Niente matrimoni gay, no all’adozione per i single e libertà per i genitori di non iscrivere i loro figli alla scuola pubblica, dove “gli insegnanti inculcano ai ragazzi valori diversi da quelli delle loro famiglie”. Ora, come sempre, sfidando il ridicolo e le registrazioni audio e video, il Presidente del consiglio dice che le sue parole sono state travisate, solite strumentalizzazioni dei comunisti che lui vede dappertutto.
Ma tutti noi, tutti noi che abbiamo fatto la scuola pubblica e tutti gli insegnanti – precari, sottopagati, licenziati, bistrattati, vittime del razzismo leghista – che ogni giorno continuano con passione e dedizione a fare il loro lavoro e con la consapevolezza del loro altissimo ruolo sociale, tutti noi lo abbiamo visto il cane rabbioso, come il suo amico e socio Gheddafi che vomitava parole di odio contro gli oppositori invitando i suoi fedelissimi ad ucciderli; tutti noi abbiamo visto Berlusconi al congresso dei Cristiano riformisti sbavare disprezzo contro gli insegnanti, oltre che contro i single desiderosi di adottare un bambino e contro le coppie gay: un tris d’assi per riconquistare il consenso delle gerarchie ecclesiastiche (costrette dai fedeli a prendere, almeno formalmente, posizione contro il basso impero) e ottenere la “contestualizzazione” del bunga bunga facendo intravedere i fiumi di denaro che le sue parole potrebbero far scorrere all’interno della chiesa cattolica.
Che schifo. Non mi vengono altre parole: lei, presidente, indegno presidente, mi fa solo vomitare.
D’altra parte, è sufficiente un ragionamento concatenato, un sillogismo, a partire dalle scuole che hanno frequentato Berlusconi e altri che hanno assassinato il nostro Paese.
E allora vediamo:
Berlusconi Silvio – corruttore, amico di mafiosi, pedofilo, pluridivorziato: maturità classica al liceo salesiano Sant'Ambrogio di Milano;
Cuffaro Salvatore – mafioso: scuole medie e superiori al collegio salesiano "Don Bosco" di Palermo;
Gelmini Maria Stella – quella che non conosce il plurale di carcere: diplomata al liceo privato confessionale "Arici" di Brescia;
Lombardo Raffaele – frequentatore di capimafia, ma solo “per ragioni politiche”: liceo classico ai Salesiani di Catania;
Bossi Umberto – indagato per attentato alla Costituzione e associazione di carattere militare: diploma di perito tecnico elettronico presso la scuola per corrispondenza “Radio Elettra”;
Minetti Nicole – indagata per sfruttamento della prostituzione: laureata all’università privata “Vita-Salute San Raffele” di Milano;
La Russa Ignazio – picchiatore fascista, guerrafondaio: diplomato in un college (dunque, privato) della Svizzera tedesca;
Dell’Utri Marcello – mafioso: ha studiato in collegio a Palermo, prima dai Salesiani e poi dai Gesuiti;
Riina Salvatore – mafioso: analfabeta;
Mangano Vittorio – mafioso, “eroico” protettore di Berlusconi: ha fatto solo tre anni di istituto tecnico industriale;
Provenzano Bernardo – mafioso: analfabeta.
Sicuramente tutti questi sono fedeli ai valori della famiglia. Anzi, della famigghia.
domenica 27 febbraio 2011
mercoledì 23 febbraio 2011
Tomtom e push-up
Volete fare un esperimento di natura sociologico-linguistica?
Bene. Prendete una decina di persone variamente assortite, date loro un appuntamento e preparatevi a dettare l’indirizzo del luogo in cui dovranno raggiungervi. Che deve essere un largo. Se siete a Catania, largo dei Vespri, largo Paisiello, o comunque un qualunque “largo” della vostra città.
Tutte e dieci prenderanno carta e penna per scrivere l’indirizzo, ma otto su dieci (ottosudieci!), come allievi limitati ma diligenti che prendono appunti, cominceranno a compitare: “V-i-a l-a-r-g...”. “No, no! Non via: largo!” E loro ricominceranno: “V-i-a l-a-r-g...”. “No, no! Non via: largo!!” E ancora: “V-i-a l-a-r-g...”. “No, no! Non via: largo!!!” per tre o quattro volte, finché non vi deciderete a spiegare: “Non è una via: è una piazza”.
Spiazzate dalla piazza, sentirete il silenzio della loro apnea. Però non si perderanno d’animo, trovando immediatamente la soluzione: “Ah, va bene, tanto lo metto nel tom tom” (che le manderà a cagare, perché se non scrivi “largo” col cazzo che te lo trova!).
Cioè, questi conoscono il navigatore satellitare (che, ovviamente, chiamano solo con il nome commerciale), ma non sanno che nella toponomastica - oltre alle vie, ai viali, ai vicoli, alle piazze – esistono anche gli slarghi, cioè i larghi, che si chiamano così perché sono più larghi (appunto) di una strada, ma non tanto da assurgere alla dignità di piazza.
Ora, io non ne sono certa, ma ho la sensazione – e forse il fenomeno andrebbe studiato in maniera più approfondita e da chi ne capisce - che queste siano le stesse persone per le quali il videogioco si chiama nintendo anche se è made in China, i figli devono essere chiamati con i nomi dei protagonisti delle soap-operas anche a costo di essere presi per il culo fino alla fine dei loro giorni, l’auto non può che essere un Suv (Sport Utility Vehicle, cioè veicolo utilitario sportivo, la cui unica utilità sta nel farsi notare e all’interno del quale l’unica attività atletica consiste nel suonare il clacson) e il reggiseno dev’essere per forza un push-up, cioè due assorbenti notte che simulano le tette. Che poi, scusate la divagazione, ma io mi chiedo: a che cazzo serve il push-up? Mi spiego e formulo meglio la domanda: ma voi, quando scopate, lo fate completamente vestite? Voglio dire: perché indossare un reggipetto che vi fa sembrare una terza o addirittura una quarta se poi, togliendolo, la verità viene a galla? Non sarebbe meglio se i vostri uomini vi amassero o comunque avessero voglia di stare con voi per il vostro cervello e non per forma e dimensioni delle vostre tette?
Perché poi, se mai finirà quest’orribile èra dell’apparire che prevale sull’essere e dell’ignoranza coltivata ad arte dal potere per farsi seguire acriticamente da un gregge di pecore decerebrate, si scoprirà che le tette vanno verso il precipizio mentre il cervello, se si tiene in allenamento (anche soltanto consultando giornalmente il vocabolario e forse persino lo stradario, così da scoprire l’esistenza degli slarghi), non s’ammoscia nemmeno a ottant’anni.
Bene. Prendete una decina di persone variamente assortite, date loro un appuntamento e preparatevi a dettare l’indirizzo del luogo in cui dovranno raggiungervi. Che deve essere un largo. Se siete a Catania, largo dei Vespri, largo Paisiello, o comunque un qualunque “largo” della vostra città.
Tutte e dieci prenderanno carta e penna per scrivere l’indirizzo, ma otto su dieci (ottosudieci!), come allievi limitati ma diligenti che prendono appunti, cominceranno a compitare: “V-i-a l-a-r-g...”. “No, no! Non via: largo!” E loro ricominceranno: “V-i-a l-a-r-g...”. “No, no! Non via: largo!!” E ancora: “V-i-a l-a-r-g...”. “No, no! Non via: largo!!!” per tre o quattro volte, finché non vi deciderete a spiegare: “Non è una via: è una piazza”.
Spiazzate dalla piazza, sentirete il silenzio della loro apnea. Però non si perderanno d’animo, trovando immediatamente la soluzione: “Ah, va bene, tanto lo metto nel tom tom” (che le manderà a cagare, perché se non scrivi “largo” col cazzo che te lo trova!).
Cioè, questi conoscono il navigatore satellitare (che, ovviamente, chiamano solo con il nome commerciale), ma non sanno che nella toponomastica - oltre alle vie, ai viali, ai vicoli, alle piazze – esistono anche gli slarghi, cioè i larghi, che si chiamano così perché sono più larghi (appunto) di una strada, ma non tanto da assurgere alla dignità di piazza.
Ora, io non ne sono certa, ma ho la sensazione – e forse il fenomeno andrebbe studiato in maniera più approfondita e da chi ne capisce - che queste siano le stesse persone per le quali il videogioco si chiama nintendo anche se è made in China, i figli devono essere chiamati con i nomi dei protagonisti delle soap-operas anche a costo di essere presi per il culo fino alla fine dei loro giorni, l’auto non può che essere un Suv (Sport Utility Vehicle, cioè veicolo utilitario sportivo, la cui unica utilità sta nel farsi notare e all’interno del quale l’unica attività atletica consiste nel suonare il clacson) e il reggiseno dev’essere per forza un push-up, cioè due assorbenti notte che simulano le tette. Che poi, scusate la divagazione, ma io mi chiedo: a che cazzo serve il push-up? Mi spiego e formulo meglio la domanda: ma voi, quando scopate, lo fate completamente vestite? Voglio dire: perché indossare un reggipetto che vi fa sembrare una terza o addirittura una quarta se poi, togliendolo, la verità viene a galla? Non sarebbe meglio se i vostri uomini vi amassero o comunque avessero voglia di stare con voi per il vostro cervello e non per forma e dimensioni delle vostre tette?
Perché poi, se mai finirà quest’orribile èra dell’apparire che prevale sull’essere e dell’ignoranza coltivata ad arte dal potere per farsi seguire acriticamente da un gregge di pecore decerebrate, si scoprirà che le tette vanno verso il precipizio mentre il cervello, se si tiene in allenamento (anche soltanto consultando giornalmente il vocabolario e forse persino lo stradario, così da scoprire l’esistenza degli slarghi), non s’ammoscia nemmeno a ottant’anni.
venerdì 18 febbraio 2011
Il decreto millefurbizie e l'economia domestica
Io di numeri non capisco molto e ancor meno di economia. Al massimo mi fermo a quella domestica, anche se ai miei tempi il salame turco e le presine all’uncinetto si chiamavano già “applicazioni tecniche” pur continuando a vivere pudicamente lontane e separate a compartimenti stagni da cazzute e maschie applicazioni tecniche consistenti nel tagliare un pezzo di legno o sostituire l’interruttore dell’abat-jour.
Dunque, lungi dal pensare di competere con i luminari della scienza economica, ma forte dell’esperienza dei cosiddetti “conti della serva” e pensando a come debbano sentirsi gli abitanti della provincia di Messina oggi che la Sicilia orientale è di nuovo strapazzata da temporali e nubifragi tanto violenti quanto inattesi, vorrei che qualcuno mi spiegasse per quale ragione – se non per l’odio che la Lega e il governo tenuto per le palle dalla Lega nutrono nei confronti del Sud (e anche del Centro, per la verità, come vedremo dopo) – dei 200 milioni stanziati dal decreto Milleproroghe per le popolazioni alluvionate, soltanto 10 riguardano i comuni del messinese devastati dal maltempo, mentre la gran parte va in Nord Italia. Sempre e soltanto con competenze da economia domestica - di quella che sa che se in tasca ha dieci euro potrà al più comprare un paio di fettine di carne, l’insalata e la frutta, ma non può pensare di aggiungerci la cucina o lo scaldabagno nuovi – a occhio e croce ho la sensazione che quei dieci milioni siano uno schiaffo in faccia a ciascun messinese. Soprattutto se penso che una quasi loro conterranea (dal momento che veniva da Letojanni), la signorina Karima el Marhoug, sembra ne abbia chiesti cinque al vecchio maniaco per tacere sulle loro frequentazioni.
Così come – essendo io digiuna di economia “alta” - mi si dovrebbe spiegare in maniera da convincermi che non si tratta di odio leghista (e dovrebbero spiegarlo soprattutto agli abitanti de L’Aquila che ancora camminano fra le macerie di una città passata sotto i bombardamenti di un terremoto ampiamente previsto e altrettanto ampiamente e colpevolmente minimizzato fino all’ultimo) perché le popolazioni terremotate dell’Abruzzo dovrebbero essere ulteriormente penalizzate – sempre secondo le previsioni del Milleproroghe – facendo pagare loro il danno e la beffa. Perché, se non fosse chiaro, il fatto che si autorizzino le regioni colpite da calamità naturali ad aumentare le tasse per finanziare la ricostruzione, altro non vuol dire se non che saranno gli stessi cittadini – quelli che hanno perduto i figli, la casa, il lavoro – a dover pagare. Cittadini ai quali peraltro è stata promessa una proroga del pagamento delle tasse, ma questa proroga non ha copertura finanziaria e dunque non c’è. Roba da prestigiatore di quartiere, di quelli che alla fine gli tiri i pomodori.
Ovviamente il governo leghista non ha mancato di fare un favore agli allevatori (non per altro, ma perché quelli li avrebbero rincorsi con i forconi) prorogando il pagamento delle multe delle quote latte e di profondersi in una delle sue migliori performance razziste con il congelamento delle graduatorie degli insegnanti che nei fatti chiude le frontiere ai meridionali disposti a trasferirsi al Nord pur di lavorare. Sarebbe carino chiedere a Bersani se non pensa che questo sia razzismo. Magari, accecato dalla sua disperazione minoritaria, ci racconterà che i leghisti sono buoni e lo fanno per non costringere i prof del Sud a lasciare la loro terra e i loro affetti.
Poi, sempre da ignorante in materia, avrei un altro paio di cose su cui chiedere chiarimenti. Tipo: perché il Milleproroghe in Campania sospende l’abolizione delle case abusive? Forse per fare un favore alla camorra? E perché taglia tutti i soldi per lo spettacolo e aumenta di un euro il costo del biglietto del cinema? Forse perché odia tutto ciò che fa cultura e dunque abitua ad usare il cervello? Alla fine quelli che lavorano nei teatri – migliaia di persone – perderanno il lavoro e l’industria cinema (dai produttori ai gestori di sale) chiuderà perché se guadagni meno di mille euro al mese ci pensi su quattro volte prima di andare a vedere un film. E così tutti si rinchiuderanno nelle case a guardare la tv. Indovinate chi ci guadagna.
Infine (ma sono mille le furbizie del decreto millefurbizie e ci vorrebbe un mese ad esaminarle tutte), fra tutte queste sottrazioni indebite emerge una somma che le annulla tutte: il ripristino dei gettoni di presenza nei comuni con più di 250.000 abitanti, che in Italia sono circa centomila.
Ora metti Catania, che di abitanti ne ha oltre 300.000 e i consiglieri di quartiere sono circa un centinaio e – come dice un mio amico – “costano l’ira di dio e non fanno una benemerita minchia”. E magari fosse solo così: qui lo sanno anche i bambini (soprattutto quelli che sembra siano stati usati per distribuire i fac-simile di Raffaele Lombardo) che i consiglieri di quartiere in gran parte servono ad aprire patronati. E tutti sanno che i patronati sono in gran parte segreterie politiche camuffate dove i servizi che dovrebbero essere diritto di tutti diventano favori in esclusiva e dove ti trovano un lavoro a tre mesi pagato in nero (e in ritardo) con promessa/ricatto di rinnovo alla prossima consultazione elettorale: cioè sono strutture in cui è istituzionalizzato il clientelismo e sono centri di raccolta di pacchetti di voti.
Non so, facendo i conti della serva, quanto ci guadagnino gli Italiani per bene dal millefurbizie. Ma so per certo che la campagna elettorale è già cominciata.
Dunque, lungi dal pensare di competere con i luminari della scienza economica, ma forte dell’esperienza dei cosiddetti “conti della serva” e pensando a come debbano sentirsi gli abitanti della provincia di Messina oggi che la Sicilia orientale è di nuovo strapazzata da temporali e nubifragi tanto violenti quanto inattesi, vorrei che qualcuno mi spiegasse per quale ragione – se non per l’odio che la Lega e il governo tenuto per le palle dalla Lega nutrono nei confronti del Sud (e anche del Centro, per la verità, come vedremo dopo) – dei 200 milioni stanziati dal decreto Milleproroghe per le popolazioni alluvionate, soltanto 10 riguardano i comuni del messinese devastati dal maltempo, mentre la gran parte va in Nord Italia. Sempre e soltanto con competenze da economia domestica - di quella che sa che se in tasca ha dieci euro potrà al più comprare un paio di fettine di carne, l’insalata e la frutta, ma non può pensare di aggiungerci la cucina o lo scaldabagno nuovi – a occhio e croce ho la sensazione che quei dieci milioni siano uno schiaffo in faccia a ciascun messinese. Soprattutto se penso che una quasi loro conterranea (dal momento che veniva da Letojanni), la signorina Karima el Marhoug, sembra ne abbia chiesti cinque al vecchio maniaco per tacere sulle loro frequentazioni.
Così come – essendo io digiuna di economia “alta” - mi si dovrebbe spiegare in maniera da convincermi che non si tratta di odio leghista (e dovrebbero spiegarlo soprattutto agli abitanti de L’Aquila che ancora camminano fra le macerie di una città passata sotto i bombardamenti di un terremoto ampiamente previsto e altrettanto ampiamente e colpevolmente minimizzato fino all’ultimo) perché le popolazioni terremotate dell’Abruzzo dovrebbero essere ulteriormente penalizzate – sempre secondo le previsioni del Milleproroghe – facendo pagare loro il danno e la beffa. Perché, se non fosse chiaro, il fatto che si autorizzino le regioni colpite da calamità naturali ad aumentare le tasse per finanziare la ricostruzione, altro non vuol dire se non che saranno gli stessi cittadini – quelli che hanno perduto i figli, la casa, il lavoro – a dover pagare. Cittadini ai quali peraltro è stata promessa una proroga del pagamento delle tasse, ma questa proroga non ha copertura finanziaria e dunque non c’è. Roba da prestigiatore di quartiere, di quelli che alla fine gli tiri i pomodori.
Ovviamente il governo leghista non ha mancato di fare un favore agli allevatori (non per altro, ma perché quelli li avrebbero rincorsi con i forconi) prorogando il pagamento delle multe delle quote latte e di profondersi in una delle sue migliori performance razziste con il congelamento delle graduatorie degli insegnanti che nei fatti chiude le frontiere ai meridionali disposti a trasferirsi al Nord pur di lavorare. Sarebbe carino chiedere a Bersani se non pensa che questo sia razzismo. Magari, accecato dalla sua disperazione minoritaria, ci racconterà che i leghisti sono buoni e lo fanno per non costringere i prof del Sud a lasciare la loro terra e i loro affetti.
Poi, sempre da ignorante in materia, avrei un altro paio di cose su cui chiedere chiarimenti. Tipo: perché il Milleproroghe in Campania sospende l’abolizione delle case abusive? Forse per fare un favore alla camorra? E perché taglia tutti i soldi per lo spettacolo e aumenta di un euro il costo del biglietto del cinema? Forse perché odia tutto ciò che fa cultura e dunque abitua ad usare il cervello? Alla fine quelli che lavorano nei teatri – migliaia di persone – perderanno il lavoro e l’industria cinema (dai produttori ai gestori di sale) chiuderà perché se guadagni meno di mille euro al mese ci pensi su quattro volte prima di andare a vedere un film. E così tutti si rinchiuderanno nelle case a guardare la tv. Indovinate chi ci guadagna.
Infine (ma sono mille le furbizie del decreto millefurbizie e ci vorrebbe un mese ad esaminarle tutte), fra tutte queste sottrazioni indebite emerge una somma che le annulla tutte: il ripristino dei gettoni di presenza nei comuni con più di 250.000 abitanti, che in Italia sono circa centomila.
Ora metti Catania, che di abitanti ne ha oltre 300.000 e i consiglieri di quartiere sono circa un centinaio e – come dice un mio amico – “costano l’ira di dio e non fanno una benemerita minchia”. E magari fosse solo così: qui lo sanno anche i bambini (soprattutto quelli che sembra siano stati usati per distribuire i fac-simile di Raffaele Lombardo) che i consiglieri di quartiere in gran parte servono ad aprire patronati. E tutti sanno che i patronati sono in gran parte segreterie politiche camuffate dove i servizi che dovrebbero essere diritto di tutti diventano favori in esclusiva e dove ti trovano un lavoro a tre mesi pagato in nero (e in ritardo) con promessa/ricatto di rinnovo alla prossima consultazione elettorale: cioè sono strutture in cui è istituzionalizzato il clientelismo e sono centri di raccolta di pacchetti di voti.
Non so, facendo i conti della serva, quanto ci guadagnino gli Italiani per bene dal millefurbizie. Ma so per certo che la campagna elettorale è già cominciata.
Cuore e cervello
Stamattina sull’asfalto davanti a un portone è sbocciata una di quelle serenate moderne che tanto fanno indignare coloro che hanno dimenticato di avere avuto fra 15 e 20 anni (beninteso, se lo fanno su un palazzo antico io m’incazzo come una jena e ho solo voglia di prenderli a schiaffoni). Con la bomboletta, a lettere cubitali, c’era scritto: “Io non riesco a pensare a un altro mondo senza di te. Vivo sl di te”. Dove sl immagino che stia per solo (e, in questo caso, mi scatta direttamente l’istinto omicida). Ma non è questo il punto. In quella frase c’erano due cose: c’era l’amore e c’era – per quanto di sicuro inconsapevolmente – un concetto politico di altro mondo (possibile?), di un’altra organizzazione della vita.
Beh, io credo che nella vita le cose belle siano due: l’amore e il pensiero, cuore e cervello, sentimento e idee, chiamateli come volete. E so che spesso la passione politica fa battere il cuore come una travolgente storia d’amore.
Ma se hai bisogno di pagare per ottenere un surrogato della fotocopia dell’amore e se hai bisogno di pagare perché altri fingano di essere d’accordo con le tue posizioni politiche; se hai bisogno di pagare per ottenere ciò che la gran parte degli esseri umani ottiene in maniera naturale; se hai bisogno di circondarti di puttane (giovani donne, spesso minorenni, che si fanno sfruttare e ti sfruttano) e puttani (uomini vecchi dentro, senza dignità, che si fanno sfruttare e ti sfruttano); se a nessuno verrà mai in mente di gridarti, con una bomboletta spray, il suo amore (fisico o politico: mai visto su un muro lettere gocciolanti che inneggino a Berlusconi, ma sempre tante parole appassionate per Che Guevara, per esempio, e questo vorrà pur dire qualcosa); se insomma tutte queste cose, sei sicuro che valga la pena vivere?
Beh, io credo che nella vita le cose belle siano due: l’amore e il pensiero, cuore e cervello, sentimento e idee, chiamateli come volete. E so che spesso la passione politica fa battere il cuore come una travolgente storia d’amore.
Ma se hai bisogno di pagare per ottenere un surrogato della fotocopia dell’amore e se hai bisogno di pagare perché altri fingano di essere d’accordo con le tue posizioni politiche; se hai bisogno di pagare per ottenere ciò che la gran parte degli esseri umani ottiene in maniera naturale; se hai bisogno di circondarti di puttane (giovani donne, spesso minorenni, che si fanno sfruttare e ti sfruttano) e puttani (uomini vecchi dentro, senza dignità, che si fanno sfruttare e ti sfruttano); se a nessuno verrà mai in mente di gridarti, con una bomboletta spray, il suo amore (fisico o politico: mai visto su un muro lettere gocciolanti che inneggino a Berlusconi, ma sempre tante parole appassionate per Che Guevara, per esempio, e questo vorrà pur dire qualcosa); se insomma tutte queste cose, sei sicuro che valga la pena vivere?
lunedì 14 febbraio 2011
Se non ora, quando? Ora e sempre
Dicono i dizionari che un soggetto monomaniacale è affetto da monomania, cioè un’alterazione mentale in cui l’individuo è ossessionato da un’unica idea costante. Per Berlusconi bisognerà coniare un nuovo termine: bimaniacale. Perché lui di idee costanti che lo ossessionano ne ha due, sia pure di valenza opposta: la figa e i comunisti. Dove nella categoria “comunisti” lui ingloba giudici, persone che rispettano le leggi, professionisti che fanno coscienziosamente il loro lavoro, contribuenti che pagano le tasse, commercianti che non pagano il pizzo, cittadini che non vogliono convivere la mafia e perfino – che è tutto dire – quelli del Pd.
Ora, in base a questo principio, la manifestazione di ieri delle donne (di quelle che non gliela danno perché la sola idea fa schifo) – migliaia di donne e uomini in diverse città d’Italia e d’Europa, con cifre che hanno sorpreso tutti, tale e tanta è l’indignazione - ha scatenato in Berlusconi la solita giaculatoria preconfezionata e ripetuta a memoria: 1) manifestazione faziosa e di parte, orchestrata dalla sinistra, ora pro nobis; 2) tutte le donne che hanno avuto modo di conoscermi sanno in che “considerazione” (e meno male che non ha detto “punto di vista”) le tengo, ora pro nobis; 3) le tratto con grande attenzione e con grande rispetto sia “nelle mie aziende” (ma come, non ci avevano detto che il conflitto di interessi non esiste?) che “nel mio governo”, ora pro nobis; 5) le donne sono più brave a scuola, ora pro nobis; 6) sono più preparate, ora pro nobis; 7) io ho sempre cercato di fare sentire ogni donna speciale, ora pronobis…e via così disgustando. Ovviamente a non rispettare le donne è la procura di Milano, che “calpesta la dignità delle mie ospiti esponendole al pubblico ludibrio: è una grande vergogna”. Amen.
Ma se c’è una vergogna e c’è qualcuno che calpesta la dignità, la propria innanzitutto, non è certamente quel milione di donne e di uomini che ieri sono scesi in piazza a rivendicare dignità, ma anche opportunità di lavoro, diritti, democrazia; sono invece quelle donne e quegli uomini che per denaro si sono fatti suoi zerbini: Belpietro, solo per dirne uno, che stamattina aveva già predisposto il canovaccio da commedia dell’arte in cui il vecchio buffone avrebbe inserito le battute; Gelmini, per dirne una, quella che andava a fare gli esami dov’era più facile, secondo la quale in quelle manifestazioni c’erano soltanto “poche radical chic”.
Quanto alla Minetti, che per l’occasione ha aperto un blog in cui si vantava di non manifestare equiparandosi prima a una principessa (mi si perdoni la facile ironia: del pisello?) e poi a Puffetta (qualcuno le spieghi che quella dei Puffi è in nuce una sorta di società comunista), la stupidità non merita perdite di tempo, perché è come quelle malattie inguaribili che non ci puoi fare niente; mentre – dopo la manifestazione di ieri (ma da quarant’anni, in realtà) - vorrei invece chiedere ai miei colleghi giornalisti di riflettere un attimo prima di usare frasi fatte e definizioni preconfezionate. Perché io non ne posso più di sentire i giornalisti (e le giornaliste) chiamare le donne “il gentil sesso”: io non sono gentile, io sono incazzata nera (lo vedete come parlo?) con questo modello di società di merda in cui essere gentile vuol dire essere carina con il capo e sono incazzata nera con questo regime in cui si nega la libertà di pensiero. E non ne posso più di sentire i giornalisti (e le giornaliste) sentirsi poeti definendo le donne “l’altra metà del cielo”. Forse, per non fargliela usare più, qualcuno dovrebbe ricordare loro che quella frase la inventò il comunista Mao-Tse-Tung. In ogni caso, loro la riferiscono in maniera incompleta, perché – se non ricordo male – il presidente cinese affermava che le donne “reggono l’altra metà del cielo”. E comunque, se volete saperlo, che lo reggano o che lo siano, non mi sta bene nemmeno questa. Perché “l’altra” implica che prima ci sia “l’una” e dunque comunque una condizione di subalternità. Io preferirei essere una delle due metà del cielo, come pure della terra su cui poggiamo i piedi e del mondo del lavoro in cui le donne non sono ancora metà, né per numero né per riconoscimenti professionali o retribuzione. E vorrei che, d’ora in poi, una manifestazione di donne si trasformasse da “Se non ora, quando?” in “Ora e sempre”, perché qui è una guerra di liberazione quella che dobbiamo combattere senza un attimo di sosta.
Infine, Catania. “Ci vediamo là”, ci eravamo detti, convinti di avere numeri da sit-in. Invece, per fortuna, non ci siamo visti, perché eravamo in migliaia e mi piace pensare che stavamo manifestando non soltanto per la dignità delle donne (e degli uomini), non soltanto perché quest’uomo al governo del Paese e i suoi lacchè hanno trasformato l’Italia in un puttanaio, ne hanno atterrato l’economia, ne hanno incrementato la disoccupazione e la mancanza di diritti a livelli non da terzo mondo ma forse da tribù selvaggia (ammesso che i cosiddetti selvaggi non siano più civilizzati di noi): mi piace pensare che stavamo manifestando anche per restituire la dignità a Catania, ridotta a cadavere decomposto dalle amministrazioni di centrodestra che hanno distrutto il poco fatto in precedenza: niente più lavoro, niente più speranze di sviluppo industriale, nessuna attività culturale, artistica, turistica; soltanto traffico, sporcizia – sporcizia fisica e sporcizia etica -, macchine sui marciapiedi, smog, arroganza, maleducazione. Soltanto, in quella manifestazione, avrei preferito non vedere le facce di quelli - esponenti del Pd e sindacalisti in odor di campagna elettorale – colpevoli di avere svenduto la Sicilia a un governo regionale fortemente compromesso (tanto che persino la procura di Catania non ha potuto far finta di nulla) che ha rubato la dignità dei siciliani non meno di quanto abbia fatto Berlusconi con quella degli Italiani.
Ora, in base a questo principio, la manifestazione di ieri delle donne (di quelle che non gliela danno perché la sola idea fa schifo) – migliaia di donne e uomini in diverse città d’Italia e d’Europa, con cifre che hanno sorpreso tutti, tale e tanta è l’indignazione - ha scatenato in Berlusconi la solita giaculatoria preconfezionata e ripetuta a memoria: 1) manifestazione faziosa e di parte, orchestrata dalla sinistra, ora pro nobis; 2) tutte le donne che hanno avuto modo di conoscermi sanno in che “considerazione” (e meno male che non ha detto “punto di vista”) le tengo, ora pro nobis; 3) le tratto con grande attenzione e con grande rispetto sia “nelle mie aziende” (ma come, non ci avevano detto che il conflitto di interessi non esiste?) che “nel mio governo”, ora pro nobis; 5) le donne sono più brave a scuola, ora pro nobis; 6) sono più preparate, ora pro nobis; 7) io ho sempre cercato di fare sentire ogni donna speciale, ora pronobis…e via così disgustando. Ovviamente a non rispettare le donne è la procura di Milano, che “calpesta la dignità delle mie ospiti esponendole al pubblico ludibrio: è una grande vergogna”. Amen.
Ma se c’è una vergogna e c’è qualcuno che calpesta la dignità, la propria innanzitutto, non è certamente quel milione di donne e di uomini che ieri sono scesi in piazza a rivendicare dignità, ma anche opportunità di lavoro, diritti, democrazia; sono invece quelle donne e quegli uomini che per denaro si sono fatti suoi zerbini: Belpietro, solo per dirne uno, che stamattina aveva già predisposto il canovaccio da commedia dell’arte in cui il vecchio buffone avrebbe inserito le battute; Gelmini, per dirne una, quella che andava a fare gli esami dov’era più facile, secondo la quale in quelle manifestazioni c’erano soltanto “poche radical chic”.
Quanto alla Minetti, che per l’occasione ha aperto un blog in cui si vantava di non manifestare equiparandosi prima a una principessa (mi si perdoni la facile ironia: del pisello?) e poi a Puffetta (qualcuno le spieghi che quella dei Puffi è in nuce una sorta di società comunista), la stupidità non merita perdite di tempo, perché è come quelle malattie inguaribili che non ci puoi fare niente; mentre – dopo la manifestazione di ieri (ma da quarant’anni, in realtà) - vorrei invece chiedere ai miei colleghi giornalisti di riflettere un attimo prima di usare frasi fatte e definizioni preconfezionate. Perché io non ne posso più di sentire i giornalisti (e le giornaliste) chiamare le donne “il gentil sesso”: io non sono gentile, io sono incazzata nera (lo vedete come parlo?) con questo modello di società di merda in cui essere gentile vuol dire essere carina con il capo e sono incazzata nera con questo regime in cui si nega la libertà di pensiero. E non ne posso più di sentire i giornalisti (e le giornaliste) sentirsi poeti definendo le donne “l’altra metà del cielo”. Forse, per non fargliela usare più, qualcuno dovrebbe ricordare loro che quella frase la inventò il comunista Mao-Tse-Tung. In ogni caso, loro la riferiscono in maniera incompleta, perché – se non ricordo male – il presidente cinese affermava che le donne “reggono l’altra metà del cielo”. E comunque, se volete saperlo, che lo reggano o che lo siano, non mi sta bene nemmeno questa. Perché “l’altra” implica che prima ci sia “l’una” e dunque comunque una condizione di subalternità. Io preferirei essere una delle due metà del cielo, come pure della terra su cui poggiamo i piedi e del mondo del lavoro in cui le donne non sono ancora metà, né per numero né per riconoscimenti professionali o retribuzione. E vorrei che, d’ora in poi, una manifestazione di donne si trasformasse da “Se non ora, quando?” in “Ora e sempre”, perché qui è una guerra di liberazione quella che dobbiamo combattere senza un attimo di sosta.
Infine, Catania. “Ci vediamo là”, ci eravamo detti, convinti di avere numeri da sit-in. Invece, per fortuna, non ci siamo visti, perché eravamo in migliaia e mi piace pensare che stavamo manifestando non soltanto per la dignità delle donne (e degli uomini), non soltanto perché quest’uomo al governo del Paese e i suoi lacchè hanno trasformato l’Italia in un puttanaio, ne hanno atterrato l’economia, ne hanno incrementato la disoccupazione e la mancanza di diritti a livelli non da terzo mondo ma forse da tribù selvaggia (ammesso che i cosiddetti selvaggi non siano più civilizzati di noi): mi piace pensare che stavamo manifestando anche per restituire la dignità a Catania, ridotta a cadavere decomposto dalle amministrazioni di centrodestra che hanno distrutto il poco fatto in precedenza: niente più lavoro, niente più speranze di sviluppo industriale, nessuna attività culturale, artistica, turistica; soltanto traffico, sporcizia – sporcizia fisica e sporcizia etica -, macchine sui marciapiedi, smog, arroganza, maleducazione. Soltanto, in quella manifestazione, avrei preferito non vedere le facce di quelli - esponenti del Pd e sindacalisti in odor di campagna elettorale – colpevoli di avere svenduto la Sicilia a un governo regionale fortemente compromesso (tanto che persino la procura di Catania non ha potuto far finta di nulla) che ha rubato la dignità dei siciliani non meno di quanto abbia fatto Berlusconi con quella degli Italiani.
giovedì 10 febbraio 2011
Adolescenti analfabeti, come in guerra
In Sicilia 31 quindicenni (e mezzo) su cento non sanno leggere, non sanno scrivere e figurarsi se sono in grado di capire cosa c’è scritto in un giornale.
Il dato emerge da una ricerca svolta dall’Ocse-Pisa (Programme for International Student Assessment) sulle conoscenze di lettura, matematica e scienze dei ragazzini di 15 anni di 65 paesi dei cinque continenti, in base alla quale in Europa sono venti su cento i giovanissimi di quella fascia di età “privi delle capacità fondamentali di lettura e di scrittura, il che rende loro più ardua la ricerca di un lavoro e li pone a rischio di esclusione sociale”. E non va meglio nel resto d’Italia, complessivamente al 21%, con differenze significative da regione a regione (12% in Lombardia, 22 nel Lazio).
Lo chiamano “semianalfabetismo” ed è forse la sconfitta più penosa di un’intera società riuscita a vanificare la “conquista” dell’obbligo scolastico (che in Italia per la prima volta – val la pena ricordarlo -, sia pure per i soli primi tre anni della scuola elementare, fu introdotto nel 1877 e arrivato fino alla scuola media già nei primissimi anni del Novecento) sancito ancora una volta da quella Costituzione italiana (articolo 34) di cui il governo Berlusconi vorrebbe fare carta straccia.
Oltre 130 anni dopo la prima formulazione dell’obbligo scolastico, in Sicilia il 31,4% dei quindicenni (dato da capogiro se estrapoliamo i quindicenni maschi, perché sale al 43%) è semianalfabeta, anzi affetto dalla più grave delle malattie, quella che la Commissione europea chiama “analfabetismo funzionale”: fenomeno talmente allarmante, soprattutto sul piano delle possibilità occupazionali, da indurre il governo dell’Europa a istituire un’équipe di esperti incaricati di individuare le cause e trovare soluzioni.
Un paio di cause – per quanto riguarda l’Italia - potremmo già indicargliele noi, sapendo che se continua così la situazione non potrà che peggiorare.
Una si chiama Mariastella Gelmini, la ministra della res publica che taglia i fondi alla scuola pubblica per dirottare i finanziamenti verso quelle private (i diplomifici dove il titolo di studio te lo compri e non devi nemmeno fare finta di studiare); la ministra che riporta in vita qualcosa di molto simile all’avviamento professionale e dunque la cesura netta fra le scuole per i figli dei ricchi, destinati per diritto divino a diventare ricchi, e scuole per figli dei poveri, condannati a restare tali; la ministra che – non potendo, come vorrebbe, eliminare fisicamente gli insegnanti, ultimo baluardo di una scuola democratica che insegna a ragionare - elimina le compresenze e ripristina il maestro unico. Che poi alla fine li ha davvero eliminati fisicamente gli insegnanti: oltre centotrentamila a casa, tremila solo in Sicilia. E con loro ha ucciso chi ha bisogno più degli altri di essere preso per mano per attraversare la vita.
L’altra causa si chiama berlusconismo: quella cloaca in cui ti insegnano che non occorre essere bravi per diventare ministri, viceministri, parlamentari, consiglieri regionali. Se sei parlamentare, basta prostituirsi un tanto al voto per diventare ministro o viceministro (probabilmente c’è un tariffario); se non sei un bel niente, basta vendere il tuo corpo per essere eletto/a. E più sei un cesso dal punto di vista culturale, meglio è: certamente potrai sgallinare o fare il bullo impomatato nelle tv del capo e far credere ai quindicenni che la vita è quella. Una volta, nell’Italia uscita dalla guerra, c’era una scuola che cercava di ridare dignità a un popolo umiliato, c’era la certezza che è dalla cultura che viene il riscatto, c’erano gli operai che conoscevano il valore etico e sociale dell’apprendimento e non avevano paura di sobbarcarsi anni e anni di sacrifici per mandare i figli al liceo e poi all’università perché sapevano che alla fine sarebbero stati moralmente ripagati; oggi la linea la dettano le tv berlusconiane, la scuola è quella falsa dei reality, dove ti insegnano che basta poco, appena il tempo di una sveltina, per fare carriera. E forse non è un caso che questi ragazzi siano gli stessi che scrivono – e non solo negli sms – “anche” con la cappa, “po’” con l’accento e “non” senza la o: e non è credibile che lo facciano per risparmiare tempo e caratteri. E’ che gli si è ristretto il cervello.
Così presto la percentuale degli “analfabeti funzionali” salirà al 30%, al 40%, al 50%...e questi, domani, saranno i nuovi elettori del vecchio porco e le nuove leve che in Sicilia – per mancanza di lavoro, per disperazione, per ambizione di ricchezza a tutti i costi, perché i loro genitori hanno alimentato l’assenteismo scolastico, chiudendo un occhio, a volte per bisogno altre per comodo – andranno ad ingrossare le fila della mafia e del clientelismo.
Dopo, se ci sarà un dopo, bisognerà spalare le macerie e ricostruire da zero, come quando finisce una guerra. Ma purtroppo in tv non ci sarà il maestro Manzi e forse sarà già troppo tardi.
Il dato emerge da una ricerca svolta dall’Ocse-Pisa (Programme for International Student Assessment) sulle conoscenze di lettura, matematica e scienze dei ragazzini di 15 anni di 65 paesi dei cinque continenti, in base alla quale in Europa sono venti su cento i giovanissimi di quella fascia di età “privi delle capacità fondamentali di lettura e di scrittura, il che rende loro più ardua la ricerca di un lavoro e li pone a rischio di esclusione sociale”. E non va meglio nel resto d’Italia, complessivamente al 21%, con differenze significative da regione a regione (12% in Lombardia, 22 nel Lazio).
Lo chiamano “semianalfabetismo” ed è forse la sconfitta più penosa di un’intera società riuscita a vanificare la “conquista” dell’obbligo scolastico (che in Italia per la prima volta – val la pena ricordarlo -, sia pure per i soli primi tre anni della scuola elementare, fu introdotto nel 1877 e arrivato fino alla scuola media già nei primissimi anni del Novecento) sancito ancora una volta da quella Costituzione italiana (articolo 34) di cui il governo Berlusconi vorrebbe fare carta straccia.
Oltre 130 anni dopo la prima formulazione dell’obbligo scolastico, in Sicilia il 31,4% dei quindicenni (dato da capogiro se estrapoliamo i quindicenni maschi, perché sale al 43%) è semianalfabeta, anzi affetto dalla più grave delle malattie, quella che la Commissione europea chiama “analfabetismo funzionale”: fenomeno talmente allarmante, soprattutto sul piano delle possibilità occupazionali, da indurre il governo dell’Europa a istituire un’équipe di esperti incaricati di individuare le cause e trovare soluzioni.
Un paio di cause – per quanto riguarda l’Italia - potremmo già indicargliele noi, sapendo che se continua così la situazione non potrà che peggiorare.
Una si chiama Mariastella Gelmini, la ministra della res publica che taglia i fondi alla scuola pubblica per dirottare i finanziamenti verso quelle private (i diplomifici dove il titolo di studio te lo compri e non devi nemmeno fare finta di studiare); la ministra che riporta in vita qualcosa di molto simile all’avviamento professionale e dunque la cesura netta fra le scuole per i figli dei ricchi, destinati per diritto divino a diventare ricchi, e scuole per figli dei poveri, condannati a restare tali; la ministra che – non potendo, come vorrebbe, eliminare fisicamente gli insegnanti, ultimo baluardo di una scuola democratica che insegna a ragionare - elimina le compresenze e ripristina il maestro unico. Che poi alla fine li ha davvero eliminati fisicamente gli insegnanti: oltre centotrentamila a casa, tremila solo in Sicilia. E con loro ha ucciso chi ha bisogno più degli altri di essere preso per mano per attraversare la vita.
L’altra causa si chiama berlusconismo: quella cloaca in cui ti insegnano che non occorre essere bravi per diventare ministri, viceministri, parlamentari, consiglieri regionali. Se sei parlamentare, basta prostituirsi un tanto al voto per diventare ministro o viceministro (probabilmente c’è un tariffario); se non sei un bel niente, basta vendere il tuo corpo per essere eletto/a. E più sei un cesso dal punto di vista culturale, meglio è: certamente potrai sgallinare o fare il bullo impomatato nelle tv del capo e far credere ai quindicenni che la vita è quella. Una volta, nell’Italia uscita dalla guerra, c’era una scuola che cercava di ridare dignità a un popolo umiliato, c’era la certezza che è dalla cultura che viene il riscatto, c’erano gli operai che conoscevano il valore etico e sociale dell’apprendimento e non avevano paura di sobbarcarsi anni e anni di sacrifici per mandare i figli al liceo e poi all’università perché sapevano che alla fine sarebbero stati moralmente ripagati; oggi la linea la dettano le tv berlusconiane, la scuola è quella falsa dei reality, dove ti insegnano che basta poco, appena il tempo di una sveltina, per fare carriera. E forse non è un caso che questi ragazzi siano gli stessi che scrivono – e non solo negli sms – “anche” con la cappa, “po’” con l’accento e “non” senza la o: e non è credibile che lo facciano per risparmiare tempo e caratteri. E’ che gli si è ristretto il cervello.
Così presto la percentuale degli “analfabeti funzionali” salirà al 30%, al 40%, al 50%...e questi, domani, saranno i nuovi elettori del vecchio porco e le nuove leve che in Sicilia – per mancanza di lavoro, per disperazione, per ambizione di ricchezza a tutti i costi, perché i loro genitori hanno alimentato l’assenteismo scolastico, chiudendo un occhio, a volte per bisogno altre per comodo – andranno ad ingrossare le fila della mafia e del clientelismo.
Dopo, se ci sarà un dopo, bisognerà spalare le macerie e ricostruire da zero, come quando finisce una guerra. Ma purtroppo in tv non ci sarà il maestro Manzi e forse sarà già troppo tardi.
mercoledì 9 febbraio 2011
Catania, il mezzo sindaco e le ordinanze che non ordinano
Premessa: io me ne sbatto perché cammino a piedi. E peggio per quelli che prendono la macchina per fare cinquanta metri: si stressano, sfiorano l’infarto, rischiano il licenziamento perché arrivano in ritardo, inquinano, spendono soldi di benzina, vengono estorti dai posteggiatori abusivi e in più gli vengono il culo grosso e la cellulite.
Detto ciò, mi chiedo quale sia la “ratio” in base alla quale un sindaco (un sindaco part-time, in realtà, dunque un mezzo sindaco, visto che parliamo di quello di Catania: Raffaele Stancanelli), essendoci una domenica in mezzo, fra la festa della patrona dei cattolici cittadini e il lunedì di rientro al lavoro, decide di cominciare le operazioni di pulizia delle strade dalla cera - che i selvaggi hanno sparso per ogni dove - proprio nella prima giornata della settimana e nelle ore di punta, chiudendo quindi al traffico automobilistico le vie principali e proseguendo nelle ore di punta dei successivi giorni lavorativi.
Chiuse al traffico via Etnea e via Caronda per rimozione della cera, da lunedì mattina Catania è un inferno: le strade laterali sono ricoperte di strati di automobili, gli autobus sbucano dai posti più impensati facendo i percorsi più impensati, con evidenti disagi per chi li aspetta alle fermate consuete, i gas di scarico concentrati nell’aria sono talmente concentrati e “solidi” (lo so: se un gas è un gas, tutto è fuorché un solido, ma vi assicuro che è così) che li puoi toccare e ne fanno le spese anche quei pochi cittadini catanesi che hanno scelto di non inquinare e di non incrementare la confusione. Perché il sindaco à demi non ha disposto la pulizia delle strade per domenica (che, magari, qualcuno avrebbe pure evitato di scivolare durante una passeggiata in bici o a piedi) e per le ore notturne, quando la chiusura delle strade avrebbe provocato certamente meno disagi? Perché non ha avvertito in tempo e adeguatamente i cittadini catanesi? Ma, soprattutto, visto che nei giorni precedenti la festa aveva emesso un’ordinanza per vietare l’uso della cera (affrettandosi a dire, comunque, che la città non sarebbe stata militarizzata) e dei pericolosissimi barbecues arrangiati troppo artigianalmente per arrostire la salsiccia, perché già che c’era non l’ha fatta rispettare? Forse perché i suoi devotissimi concittadini che se ne fottono delle regole sono suoi elettori e proprio in quanto tali se ne fottono delle regole e proprio in quanto se ne fottono delle regole sono suoi elettori e comunque le regole vanno fatte solo per il gusto di contravvenire?
Oppure l’ordinanza l’ha fatta solo per pararsi il culo nel caso in cui qualche povero cristo ci lasciasse la pelle come è successo l’anno scorso? No, perché non so se qualcuno se ne ricorda, ma il comune di Catania – a causa dei debiti paurosi contratti dall’amministrazione Scapagnini-Lombardo e che Stancanelli non è stato in grado di sanare – da anni, come sanno tutti coloro i quali si sono rotti qualcosa finendo a piedi o in moto nelle buche delle strade catanesi, non ha i soldi per rimborsare questo genere di danni.
Dopo di che una “velina” (non nel senso berlusconiano, ma in quello mussoliniano, anche se di questi tempi le cose si confondono) ci ha spiegato che centinaia di operatori sono al lavoro già da giorni per togliere la cera ed evitare incidenti. Che, ovviamente, si sono già verificati, perché la cera è ancora lì e non sono poche le persone per le quali la via Etnea si è trasformata in una sgraditissima pista da sci con ruzzolone finale; mentre le gomme delle auto continuano a cigolare sinistramente come le porte di un castello popolato da fantasmi e ti aspetti di sentire il botto da un momento all’altro.
Intanto però ho sentito una specie di assessore, intervistato da Rai regione, rispondere in tono canzonatorio, qualcosa del genere: beh, le ordinanze si fanno….ma servono a cominciare a parlarne, per abituarsi all’idea.
In Sicilia si dice: “A squagghiata da nivi, si vidunu i purtusi”. Qui la neve – in questo caso, la cera - ancora non sono riusciti a scioglierla, ma i buchi si vedono tutti: quelli dell’incapacità di governare; di affrontare un’emergenza che tale non è visto che si ripete ogni anno; di approntare un piano per il traffico per ridare un po’ di respiro a una città soffocata da tutto (dalla disoccupazione all’inquinamento); fino a quella voragine che è l’istituzionalizzazione del senso di indulgenza verso l’illegalità. Già…le ordinanze si fanno…giusto per gradire, ma poi ci si fa una risata sopra e peggio per chi ancora nelle regole ci crede.
Detto ciò, mi chiedo quale sia la “ratio” in base alla quale un sindaco (un sindaco part-time, in realtà, dunque un mezzo sindaco, visto che parliamo di quello di Catania: Raffaele Stancanelli), essendoci una domenica in mezzo, fra la festa della patrona dei cattolici cittadini e il lunedì di rientro al lavoro, decide di cominciare le operazioni di pulizia delle strade dalla cera - che i selvaggi hanno sparso per ogni dove - proprio nella prima giornata della settimana e nelle ore di punta, chiudendo quindi al traffico automobilistico le vie principali e proseguendo nelle ore di punta dei successivi giorni lavorativi.
Chiuse al traffico via Etnea e via Caronda per rimozione della cera, da lunedì mattina Catania è un inferno: le strade laterali sono ricoperte di strati di automobili, gli autobus sbucano dai posti più impensati facendo i percorsi più impensati, con evidenti disagi per chi li aspetta alle fermate consuete, i gas di scarico concentrati nell’aria sono talmente concentrati e “solidi” (lo so: se un gas è un gas, tutto è fuorché un solido, ma vi assicuro che è così) che li puoi toccare e ne fanno le spese anche quei pochi cittadini catanesi che hanno scelto di non inquinare e di non incrementare la confusione. Perché il sindaco à demi non ha disposto la pulizia delle strade per domenica (che, magari, qualcuno avrebbe pure evitato di scivolare durante una passeggiata in bici o a piedi) e per le ore notturne, quando la chiusura delle strade avrebbe provocato certamente meno disagi? Perché non ha avvertito in tempo e adeguatamente i cittadini catanesi? Ma, soprattutto, visto che nei giorni precedenti la festa aveva emesso un’ordinanza per vietare l’uso della cera (affrettandosi a dire, comunque, che la città non sarebbe stata militarizzata) e dei pericolosissimi barbecues arrangiati troppo artigianalmente per arrostire la salsiccia, perché già che c’era non l’ha fatta rispettare? Forse perché i suoi devotissimi concittadini che se ne fottono delle regole sono suoi elettori e proprio in quanto tali se ne fottono delle regole e proprio in quanto se ne fottono delle regole sono suoi elettori e comunque le regole vanno fatte solo per il gusto di contravvenire?
Oppure l’ordinanza l’ha fatta solo per pararsi il culo nel caso in cui qualche povero cristo ci lasciasse la pelle come è successo l’anno scorso? No, perché non so se qualcuno se ne ricorda, ma il comune di Catania – a causa dei debiti paurosi contratti dall’amministrazione Scapagnini-Lombardo e che Stancanelli non è stato in grado di sanare – da anni, come sanno tutti coloro i quali si sono rotti qualcosa finendo a piedi o in moto nelle buche delle strade catanesi, non ha i soldi per rimborsare questo genere di danni.
Dopo di che una “velina” (non nel senso berlusconiano, ma in quello mussoliniano, anche se di questi tempi le cose si confondono) ci ha spiegato che centinaia di operatori sono al lavoro già da giorni per togliere la cera ed evitare incidenti. Che, ovviamente, si sono già verificati, perché la cera è ancora lì e non sono poche le persone per le quali la via Etnea si è trasformata in una sgraditissima pista da sci con ruzzolone finale; mentre le gomme delle auto continuano a cigolare sinistramente come le porte di un castello popolato da fantasmi e ti aspetti di sentire il botto da un momento all’altro.
Intanto però ho sentito una specie di assessore, intervistato da Rai regione, rispondere in tono canzonatorio, qualcosa del genere: beh, le ordinanze si fanno….ma servono a cominciare a parlarne, per abituarsi all’idea.
In Sicilia si dice: “A squagghiata da nivi, si vidunu i purtusi”. Qui la neve – in questo caso, la cera - ancora non sono riusciti a scioglierla, ma i buchi si vedono tutti: quelli dell’incapacità di governare; di affrontare un’emergenza che tale non è visto che si ripete ogni anno; di approntare un piano per il traffico per ridare un po’ di respiro a una città soffocata da tutto (dalla disoccupazione all’inquinamento); fino a quella voragine che è l’istituzionalizzazione del senso di indulgenza verso l’illegalità. Già…le ordinanze si fanno…giusto per gradire, ma poi ci si fa una risata sopra e peggio per chi ancora nelle regole ci crede.
martedì 8 febbraio 2011
Buonasera, sono l'arcivescovo
Più di una decina di anni fa, volendo già da molto tempo sbattezzarmi, mandai alla curia di Catania una lettera raccomandata in cui appunto chiedevo di essere cancellata dalla comunità cattolica (a riprova, se ce ne fosse bisogno, che non c’è niente di spirituale in tutto ciò, se puoi cassarlo con una procedura burocratica). Circa una settimana dopo, squillò il telefono: “Buonasera, sono l’arcivescovo”.
Un amico, certamente, uno dei tanti che sanno quanto il sentir parlare di gerarchie ecclesiastiche mi provochi l’orticaria: “Smettila, coglione!” No, per fortuna non lo dissi e rimasi ancora per qualche istante in apnea: quella voce non corrispondeva a nessuno dei miei amici…stavo per dirlo, sarebbero bastati pochi secondi in meno di riflessione.
In effetti era lui, il capo dei preti, ma qualunque persona di buon senso l’avrebbe mandato affanculo e non per un conflitto insanabile fra questioni teologiche e laiche: semplicemente perché non è che capiti tutti i giorni che ti telefoni uno e ti dica “sono il sindaco, sono l’arcivescovo, sono il prefetto”. E se non pensi a uno scherzo, sei tu che non sei normale.
Ora, voglio dire, va bene che io non sono Berlusconi (e meno male, altrimenti mi farei schifo da sola) e che è più facile per lui entrare in contatto con persone che contano (anche se l’unica cosa che contano è il denaro da dare alle zoccole e agli scilipoti, che poi è lo stesso), ma come cazzo puoi pensare che qualcuno creda alla balla della nipote di Mubarak? O ci hai creduto tu, e allora sei un coglione; oppure lei ha provato a fartelo credere e sei un coglione lo stesso. Perché chiunque altro (chiunque altro che non ne avesse abusato, però), le avrebbe dato cinquanta lire e l’avrebbe mandata via: ragazzina, vai a comprarti le caramelle. Oppure hai pensato che gli Italiani potessero crederci e sei per la terza volta un coglione: perché una balla così non puoi darla a bere nemmeno ai bambini. Agli zerbini sì: basta imbottirli di soldi e garantirgli un posto in Parlamento.
Un amico, certamente, uno dei tanti che sanno quanto il sentir parlare di gerarchie ecclesiastiche mi provochi l’orticaria: “Smettila, coglione!” No, per fortuna non lo dissi e rimasi ancora per qualche istante in apnea: quella voce non corrispondeva a nessuno dei miei amici…stavo per dirlo, sarebbero bastati pochi secondi in meno di riflessione.
In effetti era lui, il capo dei preti, ma qualunque persona di buon senso l’avrebbe mandato affanculo e non per un conflitto insanabile fra questioni teologiche e laiche: semplicemente perché non è che capiti tutti i giorni che ti telefoni uno e ti dica “sono il sindaco, sono l’arcivescovo, sono il prefetto”. E se non pensi a uno scherzo, sei tu che non sei normale.
Ora, voglio dire, va bene che io non sono Berlusconi (e meno male, altrimenti mi farei schifo da sola) e che è più facile per lui entrare in contatto con persone che contano (anche se l’unica cosa che contano è il denaro da dare alle zoccole e agli scilipoti, che poi è lo stesso), ma come cazzo puoi pensare che qualcuno creda alla balla della nipote di Mubarak? O ci hai creduto tu, e allora sei un coglione; oppure lei ha provato a fartelo credere e sei un coglione lo stesso. Perché chiunque altro (chiunque altro che non ne avesse abusato, però), le avrebbe dato cinquanta lire e l’avrebbe mandata via: ragazzina, vai a comprarti le caramelle. Oppure hai pensato che gli Italiani potessero crederci e sei per la terza volta un coglione: perché una balla così non puoi darla a bere nemmeno ai bambini. Agli zerbini sì: basta imbottirli di soldi e garantirgli un posto in Parlamento.
domenica 6 febbraio 2011
Grandi lettori (di dépliants), grandi elettori
Da qualche tempo frequento un luogo di lavoro i cui dipendenti, nei momenti di pausa, si dedicano alla lettura.
“Bello!”, direte voi. Bello un corno! Le letture vanno dai dépliants dei centri commerciali alle ricette di cucina, passando per “La settimana enigmistica”. Ma non “La settimana enigmistica” che abbiamo sempre conosciuto, che ti fa attivare il cervello e che impone delle regole – tante caselle, tante lettere, indispensabile che s’incrocino -, no, e nemmeno quella che, giocando in gruppo e se il gioco si faceva duro, ti faceva decidere, dopo ore di rompicapo, di concludere uno schema (ma per scherzare) con una parola del tutto inventata. No: una cosa senza regole, in cui vocali e consonanti si lanciano alla rinfusa come dadi, le doppie diventano scempie e la casella che ti avanza – perché non sai che quella parola si scrive con una consonante doppia - viene annerita nella certezza che siano loro, gli enigmisti, ad aver sbagliato. E che in ogni caso, in questo Paese ormai senza regole, persino quelle dell’enigmistica possano essere calpestate.
Altre latitudini e altre ere geologiche rispetto a quando – quasi quarant’anni fa, trovandomi all’ospedale “Rizzoli” di Bologna – notavo con piacere e ammirazione per le emiliane e con grande rammarico per le siciliane, che le infermiere lassù leggevano “La storia” di Elsa Morante mentre qui giù si dedicavano ai fotoromanzi.
Oggi che tutto è globalizzato, persino l’ignoranza, da nord a sud la lettura è il dépliant del centro commerciale (e, d’altra parte, già la dice lunga il fatto che preferiscano passare le loro domeniche rinchiusi come topi di fogna al buio dei grandi magazzini piuttosto che passeggiare al sole per le vie di un centro storico, oppure in riva al mare o in aperta campagna) e la cultura è conoscere la quantità di pixel di un televisore ultrapiatto o l’innumerevole numero di programmi della lavatrice dei tuoi sogni. Già, perché nei loro sogni c’è una lavatrice. E per averla si indebiterebbero per la vita. Un libro non lo comprano, no (e nemmeno un giornale), e ti guardano stupiti quando gli spieghi che le uniche rate fatte nella tua vita e per una vita sono state quelle di un sempiterno contratto Einaudi cominciato al liceo e mai finito.
I libri costano troppo in Italia – questo è vero -, ma non è che lavatrici e televisori te li tirino dietro. E però per questi ti indebiti fino al collo: perché nell’Italia della pubblicità finalizzata al troiume berlusconiano è sexy scegliere il programma di lavaggio o tenere in mano (metafora nemmeno troppo dissimulata) il telecazzo che serve a cambiare canale, ma il sex-appeal del cervello non è contemplato. Anzi, più sei cretina (e più sei cretino, perché questo è l’unico campo in cui gli Italiani e le Italiane sono in condizioni di parità, puttani e puttane, come dimostra in gran parte la composizione del Parlamento) è meglio è.
L’ultimo rapporto Istat sull’abitudine degli Italiani alla lettura – diffuso nel maggio 2010 e relativo all’anno precedente, è sconfortante. Innanzitutto per il parametro adottato: in base a quanto si legge nella premessa del rapporto, il termine “lettore” indica “le persone di 6 anni e più che hanno letto almeno un libro per motivi non strettamente scolastici o professionali nei 12 mesi precedenti l’intervista”. Un libro in un anno, vi rendete conto??!! Dopo di che, di questi topi di biblioteca si scopre che quelli che leggono di più (si fa per dire) - il 58% - sono i ragazzini fra gli 11 e i 17 anni. E qui, scusate, ma se anche non si tratta di motivi “strettamente scolastici” mi viene il sospetto che stiamo parlando delle letture fatte in estate e immagino consigliate dagli insegnanti (che, per fortuna, ancora esistono e resistono, anche se la Gelmini sta facendo di tutto per farli fuori). Poi c’è il precipizio: dopo i 35 anni i “lettori” (sempre di un libro l’anno!) diventano il 48,7% e il dato cala via via che si superano i 65 e poi i 75 anni, quando arriva al 22,8%. Roba che io vorrei avere più di 75 anni per avere finalmente la possibilità di leggere in santa pace senza rotture di coglioni!
Comunque sia. I dati diventano addirittura raccapriccianti quando si esaminano le differenti aree geografiche e credo non sia sbagliato pensare che qualcosa c’entrino anche le condizioni economiche in cui viene scientificamente tenuto il Mezzogiorno d’Italia, così da alimentare costantemente un bacino elettorale di sudditi: se infatti al Nord e nel Centro il numero di lettori (sempre di un libro l’anno!) raggiunge (boom!) il 52%, nel Sud e nelle isole invece si va di poco oltre, rispettivamente, il 34 e il 35%.
Quanto poi alla lettura dei quotidiani, sempre secondo l’Istat, nel 2010 “il 55,0 per cento della popolazione di almeno 6 anni ha dichiarato di leggere il giornale almeno una volta alla settimana”. E, scusate lo scetticismo, ma ho il sospetto che quella volta a settimana coincida con il lunedì. Quelli che con ottimismo vengono invece definiti “lettori assidui” – e cioè coloro che il giornale lo leggono “almeno cinque giorni su sette” – arrivano invece a malapena al 39,3%.
Tutti gli altri si drogano con immagini di lavatrici e televisori di ultima generazione. Attraverso i quali rimbambirsi di tg berlusconiani oltre che di lustrini e di corpi nudi costruiti nei laboratori dei chirurghi plastici.
Dev’essere per questo che proprio i grandi lettori (anzi, per dirla con l’Istat, “lettori assidui”) di dépliants sono anche i grandi elettori di un uomo di plastica che ha distrutto un Paese intero, la sua cultura, i sui valori, il lavoro, la democrazia, i diritti, l’economia e perfino i sentimenti veri.
“Bello!”, direte voi. Bello un corno! Le letture vanno dai dépliants dei centri commerciali alle ricette di cucina, passando per “La settimana enigmistica”. Ma non “La settimana enigmistica” che abbiamo sempre conosciuto, che ti fa attivare il cervello e che impone delle regole – tante caselle, tante lettere, indispensabile che s’incrocino -, no, e nemmeno quella che, giocando in gruppo e se il gioco si faceva duro, ti faceva decidere, dopo ore di rompicapo, di concludere uno schema (ma per scherzare) con una parola del tutto inventata. No: una cosa senza regole, in cui vocali e consonanti si lanciano alla rinfusa come dadi, le doppie diventano scempie e la casella che ti avanza – perché non sai che quella parola si scrive con una consonante doppia - viene annerita nella certezza che siano loro, gli enigmisti, ad aver sbagliato. E che in ogni caso, in questo Paese ormai senza regole, persino quelle dell’enigmistica possano essere calpestate.
Altre latitudini e altre ere geologiche rispetto a quando – quasi quarant’anni fa, trovandomi all’ospedale “Rizzoli” di Bologna – notavo con piacere e ammirazione per le emiliane e con grande rammarico per le siciliane, che le infermiere lassù leggevano “La storia” di Elsa Morante mentre qui giù si dedicavano ai fotoromanzi.
Oggi che tutto è globalizzato, persino l’ignoranza, da nord a sud la lettura è il dépliant del centro commerciale (e, d’altra parte, già la dice lunga il fatto che preferiscano passare le loro domeniche rinchiusi come topi di fogna al buio dei grandi magazzini piuttosto che passeggiare al sole per le vie di un centro storico, oppure in riva al mare o in aperta campagna) e la cultura è conoscere la quantità di pixel di un televisore ultrapiatto o l’innumerevole numero di programmi della lavatrice dei tuoi sogni. Già, perché nei loro sogni c’è una lavatrice. E per averla si indebiterebbero per la vita. Un libro non lo comprano, no (e nemmeno un giornale), e ti guardano stupiti quando gli spieghi che le uniche rate fatte nella tua vita e per una vita sono state quelle di un sempiterno contratto Einaudi cominciato al liceo e mai finito.
I libri costano troppo in Italia – questo è vero -, ma non è che lavatrici e televisori te li tirino dietro. E però per questi ti indebiti fino al collo: perché nell’Italia della pubblicità finalizzata al troiume berlusconiano è sexy scegliere il programma di lavaggio o tenere in mano (metafora nemmeno troppo dissimulata) il telecazzo che serve a cambiare canale, ma il sex-appeal del cervello non è contemplato. Anzi, più sei cretina (e più sei cretino, perché questo è l’unico campo in cui gli Italiani e le Italiane sono in condizioni di parità, puttani e puttane, come dimostra in gran parte la composizione del Parlamento) è meglio è.
L’ultimo rapporto Istat sull’abitudine degli Italiani alla lettura – diffuso nel maggio 2010 e relativo all’anno precedente, è sconfortante. Innanzitutto per il parametro adottato: in base a quanto si legge nella premessa del rapporto, il termine “lettore” indica “le persone di 6 anni e più che hanno letto almeno un libro per motivi non strettamente scolastici o professionali nei 12 mesi precedenti l’intervista”. Un libro in un anno, vi rendete conto??!! Dopo di che, di questi topi di biblioteca si scopre che quelli che leggono di più (si fa per dire) - il 58% - sono i ragazzini fra gli 11 e i 17 anni. E qui, scusate, ma se anche non si tratta di motivi “strettamente scolastici” mi viene il sospetto che stiamo parlando delle letture fatte in estate e immagino consigliate dagli insegnanti (che, per fortuna, ancora esistono e resistono, anche se la Gelmini sta facendo di tutto per farli fuori). Poi c’è il precipizio: dopo i 35 anni i “lettori” (sempre di un libro l’anno!) diventano il 48,7% e il dato cala via via che si superano i 65 e poi i 75 anni, quando arriva al 22,8%. Roba che io vorrei avere più di 75 anni per avere finalmente la possibilità di leggere in santa pace senza rotture di coglioni!
Comunque sia. I dati diventano addirittura raccapriccianti quando si esaminano le differenti aree geografiche e credo non sia sbagliato pensare che qualcosa c’entrino anche le condizioni economiche in cui viene scientificamente tenuto il Mezzogiorno d’Italia, così da alimentare costantemente un bacino elettorale di sudditi: se infatti al Nord e nel Centro il numero di lettori (sempre di un libro l’anno!) raggiunge (boom!) il 52%, nel Sud e nelle isole invece si va di poco oltre, rispettivamente, il 34 e il 35%.
Quanto poi alla lettura dei quotidiani, sempre secondo l’Istat, nel 2010 “il 55,0 per cento della popolazione di almeno 6 anni ha dichiarato di leggere il giornale almeno una volta alla settimana”. E, scusate lo scetticismo, ma ho il sospetto che quella volta a settimana coincida con il lunedì. Quelli che con ottimismo vengono invece definiti “lettori assidui” – e cioè coloro che il giornale lo leggono “almeno cinque giorni su sette” – arrivano invece a malapena al 39,3%.
Tutti gli altri si drogano con immagini di lavatrici e televisori di ultima generazione. Attraverso i quali rimbambirsi di tg berlusconiani oltre che di lustrini e di corpi nudi costruiti nei laboratori dei chirurghi plastici.
Dev’essere per questo che proprio i grandi lettori (anzi, per dirla con l’Istat, “lettori assidui”) di dépliants sono anche i grandi elettori di un uomo di plastica che ha distrutto un Paese intero, la sua cultura, i sui valori, il lavoro, la democrazia, i diritti, l’economia e perfino i sentimenti veri.
giovedì 3 febbraio 2011
Zona industriale di Catania: stupro premeditato
Ieri mattina Salvo, il ragazzo dell’autolavaggio sotto casa, era a quattro piedi che cercava di liberare un tombino da anni di incuria e mancata manutenzione. Da qualche giorno lì le officine non possono lavorare: aprono e, dopo un po’, sono costrette a richiudere perché ci sono le rapide che sembra di stare nel Grand Canyon.
Pochi metri più in là, in una traversa, la strada è diventata un groviera con buche profonde che se ci caschi dentro spacchi la macchina. E non puoi evitarle, perché in quella stradina un’auto ci passa appena.
In tutta la città, se cammini a piedi devi stare in mezzo alla carreggiata, perché il marciapiede è irraggiungibile, sommerso da secchiate di acqua. Ed è un tripudio di tombini che saltano, sanpietrini divelti, voragini aperte nei marciapiedi.
Questa è Catania quando piove, città da terzo mondo, macerie su macerie come fosse appena passata sotto i bombardamenti o uscita da un terremoto con condimento di Protezione civile a guida Guido, il grande condottiero della ripassata, il viceduce Bertolaso; questa è Catania grazie a un decennio di amministrazione comunale di destra che ha sputtanato i soldi in tutti i modi, tranne che per rendere vivibile la città.
E poi c’è la zona industriale: già invivibile normalmente, a causa di strade dissestate e buie e di episodi di criminalità (l’ultimo, gravissimo, qualche mese fa è costato la vita a un autotrasportatore di 35 anni, ucciso per non farsi rubare l’automezzo), quando piove è un film dell’orrore. Prima ci devi arrivare, perché le strade dissestate della Playa sono laghi ed è facile che il tuo cammino si arresti lì; e quando ci sei i laghi sono mari: la macchina ci si immerge a metà e se ne esci devi accendere un cero alla madonna o a qualunque altra cosa ti possa fare un miracolo. Lari, penati, una treccia d’aglio, lo spirito del nonno, qualunque cosa.
Nella zona industriale di Catania lavorano tante donne: operaie, impiegate, e pure qualche dirigente. Mi capita spesso, quando ci vado, di vederle uscire, da sole a bordo delle loro utilitarie e scrutare come dal periscopio di un sottomarino per trovare il punto meno profondo in cui immergersi. E non posso fare a meno di pensare a cosa potrebbe accadere se le loro auto – che non sono certo dei Suv – dovessero spegnersi irrimediabilmente dopo avere preso la pioggia da tutti i lati. Capita che il cellulare si scarichi proprio nel momento in cui serve e puoi restare lì finché c’è buio, finché qualcuno non viene a cercarti o finché ti trova proprio l’unico da cui non vorresti essere trovata.
E allora vorrei chiedere al mezzo sindaco di Catania, alla Protezione civile, al Prefetto, a tutti quelli che dovrebbero garantire l’incolumità dei cittadini, se vengono mai sfiorati dal dubbio di avere una qualche responsabilità. Vorrei chiedergli se si rendono conto che si può morire travolti dalla pioggia impazzita o essere violentate in un luogo buio e deserto. E se succede, che fanno? Poi li accusano solo di omicidio colposo? No, da una situazione così colpevolmente incancrenita e strafottente non si può uscire con la “colpa” nel senso giuridico del termine, cioè semplice negligenza (comunque grave in chi ha responsabilità di governo), perché questo sarebbe un omicidio (o uno stupro) premeditato.
Il 13 febbraio in tutte le città d’Italia le donne saranno in piazza per rivendicare la loro dignità - calpestata da un presidente del consiglio secondo il quale le donne sono tutte puttane, comprese sua madre e sua sorella -: donne (come si legge nell’appello alla mobilitazione) “che lavorano, creano ricchezza, studiano o sono in cerca di un lavoro, si sacrificano prendendosi cura di figli, mariti, genitori anziani” e che non ne possono più di “un modello di relazione tra donne e uomini, ostentato da una delle massime cariche dello Stato, che incide profondamente negli stili di vita e nella cultura nazionale, legittimando comportamenti lesivi della dignità delle donne e delle istituzioni”.
Ecco, mi piacerebbe che a Catania, insieme alle altre e ben visibili, scendessero in piazza anche le donne che lavorano nelle fabbriche della zona industriale, per rivendicare non solo la loro dignità ma anche la dignità delle condizioni di lavoro e la loro sicurezza e incolumità fisica. Per dire che la misura è colma. Per dirlo ai Marchionne che vorrebbero impedire a operai ed operaie persino di fare la pipì; ai Berlusconi che negano il lavoro e milioni di giovani donne e giovani uomini qualificati; agli Stancanelli e a tutti i mezzi sindaci che riducono le città a luoghi dove soltanto i criminali hanno diritto di cittadinanza.
Pochi metri più in là, in una traversa, la strada è diventata un groviera con buche profonde che se ci caschi dentro spacchi la macchina. E non puoi evitarle, perché in quella stradina un’auto ci passa appena.
In tutta la città, se cammini a piedi devi stare in mezzo alla carreggiata, perché il marciapiede è irraggiungibile, sommerso da secchiate di acqua. Ed è un tripudio di tombini che saltano, sanpietrini divelti, voragini aperte nei marciapiedi.
Questa è Catania quando piove, città da terzo mondo, macerie su macerie come fosse appena passata sotto i bombardamenti o uscita da un terremoto con condimento di Protezione civile a guida Guido, il grande condottiero della ripassata, il viceduce Bertolaso; questa è Catania grazie a un decennio di amministrazione comunale di destra che ha sputtanato i soldi in tutti i modi, tranne che per rendere vivibile la città.
E poi c’è la zona industriale: già invivibile normalmente, a causa di strade dissestate e buie e di episodi di criminalità (l’ultimo, gravissimo, qualche mese fa è costato la vita a un autotrasportatore di 35 anni, ucciso per non farsi rubare l’automezzo), quando piove è un film dell’orrore. Prima ci devi arrivare, perché le strade dissestate della Playa sono laghi ed è facile che il tuo cammino si arresti lì; e quando ci sei i laghi sono mari: la macchina ci si immerge a metà e se ne esci devi accendere un cero alla madonna o a qualunque altra cosa ti possa fare un miracolo. Lari, penati, una treccia d’aglio, lo spirito del nonno, qualunque cosa.
Nella zona industriale di Catania lavorano tante donne: operaie, impiegate, e pure qualche dirigente. Mi capita spesso, quando ci vado, di vederle uscire, da sole a bordo delle loro utilitarie e scrutare come dal periscopio di un sottomarino per trovare il punto meno profondo in cui immergersi. E non posso fare a meno di pensare a cosa potrebbe accadere se le loro auto – che non sono certo dei Suv – dovessero spegnersi irrimediabilmente dopo avere preso la pioggia da tutti i lati. Capita che il cellulare si scarichi proprio nel momento in cui serve e puoi restare lì finché c’è buio, finché qualcuno non viene a cercarti o finché ti trova proprio l’unico da cui non vorresti essere trovata.
E allora vorrei chiedere al mezzo sindaco di Catania, alla Protezione civile, al Prefetto, a tutti quelli che dovrebbero garantire l’incolumità dei cittadini, se vengono mai sfiorati dal dubbio di avere una qualche responsabilità. Vorrei chiedergli se si rendono conto che si può morire travolti dalla pioggia impazzita o essere violentate in un luogo buio e deserto. E se succede, che fanno? Poi li accusano solo di omicidio colposo? No, da una situazione così colpevolmente incancrenita e strafottente non si può uscire con la “colpa” nel senso giuridico del termine, cioè semplice negligenza (comunque grave in chi ha responsabilità di governo), perché questo sarebbe un omicidio (o uno stupro) premeditato.
Il 13 febbraio in tutte le città d’Italia le donne saranno in piazza per rivendicare la loro dignità - calpestata da un presidente del consiglio secondo il quale le donne sono tutte puttane, comprese sua madre e sua sorella -: donne (come si legge nell’appello alla mobilitazione) “che lavorano, creano ricchezza, studiano o sono in cerca di un lavoro, si sacrificano prendendosi cura di figli, mariti, genitori anziani” e che non ne possono più di “un modello di relazione tra donne e uomini, ostentato da una delle massime cariche dello Stato, che incide profondamente negli stili di vita e nella cultura nazionale, legittimando comportamenti lesivi della dignità delle donne e delle istituzioni”.
Ecco, mi piacerebbe che a Catania, insieme alle altre e ben visibili, scendessero in piazza anche le donne che lavorano nelle fabbriche della zona industriale, per rivendicare non solo la loro dignità ma anche la dignità delle condizioni di lavoro e la loro sicurezza e incolumità fisica. Per dire che la misura è colma. Per dirlo ai Marchionne che vorrebbero impedire a operai ed operaie persino di fare la pipì; ai Berlusconi che negano il lavoro e milioni di giovani donne e giovani uomini qualificati; agli Stancanelli e a tutti i mezzi sindaci che riducono le città a luoghi dove soltanto i criminali hanno diritto di cittadinanza.
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