Sarà per una decennale pratica
con l’ombrello di Altan, sarà perché – come sostengono di me in famiglia – sono
nata storta, ma io sono dietrologa. E quindi non m’illudo. Non m’illudo che la
Rai, da cui Renzi voleva cacciar fuori tutti i partiti tranne il proprio,
quello che sta facendo lo faccia per spirito di servizio. Parlerei piuttosto di
spirito di servizietto.
Insomma, Renzi si è alzato dalla
sedia da perdente, ci ha lasciato sopra un cappello di nome Gentiloni e vuole
tornare a sedersi da vincente. Ma per vincere avrebbe dovuto fare cose buone e
non le ha fatte. L’unica che può utilizzare (e infatti la utilizza a proposito
e a sproposito) è la legge sulle unioni civili. Che è solo un contentino, ma rispetto
al nulla precedente è come quando nel deserto in mancanza dell’acqua bevi pipì:
ti pare champagne.
Come quello che viene stappato
nelle feste di matrimonio nella bella trasmissione di Rai3 che ogni sera
racconta le storie di coppie omosessuali che finalmente hanno il loro
riconoscimento legale: con tanto di sindaco o delegato dal sindaco, fascia
tricolore, testimoni, fedi, parenti, parrucchiere, fiori, confetti, vestito
buono. Bella, sì, la trasmissione «Stato civile. L’amore è uguale per tutti». È
lecito pensare che qualcuno della dirigenza Rai forse avrebbe voluto farne uno
spot elettorale, ma gli è venuto male. E invece – qualunque cosa ne pensino
baciapile e omofobi che stanno scaricando sui social tutta la loro frustrazione
- gli è venuta bene la cronaca o, meglio, il “docureality”, che ricostruisce in
maniera seria, senza fronzoli o stucchevolezze e senza trattarli come fenomeni
da baraccone, le vite reali di queste coppie: giovani e vecchi (commoventi gli
ultrasettantenni, innamorati ed emozionati come bambini), raffinati e tamarri,
colti e ignoranti, politicizzati e qualunquisti, perché nella vita reale si
innamorano tutti.
Fra di loro c’è qualcuno che è
stato male, molto male, e che in ospedale non ha potuto avere vicina l’unica
persona che avrebbe voluto, considerata da una società ipocrita come un signor
o una signora nessuno e invece era quella o quello con cui per decenni, tutti i
giorni, tutti i minuti, aveva riso e pianto, litigato e fatto pace, condiviso
le preoccupazioni per le bollette da pagare, la disperazione per un
licenziamento o la gioia per un successo sul lavoro. Per loro quella cerimonia
nuziale che conclude la trasmissione è il riconoscimento di tutti quei decenni,
di tutti quei giorni, di tutti quei pianti, risate, preoccupazioni,
soddisfazioni. E di tutti quei parenti. Parenti e amici.
È su questi ultimi che mi sono
soffermata guardando ogni puntata. Ero curiosa di vedere le loro reazioni. Ho scrutato
le loro facce pensando: forse qualcuno fa buon viso a cattivo gioco; forse
qualcuno «non era di buon umore», come in Virginia il signor Brown. Invece
erano tutti felici, persino la nonna e persino il padre burbero e
tradizionalista. Forse dipende dal fatto che quelli più ostili non ci sono
nemmeno andati, per marcare la distanza, per non rischiare di essere “contagiati”
da quella che ritengono una malattia o per paura di provare un’emozione. Peggio
per loro: non sanno che si sono persi.
Perché, al netto degli
sciacallaggi e dei raggiri elettorali renziani, le emozioni sono il nostro
certificato di esistenza in vita.