Statisticamente,
è impossibile che sia solo sfiga. Dieci lavori su dieci, venti su venti, se non
ti mettono in regola, se ti fanno lavorare a qualunque ora del giorno e della
notte, se alla fine non ti pagano, non è sfiga: è sfruttamento.
Se
il suo nome cominciasse per A, sarebbe solo l’inizio di un alfabeto infinito di
nuovi schiavi che arriva alla Zeta e torna indietro.
“A”
è una giovane donna di 32 anni, una laurea in Grafica all’Accademia di Belle
arti, che da più di dieci anni – prima da diplomata e poi da laureata - riceve
sempre lo stesso trattamento, con piccole variazioni sul tema.
Il
primo, subito dopo il diploma, è stato un fotografo: le faceva fare di tutto, dai
fotoritocchi alle fotocopie, per dieci euro a settimana e poi non glieli ha
dati nemmeno tutti. «Volevo lavorare, fare esperienza», racconta. E lui
naturalmente se ne approfittava.
Poi
c’è stata un’agenzia che circa sette anni fa cercava tirocinanti con un
annuncio su Internet: un mese di prova, rimborsi spese e poi l’assunzione. Il
mese è finito ma non si sono visti né i soldi né il contratto. In compenso
quell’annuncio continua a girare in rete: c’è da giurare che da sette anni
quell’agenzia continui a fare profitti sulla pelle di tirocinanti sfruttati per
un mese e mandati via senza nemmeno un grazie.
Dopo
è stata la volta di una tipografia: tirocinio di un mese e poi via, senza
nemmeno il rimborso spese.
Non
è mancato il vecchio bavoso che parlava di porcherie e pretendeva che lei si
sedesse sulle sue gambe: «Ovviamente non lo facevo – ricorda -, mi faceva
schifo, ma ero piccola e non sapevo che avrei potuto denunciarlo. Ho una rabbia
se ci ripenso. Non so se sia ancora vivo, ma se lo fosse ci sarebbe da
sputtanarlo».
Alla
fine è arrivato il giovane imprenditore, aspirante consulente aziendale: «Gli
faccio vedere i miei lavori. Belli, molto belli, mi dice, complimenti». Dunque?
Dunque lavoro nero. Cinque ne assume con questo sistema: due grafiche, due
addette al marketing e uno sviluppatore di siti web. Un lavoro colossale per un
albergo con ristorante e Spa. Dovevano fare tutto in un mese: bigliettini da
visita, numeri delle stanze, cartelli con la scritta “non disturbare”,
volantini, menu, brochure, fino ai 6x3. Seicentocinquanta euro al mese e la
prospettiva di altri lavori, almeno sulla carta. Ma la carta non c’era, perché
non c’è mai stato nessun contratto. E non c’è stata nemmeno la cartamoneta. Le
telefonate anche in piena notte perché dovevano essere a disposizione a
qualunque ora, gli insulti, gli urli, gli atti di prepotenza e di maleducazione
invece c’erano tutti: «Una volta – ricorda – c’è stato un problema con lo
stampatore e si doveva rifare una cosa. Io non ero a casa e lui mi ha fatto
duecento fra telefonate e sms. Sono andata nel panico totale». Superfluo dire
che, il giorno in cui lei ha fatto le proprie rimostranze, lui non ci ha pensato
un attimo a mandarla via e, dopo aver trovato da ridire persino sul suo modo di
vestirsi, a distanza di quasi un anno non le ha ancora pagato il lavoro.
Funziona
così nell’Italia dello schiavismo. Ed è inutile che il bullo e la sua gang ci
raccontino la favoletta dell’abolizione della lettera di dimissioni in bianco o
del caporalato in agricoltura, quando il jobs act ha cancellato tutti i diritti
dei lavoratori ed eliminato ogni ostacolo all’esercizio dell’odio di classe da
parte dei cosiddetti datori di lavoro. Il caporalato ormai è in tutti i settori,
che tu sia un’astrofisica o un bracciante: è un caporalato erga omnes. Con la
differenza che ad esercitarlo non è più soltanto un “mediatore”, ma
direttamente il padrone mandante e beneficiario delle leggi renziane.
No, non è solo sfiga: è delinquenza politica e
datoriale.
* Questa storia è arrivata a me grazie al lavoro dello Sportello di autodifesa precaria del Centro sociale Officina Rebelde di Catania.