sabato 30 ottobre 2010
Manutenzione stradale fai da te
Vi ricordate l’Ottavo nano e lo sketch sulla casa delle libertà? Uno si alzava la mattina e aveva bisogno di un po’ di luce in più in una stanza o di una parete divisoria? Prendeva un piccone e apriva; si armava di mattoni e cazzuola e chiudeva. Oppure, invece di portare il cane fuori a far pipì, lo teneva ben fermo oltre la ringhiera del balcone e gliela faceva fare giù, sulla testa dei passanti. La scena ogni volta si concludeva con lo slogan “La casa delle libertà, facciamo un po’ come cazzo ci pare”.
Ecco dev’essere per questo che l’80% dei catanesi – allergici se non pericolosamente intolleranti a qualsiasi norma, aspiranti fuori legge – vota per il centrodestra, così ognuno fa un po’ come cazzo gli pare: vuoi parcheggiare il motorino sul marciapiede (che, come dice la parola stessa, servirebbe a farci marciare i piedi e non le ruote) e lo scooter è pesante? Basta armarsi di cemento e darsi alla manutenzione stradale, costruendosi una piccola scivola.
E’ quello che ha fatto in via Tomaselli, all’altezza del numero 15, il proprietario di uno scooterone la cui ruota posteriore è visibile nella foto. Ovviamente, nessuno se ne occuperà: a meno di non voler varare una legge ad scooteronem.
venerdì 29 ottobre 2010
Simpaticoni
Sì, è vero: io non sono molto ingombrante, un metro e mezzo di altezza per 45 chili di peso e a 46 già mi sento grassa. Però non sono del tutto invisibile. E allora vorrei chiedere ai miei (casuali, perché non è possibile che apparteniamo alla stessa razza) concittadini catanesi perché, quando mi incrociano per strada, non fanno come faccio io quando incontro loro.
Io, se sto camminando su un marciapiede troppo stretto per contenere me e quelli che vengono dal senso opposto, mi metto a tre quarti; se sta piovendo, per non infilare il mio ombrello negli occhi degli altri, lo inclino a rischio di farmi la doccia; se vedo un poveretto che sta scaricando un vitello e se lo sta caricando sulle spalle non faccio una questione di sesso né (ahimé, ormai) di età: mi fermo e lo faccio passare; se urto qualcuno involontariamente, chiedo scusa; se qualcuno in auto – evento rarissimo – si ferma mentre io attraverso, sorrido e ringrazio.
Voi no: voi non accennate nemmeno a farmi un po’ di spazio; voi tirate dritto anche a costo di costringermi a buttarmi giù dal marciapiede mentre sta passando l’autobus; voi mi urtate e sembrate non accorgervene.
Perché voi, se io mi fermo per farvi passare, mi guardate con l’aria incazzata? Forse perché questo vi obbligherebbe alla cortesia?
Eppure dai risultati di un sondaggio di qualche settimana fa, effettuato da Seat Pagine gialle e Ispo, i catanesi si percepiscono generosi, ospitali, allegri e simpatici.
Ah, ecco: allora doveva essere un simpaticone quell’automobilista che, qualche giorno fa, mentre un’ambulanza occupava la strada per caricare un’anziana signora in barella, si è messo a suonare il clacson a perdidito. E certamente quella melodia serviva a tirare su il morale alla vecchietta: allegria!
Ma, chissà com’è, io non mi sono divertita affatto e in quel momento avrei voluto essere l’invincibile Hulk, prenderlo con una mano, stritolarlo e poi sbattergli la testa sull’asfalto fino a fargli uscire il cervello, ammesso che ne avesse uno. E invece, di fronte a tanta maleducazione e mancanza di umanità, ti senti ancora più piccolo e impotente.
Io, se sto camminando su un marciapiede troppo stretto per contenere me e quelli che vengono dal senso opposto, mi metto a tre quarti; se sta piovendo, per non infilare il mio ombrello negli occhi degli altri, lo inclino a rischio di farmi la doccia; se vedo un poveretto che sta scaricando un vitello e se lo sta caricando sulle spalle non faccio una questione di sesso né (ahimé, ormai) di età: mi fermo e lo faccio passare; se urto qualcuno involontariamente, chiedo scusa; se qualcuno in auto – evento rarissimo – si ferma mentre io attraverso, sorrido e ringrazio.
Voi no: voi non accennate nemmeno a farmi un po’ di spazio; voi tirate dritto anche a costo di costringermi a buttarmi giù dal marciapiede mentre sta passando l’autobus; voi mi urtate e sembrate non accorgervene.
Perché voi, se io mi fermo per farvi passare, mi guardate con l’aria incazzata? Forse perché questo vi obbligherebbe alla cortesia?
Eppure dai risultati di un sondaggio di qualche settimana fa, effettuato da Seat Pagine gialle e Ispo, i catanesi si percepiscono generosi, ospitali, allegri e simpatici.
Ah, ecco: allora doveva essere un simpaticone quell’automobilista che, qualche giorno fa, mentre un’ambulanza occupava la strada per caricare un’anziana signora in barella, si è messo a suonare il clacson a perdidito. E certamente quella melodia serviva a tirare su il morale alla vecchietta: allegria!
Ma, chissà com’è, io non mi sono divertita affatto e in quel momento avrei voluto essere l’invincibile Hulk, prenderlo con una mano, stritolarlo e poi sbattergli la testa sull’asfalto fino a fargli uscire il cervello, ammesso che ne avesse uno. E invece, di fronte a tanta maleducazione e mancanza di umanità, ti senti ancora più piccolo e impotente.
lunedì 25 ottobre 2010
U spacchiusu
Il suo nome non ce l’hanno detto e non ci hanno mostrato nemmeno la foto. Ha 18 anni, ma è incensurato e questo lo mette al riparo dalla gogna. Però, già me lo immagino: dev’essere uno di quei “mammoriani” (si chiamano ancora così o nel frattempo è cambiato qualcosa?), con la sfumatura dei capelli altissima, sei chili di gel in testa, la merda al posto del cervello e lo sguardo da pesce bollito. Uno di quelli “spacchiusi” che per sentirsi maschi se la prendono con i più deboli.
Le tv nazionali di questo non hanno parlato (a chi volete che importi?), ma il fatto è che questo giovane catanese di belle speranze un sabato sera se n’è andato in piazza Duomo e, in mancanza di meglio da fare, ha preso di mira un venditore ambulante del Bangladesh, un ragazzo poco più grande di lui, regolare, gli ha rubato tre o quattro cose che aveva sulla bancarella (giocattoli di quelli che valgono meno di niente) e, quando quello ha protestato perché le voleva restituite, lo ha “corcato”.
Il referto dell’ospedale parla di “contusioni al viso, laterocervicali, toracoaddominali” e alla gamba destra: vuol dire che lo ha pestato selvaggiamente e, se non fossero arrivati in tempo i carabinieri, chiamati al telefono dallo stesso aggredito, che ha dimostrato di avere molto più senso della legalità di tanti italiani, probabilmente oggi sentiremmo parlare dell’ennesimo omicidio assurdo in questo Paese che ha smarrito il senso delle cose. E per fortuna questo giovane ambulante è in Italia con permesso regolare, altrimenti avrebbe subìto anche la beffa dei calci in culo della Bossi-Fini.
Io quello lì invece – u spacchiusu - vorrei vederlo in faccia. Anzi, vorrei che lo si esponesse sulla stessa piazza e che tutti gli sputassero in faccia per dirgli quanto non sia nemmeno un mezzo uomo.
Le tv nazionali di questo non hanno parlato (a chi volete che importi?), ma il fatto è che questo giovane catanese di belle speranze un sabato sera se n’è andato in piazza Duomo e, in mancanza di meglio da fare, ha preso di mira un venditore ambulante del Bangladesh, un ragazzo poco più grande di lui, regolare, gli ha rubato tre o quattro cose che aveva sulla bancarella (giocattoli di quelli che valgono meno di niente) e, quando quello ha protestato perché le voleva restituite, lo ha “corcato”.
Il referto dell’ospedale parla di “contusioni al viso, laterocervicali, toracoaddominali” e alla gamba destra: vuol dire che lo ha pestato selvaggiamente e, se non fossero arrivati in tempo i carabinieri, chiamati al telefono dallo stesso aggredito, che ha dimostrato di avere molto più senso della legalità di tanti italiani, probabilmente oggi sentiremmo parlare dell’ennesimo omicidio assurdo in questo Paese che ha smarrito il senso delle cose. E per fortuna questo giovane ambulante è in Italia con permesso regolare, altrimenti avrebbe subìto anche la beffa dei calci in culo della Bossi-Fini.
Io quello lì invece – u spacchiusu - vorrei vederlo in faccia. Anzi, vorrei che lo si esponesse sulla stessa piazza e che tutti gli sputassero in faccia per dirgli quanto non sia nemmeno un mezzo uomo.
Trenitalia e la Sicilia: il delitto perfetto
Un giorno mi era venuta voglia di andare a Mazara del Vallo. Così, tanto per. Noi siciliani (persino una stanziale, come me) conosciamo quasi tutto delle località estere, ma la nostra terra non la visitiamo mai. “Quanto saranno? – mi sono detta - Trecento chilometri, forse meno”. Macchina troppo vecchia, però. E poi costerebbe un botto di benzina. Così, avevo pensato di prendere il treno. In nord Italia (o, forse, dovrei dire in Italia, e non solo per la farneticante secessione padana ma per quella reale e concreta già da tempo messa in atto da Trenitalia) la gente lo fa sempre quando si tratta di poche centinaia di chilometri: prendono il treno e risparmiano in benzina, in pedaggi autostradali e in stress. Sono andata sul sito delle ferrovie per vedere gli orari. Ebbene, sapete quanto ci sta il treno per andare da Catania a Mazara del Vallo? Dodici ore, più che da Catania a Firenze! Anzi, dovrei dire: quanto ci stava. Già, perché non c’è più, sparito. Sul sito non si trova più: “nessuna soluzione trovata”.
E comunque, a quel punto, siccome vuoi farti del male, continui la ricerca: Catania-Trapani, 10 ore; Palermo-Catania (come dire, da capitale a capitale) 6 ore e cocci; Palermo-Siracusa, da 6 ore a 7 ore e mezza, sempre se non prendi quello che – presumo - fa la circumnavigazione del globo terraqueo e allora di ore ne impieghi 11 e 47 minuti, cioè quasi 12; Messina-Noto, cioè dalla presunta capitale del Ponte con annesse magnifiche sorti e progressive (tre chilometri da attraversare in un battito di ciglio, ma a cui aggiungerne almeno 40 dal pilone alla città) alla capitale del barocco, fra quattro ore e mezza e cinque ore e mezza; sei ore e mezza per Ragusa, altrettante per Agrigento… Dev’essere questa quella cosa che chiamano “lunga percorrenza”. Ed è meglio non continuare nella ricerca.
Anche perché, sia che si tratti di trasporto merci o passeggeri - che poi vuol dire lavoro, lavoro e ancora lavoro che non c’è o è a rischio, per i ferrovieri, per i pendolari, per chi vive di turismo, di agricoltura o di artigianato - la situazione delle ferrovie in Sicilia è disastrosa e tale da far pensare di essere andati indietro ben oltre quei primi decenni dell’unità d’Italia a cui risalgono le tratte isolane. Basterebbe guardare soltanto a quanti chilometri sull’intera rete ferroviaria siciliana sono a doppio binario: solo 169, mentre gli altri 1209 – pari all’88% dell’intera rete – sono a binario unico.
Basterebbe, ma non basta: perché i sindacati da tempo hanno lanciato l’allarme su un disimpegno di Trenitalia nei confronti della Sicilia e ora puntualmente i nodi vengono al pettine. L’estate scorsa, per esempio, la Fit Cisl ha fatto sapere di ritardi cronici – fino a quasi un’ora e mezza – dei treni in partenza da Palermo e questo perché manca il personale di manovra e pure quello preposto alla manutenzione, tanto da parlare di stato di abbandono delle officine. E già un anno fa i macchinisti del Comitato Lavoratori Cargo Trenitalia avevano denunciato la “progressiva dismissione” degli scali di Palermo-Brancaccio, Alcamo, Canicattì e Fiumetorto, aggiungendo: “Temiamo che nel futuro i treni merci si fermeranno a Villa San Giovanni, tagliando fuori la Sicilia dal resto del territorio nazionale. In questa ipotesi, il danno per l’economia e l’ambiente siciliano sarebbe disastroso e incalcolabile”. Allarme d’altra parte ripreso e rilanciato dalla Filt-Cgil che negli stessi giorni confermava la chiusura dei “servizi merci a carro singolo, diffuso e combinato” e la “conseguente dismissione degli scali” i cui “effetti diretti e i riflessi metteranno in dubbio la tenuta produttiva di tutto il sistema”. La Filt avanzava quindi l’ipotesi di un “definitivo scollegamento del nostro sistema da quello nazionale ed europeo in un arco di tempo che stimiamo di 2-3 anni”, chiarendo quindi le proporzioni del fenomeno: “Dai 330 addetti attuali, a fine 2010 si arriverà probabilmente a 130”.
Solo un’ipotesi allarmistica? Non si direbbe. Quest’estate la faccenda ha cominciato ad esplodere. A un certo punto, nel giugno scorso, si è saputo che da oltre un mese nella stazione catanese di Acquicella porto i treni merci non arrivavano più e che vagoni carichi di legname erano fermi a Marcianise, in Campania, senza una ragione ma con conseguenze devastanti per una fra le più antiche industrie catanesi per la lavorazione e la trasformazione del legno, la cui sede si trova proprio in prossimità di quello scalo e che in quel momento aveva riserve soltanto per sei mesi.
Negli stessi giorni, la Cna di Vittoria denunciava lo stesso rischio di fine attività per le segherie di marmo perché Trenitalia (che si difendeva, dicendo di non avere competenza) aveva chiuso o stava per chiudere gradualmente tutte le stazioni – Comiso, Gela, Catania Bicocca – dove fino a quel momento erano arrivati i blocchi di granito. Altro che corridoio 1 dalla Scandinavia al bacino del Mediterraneo e altro che Ponte sullo Stretto! In quell’occasione Giorgio Stracquadanio, responsabile organizzativo della Cna, faceva rilevare come sostituire il trasporto su ferro con quello gommato sarà impossibile a causa dei costi e dello stato delle strade siciliane e che questo avrebbe provocato l’isolamento definitivo dal resto d’Europa delle province della Sicilia sud-orientale.
E di disimpegno evidente di Trenitalia, da almeno due anni, parla Franco Spanò, segretario regionale della Filt-Cgil, che – ricordando le ultime decisioni della società, in base alle quali proprio in questi mesi viene attuata la riduzione di vagoni e posti passeggeri e dei treni a lunga percorrenza – fa rilevare come il cosiddetto “servizio universale” sarà “sostanzialmente soppresso”: e già, per esempio, i treni che vanno da Siracusa a Roma sono rimasti soltanto due e da un po’ sono stati ridotti anche quelli da Agrigento e da Palermo. Per di più, vengono meno anche quei servizi che dovrebbero rendere dignitoso l’andare in treno, come la pulizia dei vagoni, il controllo di qualità delle vetture, la manutenzione. I danni maggiori ancora si devono vedere, ma già comincia a farne le spese più di altre città Messina, dove fra l’altro resterà soltanto una nave traghetto (con ulteriore perdita di posti di lavoro) perché i treni italiani si fermeranno in Calabria.
Per il sindacalista, sul versante dei treni a lunga percorrenza è evidente la responsabilità del governo nazionale che ha già ridotto negli anni i finanziamenti statali per il trasporto pubblico e nella finanziaria 2011 ha previsto tagli ulteriori. Come se non bastasse, dall’ultima delibera del Cipe sono scomparsi i raddoppi delle tratte Messina-Catania e Messina-Palermo. E sul versante dei trasporti regionali, Spanò definisce “importanti” le responsabilità del governo siciliano per non avere ancora firmato con le Ferrovie il nuovo contratto di servizio, cioè il documento in cui Trenitalia e la regione (che ha competenza sul trasporto pubblico locale) stabiliscono quali servizi saranno erogati, quali saranno i loro costi, dove sarà necessario apportare modifiche, tutto tenendo conto delle esigenze della clientela. Che, in realtà, non sembrano interessare granché né Trenitalia né il governo regionale siciliano, se è vero che migliaia di pendolari salgono quotidianamente su treni in ritardo, con pochi posti, sporchi, con nessuna garanzia di qualità e dunque di sicurezza: è quello che il segretario della Filt chiama “atteggiamento di chi disprezza anche l’utenza più fidelizzata”. “Disagi incomprensibili e insostenibili”, per Spanò, e “scelte scellerate” quelle di sopprimere i treni “fregandosene delle utenze” quasi a volerle indurre a usare la strada – con i suoi costi elevati in termini di carburanti e pedaggi autostradali – e penalizzando il mezzo più ecologico e a minor impatto ambientale. Scelte, quelle di Trenitalia, che - oltre a produrre in breve tempo la perdita di circa 500 posti di lavoro (fra ferrovieri e dipendenti di ditte affidatarie di appalti e subappalti) – secondo Spanò vanno “nella direzione opposta” ai tanti proclami sul Ponte, svelandone l’inutilità dal momento che proprio una parte della megaopera dovrebbe essere destinata al passaggio dei treni. Forse gli faranno fare avanti e indietro per fare divertire i bambini.
A completare l’architettura di quello che appare come il disegno per un delitto perfetto, c’è infine la questione dei binari bomba. Palmiro Prisutto, il parroco di Brucoli in prima linea sui temi ambientali, lo denuncia da anni ed è tornato a farlo dopo la sciagura di Viareggio del giugno 2009, quando l’esplosione di un treno merci che trasportava gas provocò decine di morti e di feriti e costrinse un migliaio di persone ad andare via dalle loro case. Nella tratta da Augusta a Siracusa, il rischio è quotidiano da più di trent’anni e i passeggeri – secondo Prisutto – vengono mandati “deliberatamente incontro al pericolo”: perché per ben 15 chilometri la ferrovia passa all’interno degli stabilimenti del Petrolchimico, in mezzo a quelle fabbriche nelle quali in passato si sono verificati più volte incidenti. E con un rischio in più: che ad esplodere siano anche le autobotti che ogni giorno a decine passano nel centro abitato di Priolo per portare il loro carico ad alto rischio al deposito che si trova proprio fra la stazione ferroviaria e alcune abitazioni.
Giusto per farsi un’idea di quanta gente potrebbe essere coinvolta soltanto fra gli utenti delle Ferrovie, è sufficiente ancora una volta andare a guardare orari e percorsi: fra regionali e a lunga percorrenza i treni che vanno a Siracusa da Messina o Catania fra le 6 del mattino e le nove di sera sono almeno una quindicina. Anzi, di nuovo, dovrei dire: “andavano” ed “erano”, perché nel frattempo un po’ di convogli a lunga percorrenza li hanno soppressi. Così, semmai, a saltare in aria saranno solo i siciliani.
E comunque, a quel punto, siccome vuoi farti del male, continui la ricerca: Catania-Trapani, 10 ore; Palermo-Catania (come dire, da capitale a capitale) 6 ore e cocci; Palermo-Siracusa, da 6 ore a 7 ore e mezza, sempre se non prendi quello che – presumo - fa la circumnavigazione del globo terraqueo e allora di ore ne impieghi 11 e 47 minuti, cioè quasi 12; Messina-Noto, cioè dalla presunta capitale del Ponte con annesse magnifiche sorti e progressive (tre chilometri da attraversare in un battito di ciglio, ma a cui aggiungerne almeno 40 dal pilone alla città) alla capitale del barocco, fra quattro ore e mezza e cinque ore e mezza; sei ore e mezza per Ragusa, altrettante per Agrigento… Dev’essere questa quella cosa che chiamano “lunga percorrenza”. Ed è meglio non continuare nella ricerca.
Anche perché, sia che si tratti di trasporto merci o passeggeri - che poi vuol dire lavoro, lavoro e ancora lavoro che non c’è o è a rischio, per i ferrovieri, per i pendolari, per chi vive di turismo, di agricoltura o di artigianato - la situazione delle ferrovie in Sicilia è disastrosa e tale da far pensare di essere andati indietro ben oltre quei primi decenni dell’unità d’Italia a cui risalgono le tratte isolane. Basterebbe guardare soltanto a quanti chilometri sull’intera rete ferroviaria siciliana sono a doppio binario: solo 169, mentre gli altri 1209 – pari all’88% dell’intera rete – sono a binario unico.
Basterebbe, ma non basta: perché i sindacati da tempo hanno lanciato l’allarme su un disimpegno di Trenitalia nei confronti della Sicilia e ora puntualmente i nodi vengono al pettine. L’estate scorsa, per esempio, la Fit Cisl ha fatto sapere di ritardi cronici – fino a quasi un’ora e mezza – dei treni in partenza da Palermo e questo perché manca il personale di manovra e pure quello preposto alla manutenzione, tanto da parlare di stato di abbandono delle officine. E già un anno fa i macchinisti del Comitato Lavoratori Cargo Trenitalia avevano denunciato la “progressiva dismissione” degli scali di Palermo-Brancaccio, Alcamo, Canicattì e Fiumetorto, aggiungendo: “Temiamo che nel futuro i treni merci si fermeranno a Villa San Giovanni, tagliando fuori la Sicilia dal resto del territorio nazionale. In questa ipotesi, il danno per l’economia e l’ambiente siciliano sarebbe disastroso e incalcolabile”. Allarme d’altra parte ripreso e rilanciato dalla Filt-Cgil che negli stessi giorni confermava la chiusura dei “servizi merci a carro singolo, diffuso e combinato” e la “conseguente dismissione degli scali” i cui “effetti diretti e i riflessi metteranno in dubbio la tenuta produttiva di tutto il sistema”. La Filt avanzava quindi l’ipotesi di un “definitivo scollegamento del nostro sistema da quello nazionale ed europeo in un arco di tempo che stimiamo di 2-3 anni”, chiarendo quindi le proporzioni del fenomeno: “Dai 330 addetti attuali, a fine 2010 si arriverà probabilmente a 130”.
Solo un’ipotesi allarmistica? Non si direbbe. Quest’estate la faccenda ha cominciato ad esplodere. A un certo punto, nel giugno scorso, si è saputo che da oltre un mese nella stazione catanese di Acquicella porto i treni merci non arrivavano più e che vagoni carichi di legname erano fermi a Marcianise, in Campania, senza una ragione ma con conseguenze devastanti per una fra le più antiche industrie catanesi per la lavorazione e la trasformazione del legno, la cui sede si trova proprio in prossimità di quello scalo e che in quel momento aveva riserve soltanto per sei mesi.
Negli stessi giorni, la Cna di Vittoria denunciava lo stesso rischio di fine attività per le segherie di marmo perché Trenitalia (che si difendeva, dicendo di non avere competenza) aveva chiuso o stava per chiudere gradualmente tutte le stazioni – Comiso, Gela, Catania Bicocca – dove fino a quel momento erano arrivati i blocchi di granito. Altro che corridoio 1 dalla Scandinavia al bacino del Mediterraneo e altro che Ponte sullo Stretto! In quell’occasione Giorgio Stracquadanio, responsabile organizzativo della Cna, faceva rilevare come sostituire il trasporto su ferro con quello gommato sarà impossibile a causa dei costi e dello stato delle strade siciliane e che questo avrebbe provocato l’isolamento definitivo dal resto d’Europa delle province della Sicilia sud-orientale.
E di disimpegno evidente di Trenitalia, da almeno due anni, parla Franco Spanò, segretario regionale della Filt-Cgil, che – ricordando le ultime decisioni della società, in base alle quali proprio in questi mesi viene attuata la riduzione di vagoni e posti passeggeri e dei treni a lunga percorrenza – fa rilevare come il cosiddetto “servizio universale” sarà “sostanzialmente soppresso”: e già, per esempio, i treni che vanno da Siracusa a Roma sono rimasti soltanto due e da un po’ sono stati ridotti anche quelli da Agrigento e da Palermo. Per di più, vengono meno anche quei servizi che dovrebbero rendere dignitoso l’andare in treno, come la pulizia dei vagoni, il controllo di qualità delle vetture, la manutenzione. I danni maggiori ancora si devono vedere, ma già comincia a farne le spese più di altre città Messina, dove fra l’altro resterà soltanto una nave traghetto (con ulteriore perdita di posti di lavoro) perché i treni italiani si fermeranno in Calabria.
Per il sindacalista, sul versante dei treni a lunga percorrenza è evidente la responsabilità del governo nazionale che ha già ridotto negli anni i finanziamenti statali per il trasporto pubblico e nella finanziaria 2011 ha previsto tagli ulteriori. Come se non bastasse, dall’ultima delibera del Cipe sono scomparsi i raddoppi delle tratte Messina-Catania e Messina-Palermo. E sul versante dei trasporti regionali, Spanò definisce “importanti” le responsabilità del governo siciliano per non avere ancora firmato con le Ferrovie il nuovo contratto di servizio, cioè il documento in cui Trenitalia e la regione (che ha competenza sul trasporto pubblico locale) stabiliscono quali servizi saranno erogati, quali saranno i loro costi, dove sarà necessario apportare modifiche, tutto tenendo conto delle esigenze della clientela. Che, in realtà, non sembrano interessare granché né Trenitalia né il governo regionale siciliano, se è vero che migliaia di pendolari salgono quotidianamente su treni in ritardo, con pochi posti, sporchi, con nessuna garanzia di qualità e dunque di sicurezza: è quello che il segretario della Filt chiama “atteggiamento di chi disprezza anche l’utenza più fidelizzata”. “Disagi incomprensibili e insostenibili”, per Spanò, e “scelte scellerate” quelle di sopprimere i treni “fregandosene delle utenze” quasi a volerle indurre a usare la strada – con i suoi costi elevati in termini di carburanti e pedaggi autostradali – e penalizzando il mezzo più ecologico e a minor impatto ambientale. Scelte, quelle di Trenitalia, che - oltre a produrre in breve tempo la perdita di circa 500 posti di lavoro (fra ferrovieri e dipendenti di ditte affidatarie di appalti e subappalti) – secondo Spanò vanno “nella direzione opposta” ai tanti proclami sul Ponte, svelandone l’inutilità dal momento che proprio una parte della megaopera dovrebbe essere destinata al passaggio dei treni. Forse gli faranno fare avanti e indietro per fare divertire i bambini.
A completare l’architettura di quello che appare come il disegno per un delitto perfetto, c’è infine la questione dei binari bomba. Palmiro Prisutto, il parroco di Brucoli in prima linea sui temi ambientali, lo denuncia da anni ed è tornato a farlo dopo la sciagura di Viareggio del giugno 2009, quando l’esplosione di un treno merci che trasportava gas provocò decine di morti e di feriti e costrinse un migliaio di persone ad andare via dalle loro case. Nella tratta da Augusta a Siracusa, il rischio è quotidiano da più di trent’anni e i passeggeri – secondo Prisutto – vengono mandati “deliberatamente incontro al pericolo”: perché per ben 15 chilometri la ferrovia passa all’interno degli stabilimenti del Petrolchimico, in mezzo a quelle fabbriche nelle quali in passato si sono verificati più volte incidenti. E con un rischio in più: che ad esplodere siano anche le autobotti che ogni giorno a decine passano nel centro abitato di Priolo per portare il loro carico ad alto rischio al deposito che si trova proprio fra la stazione ferroviaria e alcune abitazioni.
Giusto per farsi un’idea di quanta gente potrebbe essere coinvolta soltanto fra gli utenti delle Ferrovie, è sufficiente ancora una volta andare a guardare orari e percorsi: fra regionali e a lunga percorrenza i treni che vanno a Siracusa da Messina o Catania fra le 6 del mattino e le nove di sera sono almeno una quindicina. Anzi, di nuovo, dovrei dire: “andavano” ed “erano”, perché nel frattempo un po’ di convogli a lunga percorrenza li hanno soppressi. Così, semmai, a saltare in aria saranno solo i siciliani.
giovedì 14 ottobre 2010
Il suggeritore
Da qualche tempo in Italia i giornalisti si fanno le domande e si danno le risposte: è la nuova figura professionale del cronista suggeritore. In questo mondo televisivo in cui ogni avvenimento ha il copione già scritto, il professionista solerte – presente cinque minuti dopo il delitto sul luogo di una violenza carnale o un omicidio (che sia lui, e non più il maggiordomo, l’assassino?) - avvicina la comparsa di turno, inebetita non si sa se dall’atrocità del fatto o da quella domanda con risposta incorporata, e le chiede: “Rabbia e dolore?”. E quella, rassegnata, annuisce: “Rabbia e dolore”.
E poi giù con una teoria infinita di banalità che si susseguono come slavine, rotolano l’una sull’altra, si fondono, ci travolgono e alla fine ci inghiottono tutti.
Ai funerali c’era “una folla commossa”. Mai che ci dicano che – parenti stretti a parte – quelli che erano là se ne sbattevano i coglioni e c’erano andati solo per farsi riprendere dalle telecamere.
Se la vittima aveva 15 anni, a seconda che fosse un ragazzo o una ragazza, gli intervistati ripeteranno come un’eco le parole dell’intervistatore e ci diranno – anche se li avevano solo visti passare per strada un paio di volte – che era “allegro” o “solare” e naturalmente aveva grandi aspettative per il suo futuro e la sua vita. E nessuno viene sfiorato dal dubbio che - proprio perché aveva 15 anni e non aveva ancora capito quale fosse il suo posto nel mondo – pensasse più spesso alla morte e al suicidio che alla vita.
Bandiere tricolori, massime autorità dello Stato e amor di Patria a go go - fino alla sbornia irreversibile a meno che non si riesca a vomitare - invece per il militare morto in una guerra che chiamano pace. E il giornalista credente, obbediente e combattente suggerisce ai genitori di esaltare la fede del figlio in quella missione.
Immancabile, quando la vittima è un ragazzo – con un impegno straordinario ad accumulare strato su strato ovvietà e stereotipi -, la maglia della “squadra del cuore” posata sulla bara, giusto per alimentare l’inganno in base al quale la Patria e il football sono equamente (anzi, il calcio di più) ideali talmente alti da giustificare persino una guerra. E infatti eserciti senza regole si fronteggiano negli stadi. E infatti cronisti suggeritori non provano la minima vergogna a parlare di un goal “entrato nella Storia”.
Poi ci sono le interviste ai vicini di casa e a quelli che abitano nella stessa strada del morto: “Lei lo conosceva? Vi parlavate?” Risposta: “Lo vedevo passare, ogni tanto salutava”. Fondamentale.
Impagabile, infine, l’intervista al prete, che – non si capisce perché – è garanzia di purezza e santità pure se è stato condannato per pedofilia. Così come essere cattolico, per il suggeritore (che evidentemente non conosce la Storia – quella vera – e nemmeno la cronaca, che sarebbe il suo mestiere), è sinonimo di bontà d’animo, onestà, serietà sul lavoro: “Un bravo ragazzo” suggerisce il suggeritore. E allora è divertente vedere il religioso arrampicarsi sugli specchi, perché il morto in chiesa non ci è mai entrato e forse cambiava pure marciapiede quando passava da quelle parti: “Sì, sì, un bravo ragazzo…Non veniva spesso…ma la mamma viene a messa tutte le domeniche e fa le offerte per i poveri. Una santa”. Dunque, per la proprietà transitiva o forse solo per l’ipocrisia di non parlare male dei morti, un santo pure lui.
Ma quand’è che recupererete la dignità? Parlo con voi, sì: voi giornalisti e voi intervistati. Voi giornalisti, perché potreste anche rendervi conto che si può porre una domanda intelligente o che ancora più intelligente (e umano) sarebbe non costringere una madre o un padre devastati dal dolore a recitare per forza la loro parte in commedia. Voi intervistati, voi comparse, perché potreste sottrarvi al rito dell’intervista se non ne avete voglia e invece preferite apparire. Anche se ci fate la figura dei coglioni.
E poi giù con una teoria infinita di banalità che si susseguono come slavine, rotolano l’una sull’altra, si fondono, ci travolgono e alla fine ci inghiottono tutti.
Ai funerali c’era “una folla commossa”. Mai che ci dicano che – parenti stretti a parte – quelli che erano là se ne sbattevano i coglioni e c’erano andati solo per farsi riprendere dalle telecamere.
Se la vittima aveva 15 anni, a seconda che fosse un ragazzo o una ragazza, gli intervistati ripeteranno come un’eco le parole dell’intervistatore e ci diranno – anche se li avevano solo visti passare per strada un paio di volte – che era “allegro” o “solare” e naturalmente aveva grandi aspettative per il suo futuro e la sua vita. E nessuno viene sfiorato dal dubbio che - proprio perché aveva 15 anni e non aveva ancora capito quale fosse il suo posto nel mondo – pensasse più spesso alla morte e al suicidio che alla vita.
Bandiere tricolori, massime autorità dello Stato e amor di Patria a go go - fino alla sbornia irreversibile a meno che non si riesca a vomitare - invece per il militare morto in una guerra che chiamano pace. E il giornalista credente, obbediente e combattente suggerisce ai genitori di esaltare la fede del figlio in quella missione.
Immancabile, quando la vittima è un ragazzo – con un impegno straordinario ad accumulare strato su strato ovvietà e stereotipi -, la maglia della “squadra del cuore” posata sulla bara, giusto per alimentare l’inganno in base al quale la Patria e il football sono equamente (anzi, il calcio di più) ideali talmente alti da giustificare persino una guerra. E infatti eserciti senza regole si fronteggiano negli stadi. E infatti cronisti suggeritori non provano la minima vergogna a parlare di un goal “entrato nella Storia”.
Poi ci sono le interviste ai vicini di casa e a quelli che abitano nella stessa strada del morto: “Lei lo conosceva? Vi parlavate?” Risposta: “Lo vedevo passare, ogni tanto salutava”. Fondamentale.
Impagabile, infine, l’intervista al prete, che – non si capisce perché – è garanzia di purezza e santità pure se è stato condannato per pedofilia. Così come essere cattolico, per il suggeritore (che evidentemente non conosce la Storia – quella vera – e nemmeno la cronaca, che sarebbe il suo mestiere), è sinonimo di bontà d’animo, onestà, serietà sul lavoro: “Un bravo ragazzo” suggerisce il suggeritore. E allora è divertente vedere il religioso arrampicarsi sugli specchi, perché il morto in chiesa non ci è mai entrato e forse cambiava pure marciapiede quando passava da quelle parti: “Sì, sì, un bravo ragazzo…Non veniva spesso…ma la mamma viene a messa tutte le domeniche e fa le offerte per i poveri. Una santa”. Dunque, per la proprietà transitiva o forse solo per l’ipocrisia di non parlare male dei morti, un santo pure lui.
Ma quand’è che recupererete la dignità? Parlo con voi, sì: voi giornalisti e voi intervistati. Voi giornalisti, perché potreste anche rendervi conto che si può porre una domanda intelligente o che ancora più intelligente (e umano) sarebbe non costringere una madre o un padre devastati dal dolore a recitare per forza la loro parte in commedia. Voi intervistati, voi comparse, perché potreste sottrarvi al rito dell’intervista se non ne avete voglia e invece preferite apparire. Anche se ci fate la figura dei coglioni.
domenica 10 ottobre 2010
Eroi della disoccupazione
Eroi della pace li hanno chiamati. E’ l’ultima puttanata che ho sentito per giustificare l’omicidio di quattro ragazzi da parte di uno Stato che li manda a morire perché non sa che farsene di loro; che giudica più economico mandarli in guerra piuttosto che creare per loro posti di lavoro.
Eroi della disoccupazione li chiamerei. Tre su quattro erano meridionali; uno di quei tre era siciliano. E i siciliani non si contano più in queste guerre maledette contro la mancanza di lavoro che li obbliga ad arruolarsi e farsi ammazzare pur di portare a casa a fine mese uno straccio di stipendio; come negli anni Cinquanta e Sessanta facevano i meridionali e siciliani che entravano in Polizia o nei Carabinieri, pur di non arruolarsi nella criminalità, e spesso finivano ammazzati per stipendi di fame e dovevano subire pure lo scherno di diventare macchiette nei film che li dipingevano piccoli, brutti, neri, con i baffetti, un po’ tonti e dall’accento marcato.
Eroi della disperazione, nascono sul mare o in mezzo agli aranceti e se ne vanno a fare gli alpini, una cosa quasi contronatura, cacciati dalla loro terra che, oggi come cinquant’anni fa, produce solo disoccupazione.
Ci vadano, a fare la guerra e a farsi ammazzare, lo psicopatico che gioca ancora con i soldatini di piombo e tutto il suo governo che dal Meridione e dai suoi figli affamati cerca solo voti; ci vada a fare la guerra un governatore che governa solo clientele e posti di lavoro a tre mesi, dai quali scappare anche a costo di morire in una guerra che produce solo guerra.
E la smettano, dopo, all’ennesima conta delle vittime, di iniettarci in vena la loro orribile retorica patriottarda tagliata male.
Eroi della disoccupazione li chiamerei. Tre su quattro erano meridionali; uno di quei tre era siciliano. E i siciliani non si contano più in queste guerre maledette contro la mancanza di lavoro che li obbliga ad arruolarsi e farsi ammazzare pur di portare a casa a fine mese uno straccio di stipendio; come negli anni Cinquanta e Sessanta facevano i meridionali e siciliani che entravano in Polizia o nei Carabinieri, pur di non arruolarsi nella criminalità, e spesso finivano ammazzati per stipendi di fame e dovevano subire pure lo scherno di diventare macchiette nei film che li dipingevano piccoli, brutti, neri, con i baffetti, un po’ tonti e dall’accento marcato.
Eroi della disperazione, nascono sul mare o in mezzo agli aranceti e se ne vanno a fare gli alpini, una cosa quasi contronatura, cacciati dalla loro terra che, oggi come cinquant’anni fa, produce solo disoccupazione.
Ci vadano, a fare la guerra e a farsi ammazzare, lo psicopatico che gioca ancora con i soldatini di piombo e tutto il suo governo che dal Meridione e dai suoi figli affamati cerca solo voti; ci vada a fare la guerra un governatore che governa solo clientele e posti di lavoro a tre mesi, dai quali scappare anche a costo di morire in una guerra che produce solo guerra.
E la smettano, dopo, all’ennesima conta delle vittime, di iniettarci in vena la loro orribile retorica patriottarda tagliata male.
venerdì 8 ottobre 2010
Racket delle estorsioni
La storia mi ricorda tanto quelle che sentiamo quotidianamente in Sicilia, quando arrestano uno del racket delle estorsioni.
Davanti al negozio trovi una tanica di benzina, un avvertimento inequivocabile, ti rivolgi al boss della zona (di denunciare alle forze dell’ordine non se ne parla), chiedi protezione, ti accordi sul prezzo e da quel momento dormi tranquillo.
Solo che in questo caso protagonisti (e colpevoli in egual misura) sono il capo degli industriali italiani, il direttore di un quotidiano nazionale e un componente più che autorevole del cda dello stesso giornale (oltre che amico intimo del mandante).
Davanti al negozio trovi una tanica di benzina, un avvertimento inequivocabile, ti rivolgi al boss della zona (di denunciare alle forze dell’ordine non se ne parla), chiedi protezione, ti accordi sul prezzo e da quel momento dormi tranquillo.
Solo che in questo caso protagonisti (e colpevoli in egual misura) sono il capo degli industriali italiani, il direttore di un quotidiano nazionale e un componente più che autorevole del cda dello stesso giornale (oltre che amico intimo del mandante).
mercoledì 6 ottobre 2010
Maggior partito di Esposizione
Alcuni vecchi catanesi – vecchi non soltanto per questioni anagrafiche, ma per una sorta di “sclerosi cerebrale” che colpisce alcuni a quarant’anni, impedendo loro di accettare i cambiamenti – piazza Verga la chiamano ancora piazza Esposizione: “nni viremu all’esposizione” è l’appuntamento che getta nel panico i più giovani, che non sanno di che si stia parlando, e nello smarrimento persino quelli della mia generazione che sono nati e cresciuti chiamandola con il nuovo nome e troppo distanti da quell’evento (l’Esposizione agricola siciliana del 1907) che appunto aveva dato il nome alla piazza.
Ora, quando sento parlare di “maggior partito di opposizione” a proposito di una formazione politica che tutto ha fuorché essere “maggiore” e di “opposizione”, mi viene da pensare proprio a quegli ottantenni con i piedi saldamente incollati alla loro gioventù come un bambino capriccioso.
Allora ve lo spiego io: questo partito di cui parlate voi (sceso ormai a percentuali da suicidio grazie alle sue scelte di destra) non è quel partito di cui si vorrebbe far credere erede (e che, se potesse, vi dovrebbe denunciare per millantato credito e appropriazione indebita). Quello era il maggior partito di opposizione. Questo - per usi, costumi, pratiche consociative, propensione all’inciucio, traccheggiamenti e attrazione fatale nei confronti del potere – somiglia molto di più al partito di maggioranza relativa. Senza averne i numeri.
Ora, quando sento parlare di “maggior partito di opposizione” a proposito di una formazione politica che tutto ha fuorché essere “maggiore” e di “opposizione”, mi viene da pensare proprio a quegli ottantenni con i piedi saldamente incollati alla loro gioventù come un bambino capriccioso.
Allora ve lo spiego io: questo partito di cui parlate voi (sceso ormai a percentuali da suicidio grazie alle sue scelte di destra) non è quel partito di cui si vorrebbe far credere erede (e che, se potesse, vi dovrebbe denunciare per millantato credito e appropriazione indebita). Quello era il maggior partito di opposizione. Questo - per usi, costumi, pratiche consociative, propensione all’inciucio, traccheggiamenti e attrazione fatale nei confronti del potere – somiglia molto di più al partito di maggioranza relativa. Senza averne i numeri.
domenica 3 ottobre 2010
Pirati a Palermo
Avete visto i manifesti che annunciano la festa del Pd a Catania? Esauriti animali, fiori, frutti, alberi, ora si passa alle cose. Nella parte centrale campeggia una lampadina (nemmeno di quelle a basso consumo, che potrebbe suggerire una certa attenzione ai temi dell’ambiente, no: una di quella antiche) accompagnata dallo slogan “Sotto una nuova luce”.
Scusate, ma mi viene da ridere. Perché, da qualunque parte la si guardi, non hanno scampo. Se, putacaso, la lampadina a cui pensavano era Edi, l’aiutante di Archimede Pitagorico, e se dunque pensano di avere fatto una genialata sostenendo il governo Lombardo, c’è solo da compatirli. Convinti di guadagnarci (e sperando di spartirsi l’ampia torta delle clientele, delle consulenze e dei posti di sottogoverno), si ritroveranno con le scarpe sfondate e i guanti di lana bucati a mendicare qualche voto sui marciapiedi e a pietire dall’arraffatutto qualche posto di lavoro precario e in nero per loro stessi o per i loro figli. Se invece – ritenendo Lombardo il salvatore della Patria e dell’umanità – volevano dire di essere di essere stati folgorati sulla via di Palermo, sarebbe stato meglio per la loro dignità e per il bene dei loro elettori se fossero stati folgorati da una scarica elettrica potentissima mentre in gruppo avvitavano la lampadina. D’altra parte, siccome mi rifiuto di credere nell’ingenuità di gente che sta in politica da quarant’anni, l’unica festa che mi viene in mente pensando al Pd è quella dei 18 anni di Noemi Letizia: ci manca solo che arrivi il sultano pedofilo a impalmarli pubblicamente.
E già, d’altra parte, se non proprio nel lettone di Putin ma almeno dietro le quinte qualcosa dev’essere successo e da tempo, se per esempio – parlando di questioni nazionali – fu proprio Massimo D’Alema a buttare a mare la legge sul conflitto di interessi; se Veltroni (che, invece che andare in Africa, dovrebbe passare al Pdl: perché un terzo mondo così in fatto di illegalità non lo trova da nessuna parte) ha candidato il più “padrone” degli imprenditori (quel Massimo Calearo che, in un’intervista a dir poco esilarante, dice che nel Pd – da cui ha già traslocato – ci sono i bolscevichi); se Vannino Chiti, alla notizia della presunta iscrizione di Schifani sul registro degli indagati per concorso esterno in associazione mafiosa si precipita ad esprimere solidarietà al presidente del Senato piuttosto che agli italiani che se lo ritrovano come seconda carica dello Stato; se la prima carica dello Stato prova il bisogno compulsivo di firmare qualunque porcheria serva al duce; se l’unica volta che hanno candidato un operaio alle elezioni (quel Boccuzzi scampato all’incendio della Thyssen-Krupp) hanno preso uno che secondo i suoi compagni di lavoro votava Forza Italia; se non gli è parso vero che Bossi facesse le sue scuse ai romani (ma non alle istituzioni romane, cioè allo Stato) per ritirare in fretta e furia la mozione di sfiducia nei confronti del ministro ai rutti e alle canottiere; se – scendendo in Sicilia – Anna Finocchiaro non prova nemmeno un briciolo di vergogna a definire persone per bene quelle che stanno dentro il governo di Raffaele Lombardo (indagato per mafia); se un sindacalista ex deputato regionale dei Ds figura fra i questuanti nel presunto libro delle clientele del presidente della Regione; se i dirigenti di quel partito si guardano bene dal privarsi della presenza (e dei pacchetti di voti, immagino) dell’onorevole Wladimiro Crisafulli che – come se non bastasse l’accusa di farsela con i boss – si è fatto beccare recentemente pure per essersi fatto pavimentare a spese della provincia di Enna la strada che porta alla sua villa. E queste sono solo le cose che ricordo a memoria.
Che forse si possono spiegare proprio a partire da una metaforica lampadina, una luce che – secondo un signore che su Internet si fa chiamare Zenadir – trasmetterebbe “l’insegnamento della Via”, per “ricevere una Tradizione che consente il miglioramento del nostro Io, un affinare quelle potenzialità e caratteristiche che ci permetteranno, un giorno, di salire la Scala che collega il pavimento bianco e nero alla volta Celeste, al Delta che illuminiamo proprio perché esso, a sua volta, illumini noi ed i nostri passi”. E via così farneticando.
Citazione per citazione, io ne preferisco una che – alla “luce” delle nuove alleanze politiche siciliane – delinea perfettamente il quadro: “N’arrubbaru lu suli, lu suli/ Arristammu allu scuru, /chi scuru /Sicilia chianci!”
Scusate, ma mi viene da ridere. Perché, da qualunque parte la si guardi, non hanno scampo. Se, putacaso, la lampadina a cui pensavano era Edi, l’aiutante di Archimede Pitagorico, e se dunque pensano di avere fatto una genialata sostenendo il governo Lombardo, c’è solo da compatirli. Convinti di guadagnarci (e sperando di spartirsi l’ampia torta delle clientele, delle consulenze e dei posti di sottogoverno), si ritroveranno con le scarpe sfondate e i guanti di lana bucati a mendicare qualche voto sui marciapiedi e a pietire dall’arraffatutto qualche posto di lavoro precario e in nero per loro stessi o per i loro figli. Se invece – ritenendo Lombardo il salvatore della Patria e dell’umanità – volevano dire di essere di essere stati folgorati sulla via di Palermo, sarebbe stato meglio per la loro dignità e per il bene dei loro elettori se fossero stati folgorati da una scarica elettrica potentissima mentre in gruppo avvitavano la lampadina. D’altra parte, siccome mi rifiuto di credere nell’ingenuità di gente che sta in politica da quarant’anni, l’unica festa che mi viene in mente pensando al Pd è quella dei 18 anni di Noemi Letizia: ci manca solo che arrivi il sultano pedofilo a impalmarli pubblicamente.
E già, d’altra parte, se non proprio nel lettone di Putin ma almeno dietro le quinte qualcosa dev’essere successo e da tempo, se per esempio – parlando di questioni nazionali – fu proprio Massimo D’Alema a buttare a mare la legge sul conflitto di interessi; se Veltroni (che, invece che andare in Africa, dovrebbe passare al Pdl: perché un terzo mondo così in fatto di illegalità non lo trova da nessuna parte) ha candidato il più “padrone” degli imprenditori (quel Massimo Calearo che, in un’intervista a dir poco esilarante, dice che nel Pd – da cui ha già traslocato – ci sono i bolscevichi); se Vannino Chiti, alla notizia della presunta iscrizione di Schifani sul registro degli indagati per concorso esterno in associazione mafiosa si precipita ad esprimere solidarietà al presidente del Senato piuttosto che agli italiani che se lo ritrovano come seconda carica dello Stato; se la prima carica dello Stato prova il bisogno compulsivo di firmare qualunque porcheria serva al duce; se l’unica volta che hanno candidato un operaio alle elezioni (quel Boccuzzi scampato all’incendio della Thyssen-Krupp) hanno preso uno che secondo i suoi compagni di lavoro votava Forza Italia; se non gli è parso vero che Bossi facesse le sue scuse ai romani (ma non alle istituzioni romane, cioè allo Stato) per ritirare in fretta e furia la mozione di sfiducia nei confronti del ministro ai rutti e alle canottiere; se – scendendo in Sicilia – Anna Finocchiaro non prova nemmeno un briciolo di vergogna a definire persone per bene quelle che stanno dentro il governo di Raffaele Lombardo (indagato per mafia); se un sindacalista ex deputato regionale dei Ds figura fra i questuanti nel presunto libro delle clientele del presidente della Regione; se i dirigenti di quel partito si guardano bene dal privarsi della presenza (e dei pacchetti di voti, immagino) dell’onorevole Wladimiro Crisafulli che – come se non bastasse l’accusa di farsela con i boss – si è fatto beccare recentemente pure per essersi fatto pavimentare a spese della provincia di Enna la strada che porta alla sua villa. E queste sono solo le cose che ricordo a memoria.
Che forse si possono spiegare proprio a partire da una metaforica lampadina, una luce che – secondo un signore che su Internet si fa chiamare Zenadir – trasmetterebbe “l’insegnamento della Via”, per “ricevere una Tradizione che consente il miglioramento del nostro Io, un affinare quelle potenzialità e caratteristiche che ci permetteranno, un giorno, di salire la Scala che collega il pavimento bianco e nero alla volta Celeste, al Delta che illuminiamo proprio perché esso, a sua volta, illumini noi ed i nostri passi”. E via così farneticando.
Citazione per citazione, io ne preferisco una che – alla “luce” delle nuove alleanze politiche siciliane – delinea perfettamente il quadro: “N’arrubbaru lu suli, lu suli/ Arristammu allu scuru, /chi scuru /Sicilia chianci!”
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