che la vide realizzare nel 1962. A proporre la commissione antigiudici oggi è un piduista.
La mia conversazione con Orazio Licandro, giurista, oltre che dirigente nazionale dei Comunisti Italiani e della Federazione della Sinistra ed ex componente della Commissione parlamentare Antimafia, parte proprio da questo raffronto:
“Ma la Commissione antimafia riguarda fenomeni eversivi veri, reali. Non si istituisce un organismo così perché i magistrati indagano sull’eventuale commissione di alcuni reati!”
Nella nota in cui si illustrano i compiti della Commissione, il passaggio in cui si spiega che dovrà verificare “se e in quale misura singoli esponenti o gruppi organizzati all’interno della magistratura abbiano svolto attività in contrasto con il principio costituzionale della separazione dei poteri” sembra proprio voler intaccare il sacrosanto principio della divisione dei poteri:
“Infatti questo è proprio un attacco alla magistratura in quanto tale, un’operazione con scopi ben precisi, contraria a qualunque assetto di equilibrio fra i poteri di uno Stato. Se uno pensa agli Stati Uniti, di cui loro si riempiono tanto la bocca…Immaginare che un presidente possa attaccare la Suprema Corte come Berlusconi fa con la Corte costituzionale, finirebbe con l’impeachment. Lo scandalo Nixon scoppiò per molto meno”.
Riusciranno a farla?
“Non credo che andrà avanti: è una cosa che non sta né in cielo né in terra. E’ solo una trovata propagandistica, come la riforma ‘epocale’ della giustizia, che ancora non è stata fatta. Questa è la trovata elettorale di un leader in caduta libera anche presso il proprio elettorato, sia per gli scandali che per le questioni giudiziarie, che cerca di galvanizzare gli istinti più brutali, rozzi e beceri. E non importa se così si va a destrutturare lo Stato democratico”.
Ma nessuno lo ferma…
“Infatti resto sorpreso: il Presidente della Repubblica, invece di lacrimare sul sacrificio di alcuni magistrati (peraltro, che bel messaggio hanno fatto passare: il 9 maggio hanno scelto per la commemorazione soltanto i nomi di quelli uccisi dal terrorismo rosso – e noi lo abbiamo sempre avversato -, ma quelli caduti sotto il piombo del terrorismo nero e della mafia erano meno eroici?), perché non lo prende, metaforicamente, a randellate sui denti? Ormai sembra che si sia instaurato uno schema classico: Napolitano fa appello ai buoni sentimenti, all’unità, alla concordia, e un istante dopo Berlusconi dà due botte, una ai magistrati e l’altra a lui, rivendicando più poteri rispetto al Colle. Che senso ha reggergli bordone?”
Qualora dovessero riuscire a vararla, la Commissione avrà dei costi?
“Non tanto per i parlamentari, che non hanno diritto a un gettone di presenza, ma certamente il personale dovrà essere distolto da altri incarichi e assegnato alla Commissione. Però i costi dovranno essere affrontati per il Presidente dell’organismo: uffici, segreteria, macchine…”
E che a beccarsi questo bel posticino sia l’unico non ancora pagato per i suoi servigi, il più disponibile fra i disponibili (che ha pure qualche problema con la giustizia), l’onorevole (gulp!), Domenico Scilipoti?
“Sì, e magari fa l’agopuntura a tutti!”
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Non c’è che dire: negli ultimi cinquant’anni l’Italia ha subìto una metamorfosi che Kafka non avrebbe nemmeno potuto immaginare. Una volta in questo Paese si promuovevano le commissioni parlamentari di inchiesta sul fenomeno mafioso. Ora si sollecita la costituzione di una commissione per indagare sull’operato dei giudici. A proporre per primo una commissione antimafia fu Ferruccio Parri, un antifascista, che la vide realizzare nel 1962. A proporre la commissione antigiudici oggi è un piduista.
La mia conversazione con Orazio Licandro, giurista, oltre che dirigente nazionale dei Comunisti Italiani e della Federazione della Sinistra ed ex componente della Commissione parlamentare Antimafia, parte proprio da questo raffronto:
“Ma la Commissione antimafia riguarda fenomeni eversivi veri, reali. Non si istituisce un organismo così perché i magistrati indagano sull’eventuale commissione di alcuni reati!”
Nella nota in cui si illustrano i compiti della Commissione, il passaggio in cui si spiega che dovrà verificare “se e in quale misura singoli esponenti o gruppi organizzati all’interno della magistratura abbiano svolto attività in contrasto con il principio costituzionale della separazione dei poteri” sembra proprio voler intaccare il sacrosanto principio della divisione dei poteri:
“Infatti questo è proprio un attacco alla magistratura in quanto tale, un’operazione con scopi ben precisi, contraria a qualunque assetto di equilibrio fra i poteri di uno Stato. Se uno pensa agli Stati Uniti, di cui loro si riempiono tanto la bocca…Immaginare che un presidente possa attaccare la Suprema Corte come Berlusconi fa con la Corte costituzionale, finirebbe con l’impeachment. Lo scandalo Nixon scoppiò per molto meno”.
Riusciranno a farla?
“Non credo che andrà avanti: è una cosa che non sta né in cielo né in terra. E’ solo una trovata propagandistica, come la riforma ‘epocale’ della giustizia, che ancora non è stata fatta. Questa è la trovata elettorale di un leader in caduta libera anche presso il proprio elettorato, sia per gli scandali che per le questioni giudiziarie, che cerca di galvanizzare gli istinti più brutali, rozzi e beceri. E non importa se così si va a destrutturare lo Stato democratico”.
Ma nessuno lo ferma…
“Infatti resto sorpreso: il Presidente della Repubblica, invece di lacrimare sul sacrificio di alcuni magistrati (peraltro, che bel messaggio hanno fatto passare: il 9 maggio hanno scelto per la commemorazione soltanto i nomi di quelli uccisi dal terrorismo rosso – e noi lo abbiamo sempre avversato -, ma quelli caduti sotto il piombo del terrorismo nero e della mafia erano meno eroici?), perché non lo prende, metaforicamente, a randellate sui denti? Ormai sembra che si sia instaurato uno schema classico: Napolitano fa appello ai buoni sentimenti, all’unità, alla concordia, e un istante dopo Berlusconi dà due botte, una ai magistrati e l’altra a lui, rivendicando più poteri rispetto al Colle. Che senso ha reggergli bordone?”
Qualora dovessero riuscire a vararla, la Commissione avrà dei costi?
“Non tanto per i parlamentari, che non hanno diritto a un gettone di presenza, ma certamente il personale dovrà essere distolto da altri incarichi e assegnato alla Commissione. Però i costi dovranno essere affrontati per il Presidente dell’organismo: uffici, segreteria, macchine…”
E che a beccarsi questo bel posticino sia l’unico non ancora pagato per i suoi servigi, il più disponibile fra i disponibili (che ha pure qualche problema con la giustizia), l’onorevole (gulp!), Domenico Scilipoti?
“Sì, e magari fa l’agopuntura a tutti!”
Yuppi du e la politica
Se Adriano Celentano non fosse un ingenuo cronico – che, dunque, non può avere contezza delle responsabilità che si assume un “personaggio pubblico” quando esprime un’opinione – ci sarebbe da incazzarsi sul serio. Se lui non fosse per sempre rimasto “il ragazzo della via Gluck”, con tutto il suo accorato dolore per la sua strada trasformata in “case su case, catrame e cemento”, ci sarebbe da pensare che sta facendo il gioco sporco e che l’unico suo obiettivo sia confondere le acque e le idee.
Mi riferisco alle due lettere (eccessivamente prolisse, e per fortuna che sui giornali non si sentono le pause) indirizzate urbi et orbi dal cantante e pubblicate sul Fatto quotidiano. Novello santone del qualunquismo, seppur animato dalle migliori intenzioni, nella prima – un appassionato appello al voto per i referendum – Celentano aveva già commesso più di uno scivolone nella prima. Innanzitutto rivolgendosi a leghisti e fascisti. Ma davvero pensava di convertirli? E soprattutto indicando in Antonio Di Pietro una sorta di salvatore della patria e quindi, forse, un possibile leader del centrosinistra (e francamente non si capisce come la cosa possa riguardare fascisti e leghisti). Altra brava persona proprio come Celentano, Antonio Di Pietro (anche se più di una volta ha scelto ed eletto candidati che lo hanno e ci hanno messo nei guai), ma il leader di IdV non è l’unico ad essersi intestato la battaglia per l’acqua pubblica o contro il nucleare e il conflitto di interessi: battaglia comune a molti e a un movimento che va addirittura oltre i confini della somma dei partiti politici sensibili a questi argomenti. E Celentano sarebbe il caso che si informasse prima di dare l’investitura a chicchessia.
Oggi, poi, nella lettera sulle elezioni amministrative di Milano, ha superato se stesso. Come quei ragazzini che a scuola, credendo di compiacere l’insegnante, nel tema ci infilano di tutto – tutto e il contrario di tutto – così viene bello lungo. Appunto: Celentano questo tema lo ha fatto lungo come sempre, ma ha combinato un pasticcio: all’inizio dice che l’unica speranza per il capoluogo lombardo (e forse anche per il Paese intero, perché lo stesso Berlusconi ha ammesso il valore politico di queste elezioni – anche se non c’è da aspettarsi che l’imbonitore ne tragga le conseguenze in caso di sconfitta) è Giuliano Pisapia, poi spiega che in realtà la speranza vera è Mattia Calise, il ventenne candidato sindaco del Movimento 5 Stelle, infine solleva le braccia, divarica le gambe e fa un’altra giravolta e torna a dire che però forse è meglio votare per Pisapia. Per piacere, qualcuno gli spieghi che la politica non è Yuppi du.
Mi riferisco alle due lettere (eccessivamente prolisse, e per fortuna che sui giornali non si sentono le pause) indirizzate urbi et orbi dal cantante e pubblicate sul Fatto quotidiano. Novello santone del qualunquismo, seppur animato dalle migliori intenzioni, nella prima – un appassionato appello al voto per i referendum – Celentano aveva già commesso più di uno scivolone nella prima. Innanzitutto rivolgendosi a leghisti e fascisti. Ma davvero pensava di convertirli? E soprattutto indicando in Antonio Di Pietro una sorta di salvatore della patria e quindi, forse, un possibile leader del centrosinistra (e francamente non si capisce come la cosa possa riguardare fascisti e leghisti). Altra brava persona proprio come Celentano, Antonio Di Pietro (anche se più di una volta ha scelto ed eletto candidati che lo hanno e ci hanno messo nei guai), ma il leader di IdV non è l’unico ad essersi intestato la battaglia per l’acqua pubblica o contro il nucleare e il conflitto di interessi: battaglia comune a molti e a un movimento che va addirittura oltre i confini della somma dei partiti politici sensibili a questi argomenti. E Celentano sarebbe il caso che si informasse prima di dare l’investitura a chicchessia.
Oggi, poi, nella lettera sulle elezioni amministrative di Milano, ha superato se stesso. Come quei ragazzini che a scuola, credendo di compiacere l’insegnante, nel tema ci infilano di tutto – tutto e il contrario di tutto – così viene bello lungo. Appunto: Celentano questo tema lo ha fatto lungo come sempre, ma ha combinato un pasticcio: all’inizio dice che l’unica speranza per il capoluogo lombardo (e forse anche per il Paese intero, perché lo stesso Berlusconi ha ammesso il valore politico di queste elezioni – anche se non c’è da aspettarsi che l’imbonitore ne tragga le conseguenze in caso di sconfitta) è Giuliano Pisapia, poi spiega che in realtà la speranza vera è Mattia Calise, il ventenne candidato sindaco del Movimento 5 Stelle, infine solleva le braccia, divarica le gambe e fa un’altra giravolta e torna a dire che però forse è meglio votare per Pisapia. Per piacere, qualcuno gli spieghi che la politica non è Yuppi du.
martedì 10 maggio 2011
La mafia è una montagna di merda
Ci si è messo d’impegno (e qualcuno deve anche averlo coperto, facendo il palo) il mafioso – perché di questo si tratta – che lunedì mattina a Catania ha cancellato parte della scritta “Contro la mafia l’amore per la memoria e l’impegno dell’azione” realizzata da Addiopizzo nell’ambito del progetto “Un muro contro la mafia”: pensieri e parole, verrebbe da dire, per trasmettere a tutti nel modo più semplice e visibile l’impegno dell’associazione in difesa della legalità nella speranza che venga condiviso da sempre più gente. D’altra parte, la legalità è un grande amore e quando hai un grande amore la prima cosa che ti viene in mente è di scriverlo sui muri.
Ma al mafioso di turno quella frase non è piaciuta e ha fatto esattamente come hanno sempre fatto i mafiosi: ha negato l’esistenza della mafia. Della scritta infatti ha cancellato soltanto la parte iniziale – “Contro la mafia” -, lasciando la seconda che, così com’è, privata della premessa fondamentale, si potrebbe persino prestare al suo esatto contrario e suonare addirittura come un’intimidazione. La mafia, si è sempre detto, ha memoria da elefante e prima o poi passa all’azione e te la fa pagare. Intanto cancella le tue idee. E il mafioso – ripeto, che lo sia o ne sia complice accettandone l’esistenza, sempre mafioso è – lo ha fatto coprendo con uno spesso strato di vernice nera e con meticolosità certosina quelle tre parole che lo disturbavano. E deve anche avere impiegato un bel po’ di tempo per fare il lavoro “pulito”. Come quando ammazzano qualcuno e lo sciolgono nell’acido o lo mettono nei pilastri delle case in costruzione per non lasciare traccia.
Non so se l’animale in questione e il suo complice abbiano scelto a caso la data di ieri, il 9 maggio, trentatreesimo anniversario dell’uccisione di Peppino Impastato per mano mafiosa, ma penso che tutti noi (pochi, in realtà, direi a occhio e croce un 20% scarso), tutti i catanesi che credono nella legalità, dovremmo rispondergli in un solo modo e cioè attaccando ai nostri balconi striscioni con le parole di Peppino: la mafia è una montagna di merda.
Ma al mafioso di turno quella frase non è piaciuta e ha fatto esattamente come hanno sempre fatto i mafiosi: ha negato l’esistenza della mafia. Della scritta infatti ha cancellato soltanto la parte iniziale – “Contro la mafia” -, lasciando la seconda che, così com’è, privata della premessa fondamentale, si potrebbe persino prestare al suo esatto contrario e suonare addirittura come un’intimidazione. La mafia, si è sempre detto, ha memoria da elefante e prima o poi passa all’azione e te la fa pagare. Intanto cancella le tue idee. E il mafioso – ripeto, che lo sia o ne sia complice accettandone l’esistenza, sempre mafioso è – lo ha fatto coprendo con uno spesso strato di vernice nera e con meticolosità certosina quelle tre parole che lo disturbavano. E deve anche avere impiegato un bel po’ di tempo per fare il lavoro “pulito”. Come quando ammazzano qualcuno e lo sciolgono nell’acido o lo mettono nei pilastri delle case in costruzione per non lasciare traccia.
Non so se l’animale in questione e il suo complice abbiano scelto a caso la data di ieri, il 9 maggio, trentatreesimo anniversario dell’uccisione di Peppino Impastato per mano mafiosa, ma penso che tutti noi (pochi, in realtà, direi a occhio e croce un 20% scarso), tutti i catanesi che credono nella legalità, dovremmo rispondergli in un solo modo e cioè attaccando ai nostri balconi striscioni con le parole di Peppino: la mafia è una montagna di merda.
domenica 8 maggio 2011
L'uomo delle caverne al governo della regione
Non so quanto di malizioso ci fosse e quanto di freudiano. Certamente era esilarante l’attacco del pezzo di Repubblica (edizione di Palermo) del 6 maggio, firmato da Emanuele Lauria, in cui si dava conto dell’arsenale di Raffaele Lombardo, armi da collezione (e, a quanto sembra, di grande valore economico) che il presidente della Regione tiene nelle sue stanze a Palazzo D’Orléans, come se fosse casa sua e comunque come se non avesse alcuna intenzione di schiodare.
Insomma, l’articolo cominciava così: “Non spara. Anzi, non spara più”. E, come diceva qualcuno, la domanda sorge spontanea: non spara più e si fa imprenditore come la gente che frequenta? Beh, a giudicare dalle imprese in cui – secondo quanto pubblicato da Sud -, ha interessi (lui o sua moglie), si direbbe di sì.
Comunque sia, sembra che Lombardo vada molto orgoglioso dei suoi fucili e mostri una certa competenza. Anche se l’articolo non specifica se fra le armi ci sia qualche fucile a canne mozze o il mitra con cui il governatore della Sicilia minacciava di accogliere gli immigrati se li avesse trovati nelle sue campagne. Forse è a questo che si riferiva quando, rispondendo alle domande del cronista, diceva di avere “nostalgia della caccia”.
Così, oltre che un frequentatore di capimafia, scopriamo di avere al governo l’uomo delle caverne: con la differenza che quelli cacciavano per procurarsi il cibo mentre – per dirla con De Gregori - “il cacciatore uccide sempre per giocare”, cioè per pura crudeltà. Ci mancava solo questa.
Insomma, l’articolo cominciava così: “Non spara. Anzi, non spara più”. E, come diceva qualcuno, la domanda sorge spontanea: non spara più e si fa imprenditore come la gente che frequenta? Beh, a giudicare dalle imprese in cui – secondo quanto pubblicato da Sud -, ha interessi (lui o sua moglie), si direbbe di sì.
Comunque sia, sembra che Lombardo vada molto orgoglioso dei suoi fucili e mostri una certa competenza. Anche se l’articolo non specifica se fra le armi ci sia qualche fucile a canne mozze o il mitra con cui il governatore della Sicilia minacciava di accogliere gli immigrati se li avesse trovati nelle sue campagne. Forse è a questo che si riferiva quando, rispondendo alle domande del cronista, diceva di avere “nostalgia della caccia”.
Così, oltre che un frequentatore di capimafia, scopriamo di avere al governo l’uomo delle caverne: con la differenza che quelli cacciavano per procurarsi il cibo mentre – per dirla con De Gregori - “il cacciatore uccide sempre per giocare”, cioè per pura crudeltà. Ci mancava solo questa.
giovedì 5 maggio 2011
Da Frattocchie ai patronati di Librino
Di solito quando uno dice che considera conclusa o in via di esaurimento un’esperienza vuol dire che è finita. E’ il classico “prendiamoci una pausa di riflessione”, giusto per non essere accusati di crudeltà mentale per aver dato un taglio netto, ma sia chi lascia che chi viene lasciato sa benissimo cosa significa.
In casa Pd – in particolare del Pd regionale – non funziona così. Alla fine della direzione regionale dei giorni scorsi, convocata per decidere se continuare a sostenere il governo Lombardo, il coordinatore della segreteria nazionale, Maurizio Migliavacca, e il segretario regionale dell’(o)P(us)D(ei), Giuseppe Lupo, hanno firmato un documento congiunto in cui si legge: “La valutazione sull’azione di governo di questi mesi ha messo in evidenza luci ed ombre che portano a considerare in via d’esaurimento la fase politica di sostegno al governo tecnico”. Ora, uno normale legge e pensa: “Ah, finalmente hanno capito. Ci sono stati un po’, ma bisogna compatirli perché non sono mai stati dei geni. Però alla fine ci sono arrivati pure loro e hanno deciso di togliere il sostegno al governo”. Governo vergognoso sul piano delle politiche del lavoro - le prime che dovrebbero interessare un partito che si dice democratico e che non disdegna di essere definito “di sinistra”-, sul piano della politica sanitaria, su quello della tutela dei beni culturali e, come se non bastasse, retto da un presidente indagato per rapporti con la mafia. E invece no. Perché poi continui a leggere e ti spiegano: “Ora si tratta di verificare se esistono le condizioni per aprire una nuova prospettiva politica fondata sull’alleanza delle forze progressiste, moderate e autonomiste all’insegna dell’innovazione”. Cioè, non cospargersi il capo di cenere, ammettere l’errore e tornare indietro, ma spingersi oltre (termine peraltro caro al segretario Bersani). Prima si limitavano al petting, ora con Lombardo ci scopano. E i siciliani la prendono nel culo. Così il cerchio si chiude.
Ma siccome non gli basta, si prendono per il culo da soli. O, meglio, lo fanno nei confronti dei loro amici di partito che – per le ragioni più disparate – erano contrari al sostegno a Lombardo al punto da sollecitare un referendum per fare pronunciare la base del partito. Ebbene, dopo mesi di cazzeggio, di liti furibonde, di minacce, di commissariamenti, quella stessa nota congiunta fa contenti tutti e ci informa che adesso andranno a una “verifica stringente”: il 19 giugno ci sarà l’assemblea regionale del partito per valutare la complessiva situazione politica regionale anche alla luce dei risultati delle amministrative, poi si dovrà procedere alla stesura del regolamento per il referendum, ad agosto presumo andranno tutti in vacanza e alla fine, entro settembre, ci sarà la consultazione referendaria. Altri quattro mesi, capite? Quattro mesi per raggirare quelli che si oppongono dall’interno, magari da impiegare riducendoli a scendere a più miti consigli attraverso l’offerta di assessorati e posti di sottogoverno nel governo prossimo venturo che dovrebbe vedere tutti insieme appassionatamente gli eredi di Salvatore Giuliano e quelli (molto presunti) di Pio La Torre; quattro mesi che chissà quanti diventeranno perché per dare il via a questa straordinaria stagione all’insegna del consociativismo e del clientelismo occorreranno le dimissioni di Lombardo e l’indizione di nuove elezioni. Il tempo per fargli un po’ di addestramento e spiegare a quelli del Pd che ancora non l’avessero capito come si fa campagna elettorale. Insomma, una sorta di scuola quadri in cui gli insegnamenti da seguire e fare propri sono quelli di Raffaele Lombardo: da Frattocchie ai patronati di Librino.
In casa Pd – in particolare del Pd regionale – non funziona così. Alla fine della direzione regionale dei giorni scorsi, convocata per decidere se continuare a sostenere il governo Lombardo, il coordinatore della segreteria nazionale, Maurizio Migliavacca, e il segretario regionale dell’(o)P(us)D(ei), Giuseppe Lupo, hanno firmato un documento congiunto in cui si legge: “La valutazione sull’azione di governo di questi mesi ha messo in evidenza luci ed ombre che portano a considerare in via d’esaurimento la fase politica di sostegno al governo tecnico”. Ora, uno normale legge e pensa: “Ah, finalmente hanno capito. Ci sono stati un po’, ma bisogna compatirli perché non sono mai stati dei geni. Però alla fine ci sono arrivati pure loro e hanno deciso di togliere il sostegno al governo”. Governo vergognoso sul piano delle politiche del lavoro - le prime che dovrebbero interessare un partito che si dice democratico e che non disdegna di essere definito “di sinistra”-, sul piano della politica sanitaria, su quello della tutela dei beni culturali e, come se non bastasse, retto da un presidente indagato per rapporti con la mafia. E invece no. Perché poi continui a leggere e ti spiegano: “Ora si tratta di verificare se esistono le condizioni per aprire una nuova prospettiva politica fondata sull’alleanza delle forze progressiste, moderate e autonomiste all’insegna dell’innovazione”. Cioè, non cospargersi il capo di cenere, ammettere l’errore e tornare indietro, ma spingersi oltre (termine peraltro caro al segretario Bersani). Prima si limitavano al petting, ora con Lombardo ci scopano. E i siciliani la prendono nel culo. Così il cerchio si chiude.
Ma siccome non gli basta, si prendono per il culo da soli. O, meglio, lo fanno nei confronti dei loro amici di partito che – per le ragioni più disparate – erano contrari al sostegno a Lombardo al punto da sollecitare un referendum per fare pronunciare la base del partito. Ebbene, dopo mesi di cazzeggio, di liti furibonde, di minacce, di commissariamenti, quella stessa nota congiunta fa contenti tutti e ci informa che adesso andranno a una “verifica stringente”: il 19 giugno ci sarà l’assemblea regionale del partito per valutare la complessiva situazione politica regionale anche alla luce dei risultati delle amministrative, poi si dovrà procedere alla stesura del regolamento per il referendum, ad agosto presumo andranno tutti in vacanza e alla fine, entro settembre, ci sarà la consultazione referendaria. Altri quattro mesi, capite? Quattro mesi per raggirare quelli che si oppongono dall’interno, magari da impiegare riducendoli a scendere a più miti consigli attraverso l’offerta di assessorati e posti di sottogoverno nel governo prossimo venturo che dovrebbe vedere tutti insieme appassionatamente gli eredi di Salvatore Giuliano e quelli (molto presunti) di Pio La Torre; quattro mesi che chissà quanti diventeranno perché per dare il via a questa straordinaria stagione all’insegna del consociativismo e del clientelismo occorreranno le dimissioni di Lombardo e l’indizione di nuove elezioni. Il tempo per fargli un po’ di addestramento e spiegare a quelli del Pd che ancora non l’avessero capito come si fa campagna elettorale. Insomma, una sorta di scuola quadri in cui gli insegnamenti da seguire e fare propri sono quelli di Raffaele Lombardo: da Frattocchie ai patronati di Librino.
mercoledì 4 maggio 2011
Cascio e il matrimonio riparatore
Ricordate Franca Viola? Quelli che hanno più di cinquant’anni forse sì. Bisognerebbe farla studiare a scuola la sua storia e metterla nelle enciclopedie alla voce “Dignità”: forse non ci sarebbero tante ragazzine disposte a tutto. E bisognerebbe ricordarla ai politici disposti a tutto.
Franca Viola (che oggi ha poco più di una sessantina d’anni), nella Sicilia degli anni Cinquanta – quella delle donne con gli scialli neri che le ricoprivano dalla testa ai piedi (altro che burqa!) e del lutto per il marito portato a vita – e nell’Italia ancora lontana dalle battaglie femministe, dal nuovo diritto di famiglia, dal divorzio e dalla legalizzazione dell’aborto, era una ragazzina di Alcamo appena diciassettenne, rapita da un suo spasimante respinto (parente di boss mafiosi di calibro) e violentata con l’obiettivo di sanare tutto con il “matrimonio riparatore”, come se un atto burocratico potesse rimarginare una ferita del genere.
Franca Viola, prima fra tutte in Italia, si ribellò in un colpo solo alla prepotenza maschilista e mafiosa. E disse no all’ipocrisia e all’ulteriore violenza di un matrimonio senza amore.
Ora, fatte le dovute proporzioni, vorrei parlare del cosiddetto “diritto di tribuna” concesso (octroyé, come lo Statuto albertino) un paio di mesi fa a Sel e IdV dal presidente dell’Assemblea regionale siciliana, Francesco Cascio, che – contestualmente e non so quanto casualmente – ha comunicato la propria intenzione di candidarsi alla presidenza della Regione. Decisione motivata dal fatto che quelle due forze politiche (rimaste fuori dall’Ars a causa dello sbarramento al 5% introdotto e confermato nel 2005 con referendum e fortemente voluto dal centrodestra e da Ds e Margherita - al tempo ufficialmente ancora centrosinistra, ma la metamorfosi era già avviata - che, soprattutto i Ds, uccidendo i piccoli partiti della sinistra volevano arginare l’emorragia di voti dovuta solo ai loro errori) sono “espressione di una consistente frazione del corpo elettorale”. Insomma, un matrimonio riparatore dopo la violenza fatta a centinaia di migliaia di elettori privati di rappresentanza politica. Grazie a questa “pezza”, Sel e IdV – ma dopo è stato aggiunto il Psi, perché qualcuno ha ricordato a Cascio che anche i socialisti avevano fatto le spese dello sbarramento – potranno assistere alle sedute del “parlamento siciliano” (cosa che, se non sbaglio, dovrebbe essere consentita a qualunque cittadino) e, soprattutto, avranno a disposizione stanze in cui riunirsi, telefoni, fax, computer.
Francamente la sensazione – supportata anche dalle sviolinate a Cascio da parte dei segretari regionali dei due partiti, Erasmo Palazzotto e Fabio Giambrone – è che gli si sia voluto mettere a disposizione tutti gli strumenti per farsi la campagna elettorale dando loro un vantaggio. E pazienza se Cascio non ricordava, appunto, che fuori dall’Ars era rimasto anche il Psi e se, soprattutto, non ricordava che quel 4,9% (quattrovirgolanovepercento!!!), pari ai voti di oltre centotrentunomila siciliani, non era di Sel che allora non esisteva, ma della lista Sinistra arcobaleno, all’interno della quale c’erano Rifondazione comunista, Comunisti italiani, Verdi e Sinistra Democratica che poi avrebbe dato vita a Sel. E se la memoria non m’inganna, furono proprio Verdi ed Sd ad opporsi alla presenza della falce e martello nel simbolo: c’è gente che ancora la sta cercando e ha messo la croce dove capitava in assenza di un riferimento certo. Ma questa è un’altra storia. O, se preferite, seguendo l’onda, un’altra narrazione.
Mi chiedo che senso abbia tutto questo. L’unica conseguenza che riesco a vedere è che Cascio si accaparra la riconoscenza dei ripescati in vista della sua candidatura alla presidenza della regione e i ripescati conquistano la possibilità di fare campagna elettorale in una posizione di privilegio rispetto ad altre forze politiche. Ma sul piano della dignità, faccio fatica a pensare che la si possa mantenere dopo una tale genuflessione. In più, l’escamotage della presenza nei consigli regionali di almeno cinque regioni non regge, appunto perché la forza rappresentata in altre regioni, cioè Sel, è diversa da quella che per un soffio non ha superato lo sbarramento in Sicilia. E, francamente, non mi interessa neanche che – a partire da questo ragionamento – il “privilegio” venga esteso anche alla Federazione della Sinistra (Pdci e Prc) e ai Verdi che costituivano tutti insieme la Sinistra Arcobaleno. Appunto, perché si tratta di un privilegio e, in quanto tale, odioso. Così come non mi va (cosa a quanto pare accaduta anche a molti che hanno ricevuto le telefonate di alcuni sondaggisti e che, per una sorta di moderna conventio ad excludendum, non hanno potuto esprimere la loro intenzione di voto per i comunisti perché non erano contemplati ma messi in un unico calderone rosé) di rinunciare alla mia identità comunista e di essere assimilata a chi ambisce a diventare la corrente di sinistra del Pd. Né di prestarmi alla guerra per bande fra Pdl ed Mpa, che considero in egual misura avversari politici e nemici della Sicilia.
Quanto a Cascio, se proprio è stato preso da una botta di democrazia e se vuol farsi perdonare la violenza che i partiti maggiori hanno perpetrato ai danni degli elettori, prima ancora che delle forze politiche più piccole, il presidente dell’Ars non prospetti anacronistici matrimoni riparatori, ma magari solleciti i parlamentari a modificare la legge e quindi abolire questo liberticidio che chiamano sbarramento. Lì, davvero, dimostrerebbe “sensibilità” per dirla con Giambrone.
Franca Viola (che oggi ha poco più di una sessantina d’anni), nella Sicilia degli anni Cinquanta – quella delle donne con gli scialli neri che le ricoprivano dalla testa ai piedi (altro che burqa!) e del lutto per il marito portato a vita – e nell’Italia ancora lontana dalle battaglie femministe, dal nuovo diritto di famiglia, dal divorzio e dalla legalizzazione dell’aborto, era una ragazzina di Alcamo appena diciassettenne, rapita da un suo spasimante respinto (parente di boss mafiosi di calibro) e violentata con l’obiettivo di sanare tutto con il “matrimonio riparatore”, come se un atto burocratico potesse rimarginare una ferita del genere.
Franca Viola, prima fra tutte in Italia, si ribellò in un colpo solo alla prepotenza maschilista e mafiosa. E disse no all’ipocrisia e all’ulteriore violenza di un matrimonio senza amore.
Ora, fatte le dovute proporzioni, vorrei parlare del cosiddetto “diritto di tribuna” concesso (octroyé, come lo Statuto albertino) un paio di mesi fa a Sel e IdV dal presidente dell’Assemblea regionale siciliana, Francesco Cascio, che – contestualmente e non so quanto casualmente – ha comunicato la propria intenzione di candidarsi alla presidenza della Regione. Decisione motivata dal fatto che quelle due forze politiche (rimaste fuori dall’Ars a causa dello sbarramento al 5% introdotto e confermato nel 2005 con referendum e fortemente voluto dal centrodestra e da Ds e Margherita - al tempo ufficialmente ancora centrosinistra, ma la metamorfosi era già avviata - che, soprattutto i Ds, uccidendo i piccoli partiti della sinistra volevano arginare l’emorragia di voti dovuta solo ai loro errori) sono “espressione di una consistente frazione del corpo elettorale”. Insomma, un matrimonio riparatore dopo la violenza fatta a centinaia di migliaia di elettori privati di rappresentanza politica. Grazie a questa “pezza”, Sel e IdV – ma dopo è stato aggiunto il Psi, perché qualcuno ha ricordato a Cascio che anche i socialisti avevano fatto le spese dello sbarramento – potranno assistere alle sedute del “parlamento siciliano” (cosa che, se non sbaglio, dovrebbe essere consentita a qualunque cittadino) e, soprattutto, avranno a disposizione stanze in cui riunirsi, telefoni, fax, computer.
Francamente la sensazione – supportata anche dalle sviolinate a Cascio da parte dei segretari regionali dei due partiti, Erasmo Palazzotto e Fabio Giambrone – è che gli si sia voluto mettere a disposizione tutti gli strumenti per farsi la campagna elettorale dando loro un vantaggio. E pazienza se Cascio non ricordava, appunto, che fuori dall’Ars era rimasto anche il Psi e se, soprattutto, non ricordava che quel 4,9% (quattrovirgolanovepercento!!!), pari ai voti di oltre centotrentunomila siciliani, non era di Sel che allora non esisteva, ma della lista Sinistra arcobaleno, all’interno della quale c’erano Rifondazione comunista, Comunisti italiani, Verdi e Sinistra Democratica che poi avrebbe dato vita a Sel. E se la memoria non m’inganna, furono proprio Verdi ed Sd ad opporsi alla presenza della falce e martello nel simbolo: c’è gente che ancora la sta cercando e ha messo la croce dove capitava in assenza di un riferimento certo. Ma questa è un’altra storia. O, se preferite, seguendo l’onda, un’altra narrazione.
Mi chiedo che senso abbia tutto questo. L’unica conseguenza che riesco a vedere è che Cascio si accaparra la riconoscenza dei ripescati in vista della sua candidatura alla presidenza della regione e i ripescati conquistano la possibilità di fare campagna elettorale in una posizione di privilegio rispetto ad altre forze politiche. Ma sul piano della dignità, faccio fatica a pensare che la si possa mantenere dopo una tale genuflessione. In più, l’escamotage della presenza nei consigli regionali di almeno cinque regioni non regge, appunto perché la forza rappresentata in altre regioni, cioè Sel, è diversa da quella che per un soffio non ha superato lo sbarramento in Sicilia. E, francamente, non mi interessa neanche che – a partire da questo ragionamento – il “privilegio” venga esteso anche alla Federazione della Sinistra (Pdci e Prc) e ai Verdi che costituivano tutti insieme la Sinistra Arcobaleno. Appunto, perché si tratta di un privilegio e, in quanto tale, odioso. Così come non mi va (cosa a quanto pare accaduta anche a molti che hanno ricevuto le telefonate di alcuni sondaggisti e che, per una sorta di moderna conventio ad excludendum, non hanno potuto esprimere la loro intenzione di voto per i comunisti perché non erano contemplati ma messi in un unico calderone rosé) di rinunciare alla mia identità comunista e di essere assimilata a chi ambisce a diventare la corrente di sinistra del Pd. Né di prestarmi alla guerra per bande fra Pdl ed Mpa, che considero in egual misura avversari politici e nemici della Sicilia.
Quanto a Cascio, se proprio è stato preso da una botta di democrazia e se vuol farsi perdonare la violenza che i partiti maggiori hanno perpetrato ai danni degli elettori, prima ancora che delle forze politiche più piccole, il presidente dell’Ars non prospetti anacronistici matrimoni riparatori, ma magari solleciti i parlamentari a modificare la legge e quindi abolire questo liberticidio che chiamano sbarramento. Lì, davvero, dimostrerebbe “sensibilità” per dirla con Giambrone.
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