“Lui è presissimo da quella, è una montenegrina… E’ una scappata di casa, io l’ho vista è una zingara, cioè hai presente una zingara?”
“Eh, appunto, è il suo tipo no? Non è il suo tipo?”
“Sì, sì, ma infatti, più è disperata meglio è, per lui”.
Fra i tanti dialoghi e le parole da voltastomaco sentiti nelle ultime settimane, che hanno messo a dura prova la mia abitudine alla lettura dei quotidiani, forse questo fra Nicole Minetti e la sua assistente, tale Clotilde, con il racconto dell’ultimo “innamoramento” del vecchio maniaco sessuale, è quello più raccapricciante. Con lo stesso cinismo della criminalità organizzata e come i trafficanti di esseri umani, che vanno nei paesi dell’est a prendere giovani donne e addirittura bambini, li attirano con il miraggio di un posto di lavoro e invece li mettono a battere il marciapiede – quando non li costringono a vendere i loro organi, anche a costo di ucciderli -, Berlusconi – secondo una delle tante intercettazioni che riportano le conversazioni dell’ex igienista dentale promossa a consigliera regionale - le cerca disperate: “più è disperata meglio è, per lui”.
Ma che schifo di uomo è uno così? Sembra una fiction, uno dei tanti polizieschi che vediamo in tv – montenegrina, scappata, disperata -, ma sembra che sia tutto vero: lui è su quello che fa leva, su quella disperazione che va ben oltre il limite della “normale” disperazione immaginabile; su quella disperazione che, nei casi di tratta degli schiavi, ti costringe a credere che uno voglia portarti con sé per darti un lavoro e ti precipita invece in un girone dantesco di torture fisiche e morali, minacce di morte alla tua famiglia, obbligo di vendere il tuo corpo o una parte di esso. E dopo, quando tutto è finito (e chissà quante di queste ragazze vittime dei trafficanti desiderano che tutto finisca in maniera definitiva, con la morte, pur di non avere nemmeno il ricordo di quello che hanno subìto), sei uno straccio per i pavimenti liso e sporco da chiudere in uno sgabuzzino o nel secchio della spazzatura. E avanti il prossimo. Anzi, in questo caso, la prossima, più nuova (magari ancora più giovane) e profumata. Per garantire al “trafficante”, stavolta, non soldi (non ne ha bisogno), ma un’illusione di gioventù che comunque non potrà comprare nemmeno con tutto il denaro del mondo.
Ecco, altro che “semplice” sfruttamento della prostituzione: forse, alla luce delle dichiarazioni della maîtresse che gli procurava quella che qualcuno ha definito “carne fresca”, da mandare al macello di Arcore, Berlusconi andrebbe indagato per tratta di esseri umani: a occhio e croce, dieci anni di reclusione e confisca dei beni, in base alla legislazione europea.
E c’è appena da ricordare la posizione assunta da Berlusconi – a cui le “zingare” evidentemente piacciono solo per scoparsele – di fronte agli orribili rimpatri di rom decisi in Francia da Sarkozy: unico, in tutta Europa, a schierarsi dalla parte del presidente francese.
lunedì 31 gennaio 2011
sabato 29 gennaio 2011
Il futuro è l'età della pietra
Più di tante parole (passionali e appassionate, comunque, quelle di Giovanna Marano, segretario regionale della Fiom, la cui forza ha persino avuto ragione su una fastidiosa, doncamillesca campana, che non la finiva più di suonare e risuonare le 12), il 28 gennaio alla manifestazione di Termini Imerese dei metalmeccanici della Cgil, il senso di come nel futuro dei giovani italiani, oltre che dei lavoratori della Fiat e di tutti gli altri lavoratori, ci sia l’età della pietra, lo ha dato – sinteticamente e plasticamente – un ragazzo incastonato come un diamante grezzo dentro la macchina dei Flintstones. C’era tutto dentro quella rappresentazione muta: una macchina (una fabbrica, la Fiat) che va a piedi, la mancanza di prospettive, la cancellazione di secoli di battaglie e di diritti grazie a Marchionne, a Berlusconi, alla Marcegaglia, ai sindacati gialli, a un’opposizione rosa e all’acqua di rose.
Ce n’erano tantissimi di giovani alla manifestazione di Termini Imerese, sotto le bandiere rosse – le bandiere rosse dei comunisti e le bandiere rosse della Fiom -: ragazzi allegri, divertenti, dalle facce pulite come si dev’essere a quell’età, ma consapevoli e con nessuna intenzione di rassegnarsi a un futuro senza futuro, cioè ad essere vecchi. Come vecchie sono, invece – per cinismo e durezza di sentimenti -, quelle loro coetanee che hanno venduto il corpo e il cervello a un maniaco sessuale pieno di soldi cancellando millenni di battaglie per l’emancipazione e riavvolgendo il nastro a “quando le donne avevano la coda”; come vecchi decrepiti sono quei giovani che – per gestire piccole porzioni di potere – hanno venduto le idee a un partito che in Sicilia governa con la mafia e a Torino tifa per Marchionne. Non c’erano loro alla manifestazione in difesa dei diritti e della dignità. Non c’erano, ma non ne abbiamo sentito la mancanza.
domenica 23 gennaio 2011
Qualunquemente, neorealismo soft
Io non lo so se era vero quel pianto. Ricordate? Antonio Albanese a “Che tempo che fa”, primavera 2008: ha appena smesso di impersonare Cetto Laqualunque, annuncia la vittoria di Berlusconi e di quelli come Cetto, si toglie la parrucca, ridiventa Antonio e piange. Hanno vinto loro e tutto quello che ho fatto non è servito a niente. Non lo so se quel pianto era vero o faceva parte del copione, so che rimasi sbigottita e so che quel pianto – sotto forma di risata e di esorcismo – è tornato nel film di Albanese, “Qualunquemente”, nelle sale cinematografiche in questi giorni.
Cemento e “pilu”, corruzione, criminalità organizzata, evasione fiscale, abusivismo edilizio, illegalità diffusa, arroganza, denaro e volgarità a profusione, donne talmente oggetto da essere chiamate “Cosa”: c’è tutto questo nel piccolo politico di provincia descritto da Albanese, un piccolo politico di provincia che somiglia maledettamente al piccolo politico al governo del Paese e a tutti i suoi zerbini.
Non ho riso molto e non ho sentito molte risate in sala: forse perché c’erano molte battute già note a chi segue abitualmente Albanese da Fazio, molto più probabilmente perché è inevitabile rapportare tutto alla realtà ed è inevitabile che ti venga da piangere. A me è venuto da piangere al pensiero di questa comicità che dovrebbe essere hard, grottesca, esagerata, caricaturale e invece risulta una copia sbiadita della realtà italiana di oggi. Se dovessi inquadrarlo in una corrente cinematografica, parlerei di neorealismo. Soft. Molto soft. E non abbiamo nemmeno l'alibi di essere appena usciti dalla guerra.
Ma la cosa più raccapricciante è che il logo del partito di Cetto, il PdP, il Partito du Pilu, somiglia in maniera “sietetuttiugualemente” terrificante – nei colori e nella grafica - non a quello di Forza Italia o del Pdl o di qualunque altra cosa faccia riferimento a Berlusconi, ma (non so quanto inconsapevolmente) a quello del cosiddetto partito di opposizione. E non si tratta necessariamente di (la)qualunquismo, ma forse della consapevole disperazione in cui ci ha gettati la situazione del nostro Paese.
Cemento e “pilu”, corruzione, criminalità organizzata, evasione fiscale, abusivismo edilizio, illegalità diffusa, arroganza, denaro e volgarità a profusione, donne talmente oggetto da essere chiamate “Cosa”: c’è tutto questo nel piccolo politico di provincia descritto da Albanese, un piccolo politico di provincia che somiglia maledettamente al piccolo politico al governo del Paese e a tutti i suoi zerbini.
Non ho riso molto e non ho sentito molte risate in sala: forse perché c’erano molte battute già note a chi segue abitualmente Albanese da Fazio, molto più probabilmente perché è inevitabile rapportare tutto alla realtà ed è inevitabile che ti venga da piangere. A me è venuto da piangere al pensiero di questa comicità che dovrebbe essere hard, grottesca, esagerata, caricaturale e invece risulta una copia sbiadita della realtà italiana di oggi. Se dovessi inquadrarlo in una corrente cinematografica, parlerei di neorealismo. Soft. Molto soft. E non abbiamo nemmeno l'alibi di essere appena usciti dalla guerra.
Ma la cosa più raccapricciante è che il logo del partito di Cetto, il PdP, il Partito du Pilu, somiglia in maniera “sietetuttiugualemente” terrificante – nei colori e nella grafica - non a quello di Forza Italia o del Pdl o di qualunque altra cosa faccia riferimento a Berlusconi, ma (non so quanto inconsapevolmente) a quello del cosiddetto partito di opposizione. E non si tratta necessariamente di (la)qualunquismo, ma forse della consapevole disperazione in cui ci ha gettati la situazione del nostro Paese.
mercoledì 19 gennaio 2011
Sanità in Sicilia: appalti senza gara, raccomandazioni e...scecchi. Ma siate pazienti.
Sul sito dell’Azienda sanitaria provinciale di Catania, lo scorso 8 novembre, c’era una nota del direttore generale, Giuseppe Calaciura - segretario dell’Mpa di Biancavilla e artefice dell’appalto per l’informatizzazione dell’ospedale di Giarre che sarebbe stato assegnato senza gara ad una società del marito della capogruppo del Pd al Senato, Anna Finocchiaro, grande sostenitrice del governo Lombardo -, che affermava trionfalmente: “oggi, con la messa in rete dei database, la sanità etnea fa un grande passo in avanti” e spiegava che proprio da quel giorno, componendo un numero telefonico unico, sarebbe stato possibile prenotare “alcune prestazioni ‘critiche’”, erogate dall’Asp Catania e dalle Aziende Ospedaliere Garibaldi, Vittorio Emanuele-Policlinico e Cannizzaro. Nella stessa nota quelle prestazioni venivano specificate: Tac, Risonanza magnetica, Mammografia, Ecografia, Ecocolordopplergrafia, Elettromiografia. Questo, secondo Calaciura, avrebbe ridotto “sensibilmente” le liste d’attesa.
Ebbene, a fine dicembre il mio medico mi ha prescritto una risonanza magnetica e io proprio a quel numero ho telefonato sentendomi rispondere che a Catania quel tipo di accertamento non si prenota. Confesso che, dopo quei proclami, la cosa mi ha spiazzata e sono rimasta interdetta, incapace di reagire. Ho ringraziato e riattaccato, dicendo a me stessa che forse non si prenotava per un problema ai terminali. Può capitare. Così, qualche giorno dopo ho richiamato, ho spiegato alla centralinista che avevo già telefonato qualche giorno prima e che non avevo capito se non si prenotasse quel giorno per qualche motivo particolare o che altro. Mi ha risposto che no, proprio non si prenotava, perché “mi pare che non ci sono i macchinari”.
Non so come dire, ma ho avuto come la vaga, impercettibile sensazione che quella nota del direttore generale fosse una presa per il culo. Comunque sia, a quel punto ho preso dalle pagine gialle i numeri dei radiologi convenzionati e ho cominciato una serie infinita di telefonate. Risultato: mi rispondevano, alcuni ridendo (ma che cazzo avete da ridere?), che mi avrebbero potuto prenotare per luglio. “A pagamento”, invece, “lo possiamo fare anche la settimana prossima”. E te pareva. Come se poi comunque loro non lo facessero comunque a pagamento, dal momento che i soldi glieli dà il Servizio sanitario nazionale. Comunque, siccome sono di coccio, ho voluto verificare la situazione nelle altre province, almeno quelle della Sicilia orientale e quindi per me più facilmente raggiungibili. Dunque: a Siracusa non la fanno, ma l’operatrice telefonica ti dà i nomi di due strutture private; a Ragusa ti spiegano che per ora non hanno disponibilità e anzi loro molte persone le mandano a Catania; a Enna non si fa, ma ti possono dare i numeri di telefono di privati in convenzione che lo fanno, da Catenanuova (che è in provincia) a Cefalù e Bagheria (che decisamente non lo sono). Al numero unico delle prenotazioni della Asp di Messina, però, si accende una luce: la centralinista dice che, sì, c’è un posto dove si fa ed è l’ospedale di Milazzo. Però se ne parla a gennaio del 2012! La vaga sensazione di essere presa per il culo ormai è una certezza. Ma, dico, stiamo scherzando? Io forse il mio dolore di vecchiaia alla spalla posso pure tenermelo, anche se da mesi non ci dormo la notte e questo decisamente incide sulla mia qualità della vita (che già fa cagare a prescindere), ma se qualcuno avesse davvero una cosa grave, poi, a Milazzo, nel 2012, ci portano le sue ceneri?
E poi la coppia di imbonitori Russo-Lombardo continua a venderci per riforma una patacca fatta solo di tagli sulla pelle dei siciliani.
Gli ospedali chiudono - con grave disagio per i malati costretti a viaggi della disperazione da un capo all’altro della Sicilia - e in quelli ancora aperti si muore a un ritmo impressionante oppure capita che siano governati da un criminale nazista che, come nei campi di sterminio, usa i pazienti come cavie, asportando loro organi sani solo per compiere il proprio esperimento di arricchimento personale. E poi l’assessore/magistrato ha pure il coraggio – mettendo in moto un calembour che non fa ridere affatto – di chiedere ai pazienti di avere pazienza. Ma certo! Come no? Un paio di mesi fa la Commissione parlamentare sugli errori sanitari, di cui è presidente Leoluca Orlando, ha diffuso i dati di un’inchiesta condotta fra aprile 2009 e settembre 2010 (quindi Lombardo e Russo non possono dire che non c’erano) negli ospedali di tutta Italia dalla quale è emerso come, dei 163 morti per malasanità complessivi, 38 fossero siciliani (vuol dire una media di due morti e mezzo al mese). Spesso colpa dei medici (e sarebbe interessante sapere per chi votano e dunque in base a quali criteri sono stati assunti), ma in generale – secondo Orlando – “Le responsabilità vanno addebitate anche alle strutture, ai manager e a chi li nomina, ossia i politici”.
Sistema ben radicato e oleato in Sicilia, a cui certamente poi non è estranea la pratica della “raccomandazione” persino per farsi fare una visita magari non indispensabile a discapito dei tempi di chi invece ha bisogno di farsi vedere urgentemente. Anzi, l’esperienza diretta – e sotto gli occhi di tutti – fa notare come, prima ancora di informarsi sulle strutture, chi decide di sottoporsi a una visita o un accertamento cerchi innanzitutto di individuare l’amico a cui rivolgersi, foss’anche l’ultimo dei portantini. Pratica delle raccomandazioni presa in esame anche dai parlamentari, con riferimento alle carriere dei medici e individuata come una delle cause di malasanità insieme alle carenze strutturali e alla mancanza di posti letto. E un sospetto che non fossero veri medici, ma beoni scazzottanti da osteria, dev’essere venuto pure ai componenti della Commissione quando si sono trovati ad affrontare ben due casi di risse in sala parto a Messina, a pochi giorni di distanza l’una dall’altra - una al Policlinico e l’altra al Papardo -, di cui hanno fatto le spese due neonati.
E però in questa Sicilia dei Cuffaro prima e dei Lombardo poi, della quantità impressionante di strutture convenzionate che supera quella complessiva di tutta Italia, delle cliniche all’avanguardia proprietà dei boss mafiosi, degli ospedali dove entri sano ed esci malato - o, se sei un nascituro, la tua vita non ha più un futuro, ma già soltanto un passato -, in base alla sperimentazione voluta dal cosiddetto ministro per l’Innovazione, Renato Brunetta, per valutare la bravura del personale sanitario e condotta in 22 aziende isolane, l’86% dei dipendenti sarebbe molto qualificato e meriterebbe una gratifica.
E, a quanto pare, non sarebbe rilevante il fatto che a fare il controllo di qualità sui medici degli ospedali siciliani siano gli stessi diretti interessati che se la cantano e se la suonano. Solo per fare due esempi, fra questi giudici imparziali ci sarebbe una struttura che organizza corsi di formazione riconosciuti dal ministero della Salute e addirittura l’associazione a cui fanno capo direttori di ospedali e aziende sanitarie. Come si dice dalle mie parti, “u sceccu porta a pagghia e u sceccu s’a mangia”. Con tutto il rispetto per gli asini. Nel senso dei quadrupedi.
Ebbene, a fine dicembre il mio medico mi ha prescritto una risonanza magnetica e io proprio a quel numero ho telefonato sentendomi rispondere che a Catania quel tipo di accertamento non si prenota. Confesso che, dopo quei proclami, la cosa mi ha spiazzata e sono rimasta interdetta, incapace di reagire. Ho ringraziato e riattaccato, dicendo a me stessa che forse non si prenotava per un problema ai terminali. Può capitare. Così, qualche giorno dopo ho richiamato, ho spiegato alla centralinista che avevo già telefonato qualche giorno prima e che non avevo capito se non si prenotasse quel giorno per qualche motivo particolare o che altro. Mi ha risposto che no, proprio non si prenotava, perché “mi pare che non ci sono i macchinari”.
Non so come dire, ma ho avuto come la vaga, impercettibile sensazione che quella nota del direttore generale fosse una presa per il culo. Comunque sia, a quel punto ho preso dalle pagine gialle i numeri dei radiologi convenzionati e ho cominciato una serie infinita di telefonate. Risultato: mi rispondevano, alcuni ridendo (ma che cazzo avete da ridere?), che mi avrebbero potuto prenotare per luglio. “A pagamento”, invece, “lo possiamo fare anche la settimana prossima”. E te pareva. Come se poi comunque loro non lo facessero comunque a pagamento, dal momento che i soldi glieli dà il Servizio sanitario nazionale. Comunque, siccome sono di coccio, ho voluto verificare la situazione nelle altre province, almeno quelle della Sicilia orientale e quindi per me più facilmente raggiungibili. Dunque: a Siracusa non la fanno, ma l’operatrice telefonica ti dà i nomi di due strutture private; a Ragusa ti spiegano che per ora non hanno disponibilità e anzi loro molte persone le mandano a Catania; a Enna non si fa, ma ti possono dare i numeri di telefono di privati in convenzione che lo fanno, da Catenanuova (che è in provincia) a Cefalù e Bagheria (che decisamente non lo sono). Al numero unico delle prenotazioni della Asp di Messina, però, si accende una luce: la centralinista dice che, sì, c’è un posto dove si fa ed è l’ospedale di Milazzo. Però se ne parla a gennaio del 2012! La vaga sensazione di essere presa per il culo ormai è una certezza. Ma, dico, stiamo scherzando? Io forse il mio dolore di vecchiaia alla spalla posso pure tenermelo, anche se da mesi non ci dormo la notte e questo decisamente incide sulla mia qualità della vita (che già fa cagare a prescindere), ma se qualcuno avesse davvero una cosa grave, poi, a Milazzo, nel 2012, ci portano le sue ceneri?
E poi la coppia di imbonitori Russo-Lombardo continua a venderci per riforma una patacca fatta solo di tagli sulla pelle dei siciliani.
Gli ospedali chiudono - con grave disagio per i malati costretti a viaggi della disperazione da un capo all’altro della Sicilia - e in quelli ancora aperti si muore a un ritmo impressionante oppure capita che siano governati da un criminale nazista che, come nei campi di sterminio, usa i pazienti come cavie, asportando loro organi sani solo per compiere il proprio esperimento di arricchimento personale. E poi l’assessore/magistrato ha pure il coraggio – mettendo in moto un calembour che non fa ridere affatto – di chiedere ai pazienti di avere pazienza. Ma certo! Come no? Un paio di mesi fa la Commissione parlamentare sugli errori sanitari, di cui è presidente Leoluca Orlando, ha diffuso i dati di un’inchiesta condotta fra aprile 2009 e settembre 2010 (quindi Lombardo e Russo non possono dire che non c’erano) negli ospedali di tutta Italia dalla quale è emerso come, dei 163 morti per malasanità complessivi, 38 fossero siciliani (vuol dire una media di due morti e mezzo al mese). Spesso colpa dei medici (e sarebbe interessante sapere per chi votano e dunque in base a quali criteri sono stati assunti), ma in generale – secondo Orlando – “Le responsabilità vanno addebitate anche alle strutture, ai manager e a chi li nomina, ossia i politici”.
Sistema ben radicato e oleato in Sicilia, a cui certamente poi non è estranea la pratica della “raccomandazione” persino per farsi fare una visita magari non indispensabile a discapito dei tempi di chi invece ha bisogno di farsi vedere urgentemente. Anzi, l’esperienza diretta – e sotto gli occhi di tutti – fa notare come, prima ancora di informarsi sulle strutture, chi decide di sottoporsi a una visita o un accertamento cerchi innanzitutto di individuare l’amico a cui rivolgersi, foss’anche l’ultimo dei portantini. Pratica delle raccomandazioni presa in esame anche dai parlamentari, con riferimento alle carriere dei medici e individuata come una delle cause di malasanità insieme alle carenze strutturali e alla mancanza di posti letto. E un sospetto che non fossero veri medici, ma beoni scazzottanti da osteria, dev’essere venuto pure ai componenti della Commissione quando si sono trovati ad affrontare ben due casi di risse in sala parto a Messina, a pochi giorni di distanza l’una dall’altra - una al Policlinico e l’altra al Papardo -, di cui hanno fatto le spese due neonati.
E però in questa Sicilia dei Cuffaro prima e dei Lombardo poi, della quantità impressionante di strutture convenzionate che supera quella complessiva di tutta Italia, delle cliniche all’avanguardia proprietà dei boss mafiosi, degli ospedali dove entri sano ed esci malato - o, se sei un nascituro, la tua vita non ha più un futuro, ma già soltanto un passato -, in base alla sperimentazione voluta dal cosiddetto ministro per l’Innovazione, Renato Brunetta, per valutare la bravura del personale sanitario e condotta in 22 aziende isolane, l’86% dei dipendenti sarebbe molto qualificato e meriterebbe una gratifica.
E, a quanto pare, non sarebbe rilevante il fatto che a fare il controllo di qualità sui medici degli ospedali siciliani siano gli stessi diretti interessati che se la cantano e se la suonano. Solo per fare due esempi, fra questi giudici imparziali ci sarebbe una struttura che organizza corsi di formazione riconosciuti dal ministero della Salute e addirittura l’associazione a cui fanno capo direttori di ospedali e aziende sanitarie. Come si dice dalle mie parti, “u sceccu porta a pagghia e u sceccu s’a mangia”. Con tutto il rispetto per gli asini. Nel senso dei quadrupedi.
venerdì 14 gennaio 2011
Fiat: referendum sotto tortura
Non so come finirà oggi il referendum alla Fiat, ma temo di saperlo. E mi vengono alla mente le immagini di un film del 1975: “Faccia di spia”, di Giuseppe Ferrara, disseminato delle torture più atroci messe in atto dalla Cia nei confronti degli oppositori politici.
Ecco, se ti infilano dei ferri arroventati sotto le unghie o se ti tengono due candele accese vicino ai capezzoli, non è detto che ce la fai. Oggi purtroppo i lavoratori della Fiat voteranno sì al criminale ricatto di Marchionne perché sono sotto tortura: la tortura di perdere il lavoro. Stanno votando con i ferri arroventati nelle unghie e le candele che bruciano i capezzoli e votano sì perché sperano che questa tortura finisca e perché i sindacati gialli, servi del ricattatore Marchionne, gli hanno fatto credere che se accetteranno quelle condizioni di lavoro da Medio evo potranno garantire un futuro ai loro figli.
Alla fine – dopo che loro si saranno suicidati con le loro stesse mani – è realistico che l’amministratore delegato decida comunque di lasciare l’Italia, perché lui questo Paese lo odia e forse perché soldi da investire non ne ha, e loro resteranno comunque senza lavoro: dopo avere svenduto i loro diritti e avere insultato i loro compagni di lavoro, quelli iscritti alla Fiom, che cercavano di fargli capire che si stavano cacciando in una trappola.
Non so come andrà a finire, ma so già quale effetto ha prodotto nell’immediato e quanti altri – come nel domino – ne produrrà adesso, uno dietro l’altro, una valanga: ieri la Keller di Carini ha inviato un fax (solo un fax: nemmeno il coraggio di dirglielo in faccia) per comunicare a 204 dipendenti il licenziamento con decorrenza 5 gennaio: una strage retroattiva.
E’ così che faranno d’ora in poi i padroni, grazie a Marchionne e grazie a un criminale che governa questo Paese sperando che le aziende se ne vadano, uccidendoci definitivamente: si sveglieranno una mattina e licenzieranno.
Ecco, se ti infilano dei ferri arroventati sotto le unghie o se ti tengono due candele accese vicino ai capezzoli, non è detto che ce la fai. Oggi purtroppo i lavoratori della Fiat voteranno sì al criminale ricatto di Marchionne perché sono sotto tortura: la tortura di perdere il lavoro. Stanno votando con i ferri arroventati nelle unghie e le candele che bruciano i capezzoli e votano sì perché sperano che questa tortura finisca e perché i sindacati gialli, servi del ricattatore Marchionne, gli hanno fatto credere che se accetteranno quelle condizioni di lavoro da Medio evo potranno garantire un futuro ai loro figli.
Alla fine – dopo che loro si saranno suicidati con le loro stesse mani – è realistico che l’amministratore delegato decida comunque di lasciare l’Italia, perché lui questo Paese lo odia e forse perché soldi da investire non ne ha, e loro resteranno comunque senza lavoro: dopo avere svenduto i loro diritti e avere insultato i loro compagni di lavoro, quelli iscritti alla Fiom, che cercavano di fargli capire che si stavano cacciando in una trappola.
Non so come andrà a finire, ma so già quale effetto ha prodotto nell’immediato e quanti altri – come nel domino – ne produrrà adesso, uno dietro l’altro, una valanga: ieri la Keller di Carini ha inviato un fax (solo un fax: nemmeno il coraggio di dirglielo in faccia) per comunicare a 204 dipendenti il licenziamento con decorrenza 5 gennaio: una strage retroattiva.
E’ così che faranno d’ora in poi i padroni, grazie a Marchionne e grazie a un criminale che governa questo Paese sperando che le aziende se ne vadano, uccidendoci definitivamente: si sveglieranno una mattina e licenzieranno.
Finanziamenti Fse: non si chiedono referenze sui destinatari?
E’ partito già da qualche mese ma chissà perché (forse per “legittimo impedimento” di uno dei diretti interessati?) lo hanno presentato soltanto un paio di giorni fa. Però non si sono fatti mancare niente: conferenza stampa, presenza di autorità, interviste, gran battage…
Si tratta del progetto intitolato “Formazione e lavoro: nuove prospettive di vita”, finanziato dal Fondo sociale europeo tramite l’assessorato regionale alla Famiglia e rivolto ai carcerati di Catania e Giarre che impareranno un mestiere e poi faranno anche pratica nelle imprese: e, siccome l’Italiano non va più di moda, lo chiamano “work experience”.
Tutto bello: l’obiettivo di svuotare le carceri sovraffollate, quello di dare un’opportunità ai detenuti una volta fuori, l’impegno delle imprese a fornire questo supporto concreto di esperienza dopo l’attività didattica. Peccato che il presidente della cooperativa Città del sole (capofila del consorzio di imprese che gestisce il progetto), ideatore di questa attività, sia l’avvocato Nino Novello intervistato oggi dalla Rai come salvatore della patria (almeno di quella penitenziaria) e frequentatore fino a ieri delle patrie galere – per poco, in realtà, perché come da copione si è fatto venire un “malore” e lo hanno messo ai domiciliari e da poco, immagino, definitivamente libero per scadenza dei termini di custodia cautelare – per essere stato coinvolto l’estate scorsa nell’inchiesta della procura di Catania sulla cosiddetta cricca dei servizi sociali, quelli cioè che si spartivano in maniera non proprio legale gli appalti del comune. E, a guardare bene i nomi delle imprese partner del progetto carcerario, ne salta fuori almeno un altro: quello di Salvo Falletta, presidente del consorzio “Lavoro solidale” specializzato nell’inserimento lavorativo di persone svantaggiate, anch’egli arrestato nei mesi scorsi nell’ambito della stessa inchiesta insieme a una quindicina di persone accusate a vario titolo di truffa ai danni dello Stato e della Regione siciliana, peculato, abuso d'ufficio, turbativa d'asta, frode in forniture pubbliche, falso materiale in atto pubblico, falso ideologico, interruzione di pubblico servizio e chissà che altro.
Ora, capisco che possano essersi fatta un’esperienza diretta e quindi – mi si dirà – chi meglio di loro avrebbe potuto immedesimarsi nella necessità del reinserimento lavorativo dei detenuti, ma mi chiedo se a Bruxelles o ovunque sia (non mi aspetto che accada alla fonte, cioè a Palermo) non dovrebbe esserci qualcuno che prima di concedere i finanziamenti chieda “referenze” sui destinatari. Scoprirebbero, per esempio – a quanto riferiscono alcuni dipendenti che però hanno paura e vogliono restare anonimi -, che la cooperativa deve la sua fortuna e i suoi appalti da un capo all’altro della Sicilia a “clientelismo, sfruttamento dei lavoratori, arroganza” e molto altro, compresi ovviamente gli stretti rapporti con la politica; e avrebbero scoperto – anche se il processo non è ancora cominciato e pur volendo esercitare tutto il garantismo del mondo – che forse sarebbe stato meglio sospendere l’assegnazione del finanziamento dal momento che alcuni dei destinatari erano coinvolti in una storia di soldi fottuti alla gente (perché non bisognerebbe mai dimenticare che il denaro del comune è dei cittadini) per di più privando dei servizi persone disabili o anziane. Magari gli sarebbe venuto il dubbio che forse quei soldi più che al reinserimento dei detenuti sarebbero serviti all’arricchimento di chi ha già lucrato sui più deboli. E magari anche i giornalisti avrebbero dovuto riflettere un attimo sull’opportunità delle loro interviste. Come se a Firenze, invece dei parenti delle vittime, avessero intervistato Pacciani.
Si tratta del progetto intitolato “Formazione e lavoro: nuove prospettive di vita”, finanziato dal Fondo sociale europeo tramite l’assessorato regionale alla Famiglia e rivolto ai carcerati di Catania e Giarre che impareranno un mestiere e poi faranno anche pratica nelle imprese: e, siccome l’Italiano non va più di moda, lo chiamano “work experience”.
Tutto bello: l’obiettivo di svuotare le carceri sovraffollate, quello di dare un’opportunità ai detenuti una volta fuori, l’impegno delle imprese a fornire questo supporto concreto di esperienza dopo l’attività didattica. Peccato che il presidente della cooperativa Città del sole (capofila del consorzio di imprese che gestisce il progetto), ideatore di questa attività, sia l’avvocato Nino Novello intervistato oggi dalla Rai come salvatore della patria (almeno di quella penitenziaria) e frequentatore fino a ieri delle patrie galere – per poco, in realtà, perché come da copione si è fatto venire un “malore” e lo hanno messo ai domiciliari e da poco, immagino, definitivamente libero per scadenza dei termini di custodia cautelare – per essere stato coinvolto l’estate scorsa nell’inchiesta della procura di Catania sulla cosiddetta cricca dei servizi sociali, quelli cioè che si spartivano in maniera non proprio legale gli appalti del comune. E, a guardare bene i nomi delle imprese partner del progetto carcerario, ne salta fuori almeno un altro: quello di Salvo Falletta, presidente del consorzio “Lavoro solidale” specializzato nell’inserimento lavorativo di persone svantaggiate, anch’egli arrestato nei mesi scorsi nell’ambito della stessa inchiesta insieme a una quindicina di persone accusate a vario titolo di truffa ai danni dello Stato e della Regione siciliana, peculato, abuso d'ufficio, turbativa d'asta, frode in forniture pubbliche, falso materiale in atto pubblico, falso ideologico, interruzione di pubblico servizio e chissà che altro.
Ora, capisco che possano essersi fatta un’esperienza diretta e quindi – mi si dirà – chi meglio di loro avrebbe potuto immedesimarsi nella necessità del reinserimento lavorativo dei detenuti, ma mi chiedo se a Bruxelles o ovunque sia (non mi aspetto che accada alla fonte, cioè a Palermo) non dovrebbe esserci qualcuno che prima di concedere i finanziamenti chieda “referenze” sui destinatari. Scoprirebbero, per esempio – a quanto riferiscono alcuni dipendenti che però hanno paura e vogliono restare anonimi -, che la cooperativa deve la sua fortuna e i suoi appalti da un capo all’altro della Sicilia a “clientelismo, sfruttamento dei lavoratori, arroganza” e molto altro, compresi ovviamente gli stretti rapporti con la politica; e avrebbero scoperto – anche se il processo non è ancora cominciato e pur volendo esercitare tutto il garantismo del mondo – che forse sarebbe stato meglio sospendere l’assegnazione del finanziamento dal momento che alcuni dei destinatari erano coinvolti in una storia di soldi fottuti alla gente (perché non bisognerebbe mai dimenticare che il denaro del comune è dei cittadini) per di più privando dei servizi persone disabili o anziane. Magari gli sarebbe venuto il dubbio che forse quei soldi più che al reinserimento dei detenuti sarebbero serviti all’arricchimento di chi ha già lucrato sui più deboli. E magari anche i giornalisti avrebbero dovuto riflettere un attimo sull’opportunità delle loro interviste. Come se a Firenze, invece dei parenti delle vittime, avessero intervistato Pacciani.
lunedì 10 gennaio 2011
Sicurezza sul lavoro: in Sicilia condizioni simili al Medio Evo
Questa mattina a Santa Venerina due uomini, un siciliano e un rumeno, sono morti in un'esplosione all'interno di una fabbrica di fuochi di artificio, mentre un altro è rimasto ferito. Vi ripropongo un articolo sulle cosiddette "morti bianche" scritto all'inizio del 2009 per Rinascita. Da allora le cose non sono cambiate: la Sicilia ha il primato degli incidenti e delle morti sul lavoro rispetto al resto d'Italia e la provincia di Catania lo detiene rispetto alle altre dell'Isola. E intanto, sempre in provincia di Catania, qualche giorno fa un operaio è stato licenziato, secondo la Cgil proprio perché aveva denunciato le scarse condizioni di sicurezza all'interno del cantiere in cui lavorava.
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Sembra di entrare in uno di quei sacrari di guerra dove migliaia di nomi e di lapidi che si rincorrono ti levano il fiato e ti danno i brividi e le vertigini. Una sfilza di nomi. Uno, due, tre al giorno, a volte di più. E’ morto Tizio, è morto Caio, Sempronio, è morto questo, è morto quell’altro. Ogni giorno ce n’è almeno uno nel sacrario virtuale di cadutisullavoro, il blog di un sito internet la cui homepage è un teschio pieno di caselline rosse, ciascuna delle quali è un nome, un volto e un’età. C’è anche il milite ignoto: “nome sconosciuto”, c’è scritto. E fa impressione l’età: 31 anni, 24 anni, 19 anni.
Pieno di siciliani. Terra di primati negativi la Sicilia dove – in controtendenza rispetto alla comunque sempre troppo lieve flessione nazionale – il dato dei morti e dei feriti sul lavoro è in crescita. Oltre cento i caduti del 2008 e già circa 10 ne erano stati contati soltanto nelle prime due settimane dell’anno appena entrato: praticamente poco meno di uno al giorno, ma mancavano ancora gli altri di gennaio. L’ultimo in ordine di tempo è Giuseppe Gatì, 23 anni, morto fulminato il 31 gennaio scorso a Campobello di Licata, in provincia di Agrigento, camminando su un filo di luce elettrica scoperto all’interno di un’azienda agricola. Tre giorni prima ne erano morti due a Caltanissetta, sepolti dalla frana di una montagna, e un altro a Gela, al Petrolchimico: Salvatore Vittorioso era dipendente della ditta Ecorigen la cui pericolosità dell’impianto e i turni massacranti erano stati segnalati più volte dai lavoratori. Vittorioso a 34 anni era ancora precario e quel giorno alle otto ore consuete ne aveva aggiunte molte di più: era entrato in fabbrica alle 8, l’esplosione che l’ha ucciso è avvenuta alle 21,30.
L’ultimo rapporto Inail, relativo al 2007 e presentato soltanto a novembre del 2008, parla di 35.490 infortuni verificatisi in Sicilia: il 3,8% di quelli nazionali e il 4% in più rispetto all’anno precedente, con una concentrazione particolare nelle province di Palermo, Catania, Messina e Ragusa. Troppi, considerato che con il suo 37,2% (sempre e ancora soltanto dati del 2007, mentre per il 2009 i sindacati prevedono per l’Isola una perdita di 30.000 posti di lavoro) la Sicilia è fra le 12 regioni europee con il più alto tasso di disoccupazione. E parla già di oltre 46.000 incidenti (il 2% in più rispetto al 2007) e di102 morti, il 70% dei quali nell’industria e nei servizi, il bilancio ancora provvisorio del 2008, che tale resterà dal momento che molti incidenti e decessi non vengono neppure denunciati perché morti e feriti sono precari o clandestini o lavoratori in nero e spariscono nel nulla da dove erano arrivati.
Si racconta che alcuni anni fa un giovane siciliano dal doppio lavoro sia morto da clandestino. Viveva in una delle grandi città dell’Isola consegnando a domicilio le bombole del gas dall’alba fino a sera inoltrata. Ma quello che guadagnava non gli bastava a mantenere la famiglia e di notte arrotondava in nero nei magazzini di un’azienda molto nota. Una di quelle notti il cuore gli si spaccò, lo impacchettarono e lo portarono via in fretta e furia, perché l’inevitabile inchiesta che altrimenti sarebbe stata aperta non infangasse il rispettabile nome di quell’impresa. Ufficialmente quel giovane era morto nel suo letto.
E’ una delle cause di tanto disastro individuate da Pino Lo Bello, responsabile del Dipartimento Salute e Sicurezza della Cgil regionale, che elenca una per una le responsabilità, non facendo sconti a nessuno, neppure al sindacato. Quella di cui abbiamo parlato rientra fra le “responsabilità datoriali: non c’è rispetto per la persona – dice -, né cultura della sicurezza”.
Ma la lista è lunga: comincia dalle Asl, Lo Bello, ricordando che dovrebbero essere “l’autorità sanitaria preposta alla medicina preventiva e alle azioni di repressione”. E invece: si spende “un mare di soldi” ed “è quasi stato cancellato il servizio di Medicina preventiva e del lavoro”. Anche nel piano sanitario regionale (quello, per intenderci, brandendo il quale il presidente della Regione, Raffaele Lombardo, medico e da sempre padrone della Sanità siciliana, gioca a fare Robespierre per ghigliottinare i suoi avversari interni e fare l’en plein di potere), secondo Lo Bello, non si fa neppure cenno a quel 5% della spesa che dovrebbe essere destinato alla Medicina preventiva e del lavoro: che signficherebbe – spiega – “risorse umane, tecnologie e strutture per garantire le visite in almeno il 20% delle aziende. Oggi, infatti, ne viene controllato non più del 5-6% e così molte aziende non si curano di mettersi in regola perché “fanno pari e dispari” e sanno che ci sono “pochissime possibilità di essere sanzionate”.
Fra le responsabilità che il sindacalista individua – e sembra quasi un calembour – ci sono quelle dei responsabili della sicurezza: “spesso lasciati a se stessi, non adeguatamente formati oppure nominati dalla stessa azienda, solo perché lo prevede la legge, e costretti a far finta che sia tutto in regola”. Ricattabili e ricattati e pure loro, come molti altri, condizionati da una totale “assenza del diritto alla vita e alla salubrità dei luoghi di lavoro”. Lo Bello fa l’esempio delle “condizioni intollerabili” di alcuni poli industriali – i petrolchimici o le serriculture – dove si fa un uso elevatissimo di prodotti tossici, ma le malattie professionali non vengono denunciate “se non in minima parte”. I lavoratori più a rischio, e che spesso non appaiono nelle classifiche, sono i precari (ricattatti – spiega – “alla vigilia del contratto di lavoro o costretti a fare molte più ore” con la conseguenza che “il lavoratore può essere così stanco da non avvertire il rischio”) e i dipendenti delle imprese subappaltatrici: il responsabile Sicurezza della Cgil spiega infatti che, se le aziende vincitrici degli appalti “probabilmente rispettano le norme”, così certamente non è per quelle alle quali viene affidato il subappalto: spesso lavori pesanti, svolti in assenza di regole e di tutela sindacale. Lì il sindacato non c’è (e statisticamente, spiega il sindacalista, “dove c’è meno sindacato ci sono più infortuni”) e “il singolo lavoratore” non è in grado di contrastare il datore di lavoro.
Ma Lo Bello si chiede anche se il sindacato in effetti faccia tutto ciò che potrebbe fare: “Siamo un po’ distratti – ammette – mentre invece questo dovrebbe essere uno dei nostri ruoli più importanti e venire finanche prima dell’aspetto salariale”.
Infinite, poi, le responsabilità della Regione. Lo Bello denuncia innanzitutto le carenze degli ispettorati del lavoro, che comunque hanno competenze soltanto relativamente al settore edile: in ogni caso, uno fra i più colpiti. “Ora – dice – hanno annunciato che ci saranno 150 nuovi ispettori in più, ma ancora siamo solo agli annunci”. E ci si mettono pure i ritardi e slittamenti continui nel fissare la data di presentazione, da parte dei datori di lavoro, dei documenti di valutazione del rischio: “Prima – spiega – doveva essere a gennaio, ora hanno detto entro giugno, ma c’è il pericolo che slitti ancora: sembra che non ci sia una volontà politica vera, ma soltanto lacrime di coccodrillo disseminate a destra e a manca”.
Inoltre, a causa della mancanza di prevenzione, secondo il sindacalista, c’è “un aggravio di costi sanitari” dovuto ai numerosi ricoveri ospedalieri e, come se non bastasse, non si fa neppure la riabilitazione tanto che l’Inail ha dovuto sostituirsi alle strutture sanitarie e attivare quattro servizi per ridurre i tempi dell’inabilità temporanea: “In Sicilia – chiarisce Lo Bello – abbiamo l’inabilità temporanea più lunga di tutta Italia” che comporta aggravio di costi e una lesione ulteriore del diritto al lavoro. “Ogni anno – denuncia – si perdono un milione e seicentomila giornate lavorative e questo incide complessivamente sulle attività produttive siciliane”.
Poi c’è la questione del lavoro nero e irregolare, dove la sicurezza te la sogni. Secondo i dati del 2007, diffusi lo scorso anno, le aziende fuori dalla legge – che sfruttano ragazzini e immigrati clandestini – risultano oltre 10.500. Ma il fatto è che l’ispettorato del lavoro, con troppo pochi ispettori, ne ha controllate soltanto poco meno di 17.500 sulle 480.000 presenti in Sicilia. Esclusi i cantieri edili. E la regione, secondo Lo Bello, non fa funzionare i comitati paritetici per l’emersione e “non batte un colpo” perché “chi governa non ha esperienza sindacale o sociale né sensibilità: tutto langue in una condizione vicina al Medio Evo”.
E infatti, lamenta ancora il sindacalista, “la formazione professionale doveva avere una parte, da noi sollecitata, di formazione per la sicurezza”. Il sindacato chiedeva che fosse almeno il 10% a cui aggiungere quella specifica mirata alla qualifica del lavoratore. Invece se ne fanno soltanto “cenni”.
Deserto assoluto anche per quanto riguarda gli aspetti normativi. La Sicilia, che agita tanto la sua autonomia come una clava, non è stata capace di varare una propria legge. Il responsabile Sicurezza della Cgil sostiene che si sarebbe dovuto scrivere da tempo una legge integrativa del testo unico per regolamentare l’apprendistato, aumentare la formazione, incentivare la rottamazione di impianti “obsoleti, spesso causa di infortuni”: questi invece “fanno solo annunci, non hanno nessuna competenza, non comparano quello che fanno le altre regioni”. E tutto questo “nel dramma di un quadro politico desolante, in cui la rappresentanza sociale è venuta meno, il senso di appartenenza dei lavoratori è venuto meno: votano per quelli che promettono soluzioni clientelari o personalistiche e così viene meno il principio dell’unità dei lavoratori”.
Solo qualche settimana fa, l’assessorato regionale ha comunicato che “sta mettendo a punto un disegno di legge sulla sicurezza sul lavoro, che dovrebbe essere sottoposto all’approvazione dell’Assemblea Regionale Siciliana entro il 2009”. Piano piano, senza fretta. E in questi dieci mesi i lavoratori continueranno a cadere a grappoli.
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Sembra di entrare in uno di quei sacrari di guerra dove migliaia di nomi e di lapidi che si rincorrono ti levano il fiato e ti danno i brividi e le vertigini. Una sfilza di nomi. Uno, due, tre al giorno, a volte di più. E’ morto Tizio, è morto Caio, Sempronio, è morto questo, è morto quell’altro. Ogni giorno ce n’è almeno uno nel sacrario virtuale di cadutisullavoro, il blog di un sito internet la cui homepage è un teschio pieno di caselline rosse, ciascuna delle quali è un nome, un volto e un’età. C’è anche il milite ignoto: “nome sconosciuto”, c’è scritto. E fa impressione l’età: 31 anni, 24 anni, 19 anni.
Pieno di siciliani. Terra di primati negativi la Sicilia dove – in controtendenza rispetto alla comunque sempre troppo lieve flessione nazionale – il dato dei morti e dei feriti sul lavoro è in crescita. Oltre cento i caduti del 2008 e già circa 10 ne erano stati contati soltanto nelle prime due settimane dell’anno appena entrato: praticamente poco meno di uno al giorno, ma mancavano ancora gli altri di gennaio. L’ultimo in ordine di tempo è Giuseppe Gatì, 23 anni, morto fulminato il 31 gennaio scorso a Campobello di Licata, in provincia di Agrigento, camminando su un filo di luce elettrica scoperto all’interno di un’azienda agricola. Tre giorni prima ne erano morti due a Caltanissetta, sepolti dalla frana di una montagna, e un altro a Gela, al Petrolchimico: Salvatore Vittorioso era dipendente della ditta Ecorigen la cui pericolosità dell’impianto e i turni massacranti erano stati segnalati più volte dai lavoratori. Vittorioso a 34 anni era ancora precario e quel giorno alle otto ore consuete ne aveva aggiunte molte di più: era entrato in fabbrica alle 8, l’esplosione che l’ha ucciso è avvenuta alle 21,30.
L’ultimo rapporto Inail, relativo al 2007 e presentato soltanto a novembre del 2008, parla di 35.490 infortuni verificatisi in Sicilia: il 3,8% di quelli nazionali e il 4% in più rispetto all’anno precedente, con una concentrazione particolare nelle province di Palermo, Catania, Messina e Ragusa. Troppi, considerato che con il suo 37,2% (sempre e ancora soltanto dati del 2007, mentre per il 2009 i sindacati prevedono per l’Isola una perdita di 30.000 posti di lavoro) la Sicilia è fra le 12 regioni europee con il più alto tasso di disoccupazione. E parla già di oltre 46.000 incidenti (il 2% in più rispetto al 2007) e di102 morti, il 70% dei quali nell’industria e nei servizi, il bilancio ancora provvisorio del 2008, che tale resterà dal momento che molti incidenti e decessi non vengono neppure denunciati perché morti e feriti sono precari o clandestini o lavoratori in nero e spariscono nel nulla da dove erano arrivati.
Si racconta che alcuni anni fa un giovane siciliano dal doppio lavoro sia morto da clandestino. Viveva in una delle grandi città dell’Isola consegnando a domicilio le bombole del gas dall’alba fino a sera inoltrata. Ma quello che guadagnava non gli bastava a mantenere la famiglia e di notte arrotondava in nero nei magazzini di un’azienda molto nota. Una di quelle notti il cuore gli si spaccò, lo impacchettarono e lo portarono via in fretta e furia, perché l’inevitabile inchiesta che altrimenti sarebbe stata aperta non infangasse il rispettabile nome di quell’impresa. Ufficialmente quel giovane era morto nel suo letto.
E’ una delle cause di tanto disastro individuate da Pino Lo Bello, responsabile del Dipartimento Salute e Sicurezza della Cgil regionale, che elenca una per una le responsabilità, non facendo sconti a nessuno, neppure al sindacato. Quella di cui abbiamo parlato rientra fra le “responsabilità datoriali: non c’è rispetto per la persona – dice -, né cultura della sicurezza”.
Ma la lista è lunga: comincia dalle Asl, Lo Bello, ricordando che dovrebbero essere “l’autorità sanitaria preposta alla medicina preventiva e alle azioni di repressione”. E invece: si spende “un mare di soldi” ed “è quasi stato cancellato il servizio di Medicina preventiva e del lavoro”. Anche nel piano sanitario regionale (quello, per intenderci, brandendo il quale il presidente della Regione, Raffaele Lombardo, medico e da sempre padrone della Sanità siciliana, gioca a fare Robespierre per ghigliottinare i suoi avversari interni e fare l’en plein di potere), secondo Lo Bello, non si fa neppure cenno a quel 5% della spesa che dovrebbe essere destinato alla Medicina preventiva e del lavoro: che signficherebbe – spiega – “risorse umane, tecnologie e strutture per garantire le visite in almeno il 20% delle aziende. Oggi, infatti, ne viene controllato non più del 5-6% e così molte aziende non si curano di mettersi in regola perché “fanno pari e dispari” e sanno che ci sono “pochissime possibilità di essere sanzionate”.
Fra le responsabilità che il sindacalista individua – e sembra quasi un calembour – ci sono quelle dei responsabili della sicurezza: “spesso lasciati a se stessi, non adeguatamente formati oppure nominati dalla stessa azienda, solo perché lo prevede la legge, e costretti a far finta che sia tutto in regola”. Ricattabili e ricattati e pure loro, come molti altri, condizionati da una totale “assenza del diritto alla vita e alla salubrità dei luoghi di lavoro”. Lo Bello fa l’esempio delle “condizioni intollerabili” di alcuni poli industriali – i petrolchimici o le serriculture – dove si fa un uso elevatissimo di prodotti tossici, ma le malattie professionali non vengono denunciate “se non in minima parte”. I lavoratori più a rischio, e che spesso non appaiono nelle classifiche, sono i precari (ricattatti – spiega – “alla vigilia del contratto di lavoro o costretti a fare molte più ore” con la conseguenza che “il lavoratore può essere così stanco da non avvertire il rischio”) e i dipendenti delle imprese subappaltatrici: il responsabile Sicurezza della Cgil spiega infatti che, se le aziende vincitrici degli appalti “probabilmente rispettano le norme”, così certamente non è per quelle alle quali viene affidato il subappalto: spesso lavori pesanti, svolti in assenza di regole e di tutela sindacale. Lì il sindacato non c’è (e statisticamente, spiega il sindacalista, “dove c’è meno sindacato ci sono più infortuni”) e “il singolo lavoratore” non è in grado di contrastare il datore di lavoro.
Ma Lo Bello si chiede anche se il sindacato in effetti faccia tutto ciò che potrebbe fare: “Siamo un po’ distratti – ammette – mentre invece questo dovrebbe essere uno dei nostri ruoli più importanti e venire finanche prima dell’aspetto salariale”.
Infinite, poi, le responsabilità della Regione. Lo Bello denuncia innanzitutto le carenze degli ispettorati del lavoro, che comunque hanno competenze soltanto relativamente al settore edile: in ogni caso, uno fra i più colpiti. “Ora – dice – hanno annunciato che ci saranno 150 nuovi ispettori in più, ma ancora siamo solo agli annunci”. E ci si mettono pure i ritardi e slittamenti continui nel fissare la data di presentazione, da parte dei datori di lavoro, dei documenti di valutazione del rischio: “Prima – spiega – doveva essere a gennaio, ora hanno detto entro giugno, ma c’è il pericolo che slitti ancora: sembra che non ci sia una volontà politica vera, ma soltanto lacrime di coccodrillo disseminate a destra e a manca”.
Inoltre, a causa della mancanza di prevenzione, secondo il sindacalista, c’è “un aggravio di costi sanitari” dovuto ai numerosi ricoveri ospedalieri e, come se non bastasse, non si fa neppure la riabilitazione tanto che l’Inail ha dovuto sostituirsi alle strutture sanitarie e attivare quattro servizi per ridurre i tempi dell’inabilità temporanea: “In Sicilia – chiarisce Lo Bello – abbiamo l’inabilità temporanea più lunga di tutta Italia” che comporta aggravio di costi e una lesione ulteriore del diritto al lavoro. “Ogni anno – denuncia – si perdono un milione e seicentomila giornate lavorative e questo incide complessivamente sulle attività produttive siciliane”.
Poi c’è la questione del lavoro nero e irregolare, dove la sicurezza te la sogni. Secondo i dati del 2007, diffusi lo scorso anno, le aziende fuori dalla legge – che sfruttano ragazzini e immigrati clandestini – risultano oltre 10.500. Ma il fatto è che l’ispettorato del lavoro, con troppo pochi ispettori, ne ha controllate soltanto poco meno di 17.500 sulle 480.000 presenti in Sicilia. Esclusi i cantieri edili. E la regione, secondo Lo Bello, non fa funzionare i comitati paritetici per l’emersione e “non batte un colpo” perché “chi governa non ha esperienza sindacale o sociale né sensibilità: tutto langue in una condizione vicina al Medio Evo”.
E infatti, lamenta ancora il sindacalista, “la formazione professionale doveva avere una parte, da noi sollecitata, di formazione per la sicurezza”. Il sindacato chiedeva che fosse almeno il 10% a cui aggiungere quella specifica mirata alla qualifica del lavoratore. Invece se ne fanno soltanto “cenni”.
Deserto assoluto anche per quanto riguarda gli aspetti normativi. La Sicilia, che agita tanto la sua autonomia come una clava, non è stata capace di varare una propria legge. Il responsabile Sicurezza della Cgil sostiene che si sarebbe dovuto scrivere da tempo una legge integrativa del testo unico per regolamentare l’apprendistato, aumentare la formazione, incentivare la rottamazione di impianti “obsoleti, spesso causa di infortuni”: questi invece “fanno solo annunci, non hanno nessuna competenza, non comparano quello che fanno le altre regioni”. E tutto questo “nel dramma di un quadro politico desolante, in cui la rappresentanza sociale è venuta meno, il senso di appartenenza dei lavoratori è venuto meno: votano per quelli che promettono soluzioni clientelari o personalistiche e così viene meno il principio dell’unità dei lavoratori”.
Solo qualche settimana fa, l’assessorato regionale ha comunicato che “sta mettendo a punto un disegno di legge sulla sicurezza sul lavoro, che dovrebbe essere sottoposto all’approvazione dell’Assemblea Regionale Siciliana entro il 2009”. Piano piano, senza fretta. E in questi dieci mesi i lavoratori continueranno a cadere a grappoli.
domenica 9 gennaio 2011
Il Pad, ovvero delle nuove tecnologie della politica siciliana
Il Pad, che non ha niente a che fare con la famosa tavoletta di Steve Jobs ma sempre più con quella del cesso, è la nuova rivoluzionaria invenzione di Giuseppe Lupo e compari, quelli che se ne fottono dei lavoratori, hanno dimenticato la lotta alla mafia e sostengono un governo fondato sulle clientele (dalle quali traggono anche loro qualche beneficio: una formazione professionale qua, un appalto coniugale là...).
Sta per Partito AntiDemocratico, partito di centrocentro-destradestra, che già a livello nazionale ha abbondantemente dato prova di sé manifestando odio per la magistratura che indaga su qualcuno dei suoi esponenti, disprezzo per i giornali che svelano i suoi inciuci, sudditanza nei confronti del governo di destra e dei padroni, oltraggio alle regole (per dirne una: hanno “inventato” le primarie, ma ora che non convengono più le vogliono cancellare), ma in Sicilia sta dando il meglio – si fa per dire - calpestando il volere dei propri elettori ed iscritti che di questo sostegno al governo Lombardo non ne vogliono proprio sapere. L’ultima l’ha fatta ieri con il commissariamento della sezione di Caltagirone: il segretario Gaetano Cardiel aveva indetto per oggi il referendum fra i tesserati, per chiedere loro di pronunciarsi appunto su quest’abbraccio mortale per il partito stesso e per i siciliani, e lui lo ha defenestrato inviando in qualità di commissario Luca Spataro, segretario provinciale del Pd catanese, cioè uno favorevole all’inciucio in salsa sicula.
A Lupo, per rendersi conto della cazzata che ha fatto, basterebbe (ma non lo farà, da talebano dell’Opus dei qual è) leggere alcuni dei commenti lasciati sulla pagina Facebook di Cardiel: c’è Alfredo, incredulo, che ritiene il commissariamento “ridicolo”; Dario che parla di “gesto vigliacco” e invita tutti ad autosospendersi; Sebastiano che paragona il partito a un regime dove non c’è più “libertà di parola e di pensiero”; Antonio che si chiede “cos'ha di democratico il Pd”; lo stesso Alfredo di prima che ci ripensa e ci torna su e kennedianamente (esagerato!) proclama: “Siamo tutti caltagironesi e votiamo il referendum”. Gli aggettivi si sprecano: allucinante, paradossale, masochista, eccetera.
Poi ci sono le agenzie, con i commenti pro e contro dei diversi esponenti politici e quello che più colpisce per l’acrimonia è quello di Beppe Lumia. Sì, proprio lui, l’eroe dell’antimafia, che dà ragione a Lupo, parla di referendum farsa (esattamente come hanno fatto gli uomini di Lombardo) e con grande sprezzo del ridicolo afferma: “'La posizione assunta dal Pd in Sicilia ha rotto gli equilibri del vecchio sistema di potere marcio, clientelare, burocratico, affaristico e spesso colluso con la mafia”. Ah, sì? E com’è, di grazia, il sistema di potere di Lombardo se non “marcio, clientelare, burocratico, affaristico e spesso colluso con la mafia”? Se lo ricorda Lumia che Lombardo è indagato per rapporti con i boss? Si è accorto il grande moralizzatore che la riforma della Sanità siciliana ha messo ai posti di comando tutti gli uomini del presidente? E che ne pensa quest’anima candida dell’appalto coniugale senza gara per l’informatizzazione dell’ospedale di Giarre?
E poi un’ultima domanda, a Lumia e a Lupo: come mai tanta solerzia verso il partito di Caltagirone che ha promosso il referendum contro Lombardo e non altrettanta verso quello di Enna che ha fatto lo stesso? Hanno paura di perdere i voti della mafia? Poi, certo – escluso che lo abbia fatto per un irreprimibile bisogno di moralità -, c’è da chiedersi cosa abbia spinto il cosiddetto onorevole Vladimiro Crisafulli, frequentatore (al pari di Lombardo e, al pari di Lombardo, solo per ragioni politiche, s’intende) del capomafia dell’ennese, Raffaele Bevilacqua, a promuovere un referendum contro un governo che gli si attaglia benissimo. E c’è da chiedersi come e perché le poche persone pulite rimaste nel Pad continuino a convivere con gente come Crisafulli le cui frequentazioni sono note da anni. Non è che in fondo l’idea di lasciare il partito e dunque di rinunciare a piccole nicchie di potere giustifica che ci si dimentichi della questione morale?
Sta per Partito AntiDemocratico, partito di centrocentro-destradestra, che già a livello nazionale ha abbondantemente dato prova di sé manifestando odio per la magistratura che indaga su qualcuno dei suoi esponenti, disprezzo per i giornali che svelano i suoi inciuci, sudditanza nei confronti del governo di destra e dei padroni, oltraggio alle regole (per dirne una: hanno “inventato” le primarie, ma ora che non convengono più le vogliono cancellare), ma in Sicilia sta dando il meglio – si fa per dire - calpestando il volere dei propri elettori ed iscritti che di questo sostegno al governo Lombardo non ne vogliono proprio sapere. L’ultima l’ha fatta ieri con il commissariamento della sezione di Caltagirone: il segretario Gaetano Cardiel aveva indetto per oggi il referendum fra i tesserati, per chiedere loro di pronunciarsi appunto su quest’abbraccio mortale per il partito stesso e per i siciliani, e lui lo ha defenestrato inviando in qualità di commissario Luca Spataro, segretario provinciale del Pd catanese, cioè uno favorevole all’inciucio in salsa sicula.
A Lupo, per rendersi conto della cazzata che ha fatto, basterebbe (ma non lo farà, da talebano dell’Opus dei qual è) leggere alcuni dei commenti lasciati sulla pagina Facebook di Cardiel: c’è Alfredo, incredulo, che ritiene il commissariamento “ridicolo”; Dario che parla di “gesto vigliacco” e invita tutti ad autosospendersi; Sebastiano che paragona il partito a un regime dove non c’è più “libertà di parola e di pensiero”; Antonio che si chiede “cos'ha di democratico il Pd”; lo stesso Alfredo di prima che ci ripensa e ci torna su e kennedianamente (esagerato!) proclama: “Siamo tutti caltagironesi e votiamo il referendum”. Gli aggettivi si sprecano: allucinante, paradossale, masochista, eccetera.
Poi ci sono le agenzie, con i commenti pro e contro dei diversi esponenti politici e quello che più colpisce per l’acrimonia è quello di Beppe Lumia. Sì, proprio lui, l’eroe dell’antimafia, che dà ragione a Lupo, parla di referendum farsa (esattamente come hanno fatto gli uomini di Lombardo) e con grande sprezzo del ridicolo afferma: “'La posizione assunta dal Pd in Sicilia ha rotto gli equilibri del vecchio sistema di potere marcio, clientelare, burocratico, affaristico e spesso colluso con la mafia”. Ah, sì? E com’è, di grazia, il sistema di potere di Lombardo se non “marcio, clientelare, burocratico, affaristico e spesso colluso con la mafia”? Se lo ricorda Lumia che Lombardo è indagato per rapporti con i boss? Si è accorto il grande moralizzatore che la riforma della Sanità siciliana ha messo ai posti di comando tutti gli uomini del presidente? E che ne pensa quest’anima candida dell’appalto coniugale senza gara per l’informatizzazione dell’ospedale di Giarre?
E poi un’ultima domanda, a Lumia e a Lupo: come mai tanta solerzia verso il partito di Caltagirone che ha promosso il referendum contro Lombardo e non altrettanta verso quello di Enna che ha fatto lo stesso? Hanno paura di perdere i voti della mafia? Poi, certo – escluso che lo abbia fatto per un irreprimibile bisogno di moralità -, c’è da chiedersi cosa abbia spinto il cosiddetto onorevole Vladimiro Crisafulli, frequentatore (al pari di Lombardo e, al pari di Lombardo, solo per ragioni politiche, s’intende) del capomafia dell’ennese, Raffaele Bevilacqua, a promuovere un referendum contro un governo che gli si attaglia benissimo. E c’è da chiedersi come e perché le poche persone pulite rimaste nel Pad continuino a convivere con gente come Crisafulli le cui frequentazioni sono note da anni. Non è che in fondo l’idea di lasciare il partito e dunque di rinunciare a piccole nicchie di potere giustifica che ci si dimentichi della questione morale?
sabato 8 gennaio 2011
La profesión más hermosa del mundo
Riporto qualche stralcio del discorso sul giornalismo – il mestiere più bello del mondo - tenuto da Gabriel Garcia Marquez nel 1996 all’Assemblea della Società interamericana della Stampa e contenuto nel volume “Non sono venuto a far discorsi”, pubblicato in Italia da Mondadori (sì, lo so, non ditemi niente, non infierite: ho già sofferto abbastanza all’idea di dare dei soldi al presidente onorario dei pedofili e degli “eroi”).
Dedicato a quelli che pensano che per fare i giornalisti si debba soltanto – come dicono loro – “stare al desk”; a quelli che credono che per essere giornalisti non sia necessario intervistare una persona guardandola in faccia; a quelli che ritengono che prima di andare a una conferenza stampa o a un convegno sia superfluo informarsi sull’argomento; a quelli per i quali essere giornalisti significa apparire in televisione; a quelli convinti di essere automaticamente giornalisti perché hanno studiato Scienza della comunicazione; a quelli certi che per fare i giornalisti non sia indispensabile saper scrivere in Italiano; a quelli che i giornali li scrivono, ma non li leggono; a quelli che vogliono fare i giornalisti per arricchirsi; a quelli che nelle interviste non fanno domande, ma riportano risposte; a quei sedicenti giornalisti per i quali “servizio” è sinonimo di fellatio (al padrone); a quelli che dicono “noi giornalisti amiamo il potere” e se ne vantano; a quelli che dicono “noi giornalisti siamo come le puttane, ma vendiamo la parte più bella del nostro corpo e cioè il cervello” e non se ne vergognano; a quelli secondo i quali essere giornalisti vuol dire camminare a 90° gradi.... o forse no, forse è meglio dedicarlo a quei pochi (pochissimi) che capirebbero: quelli che questo mestiere lo amano talmente tanto da farlo gratis, riconoscendo la sua grandissima funzione democratica e di cane da guardia del potere.
Garcia Marquez parla della Colombia, ma è come se parlasse dell’Italia:
“....è questa la ragione per cui sono tanto imprecise le motivazioni fornite dalla maggior parte degli studenti per spiegare la loro decisione di studiare giornalismo....Soltanto uno ha attribuito la propria preferenza al fatto che la sua passione per informare superava il suo interesse a essere informato”.
“Una cinquantina di anni fa, quando la stampa colombiana era all’avanguardia in America latina, non c’erano scuole di giornalismo. Il mestiere si imparava nelle redazioni, nelle tipografie, nel bar di fronte...L’ingresso nella corporazione non prevedeva nessuna condizione che non fosse il desiderio di essere giornalista, ma perfino i figli dei proprietari di giornali...dovevano dimostrare le loro attitudini nella pratica....L’esperienza aveva dimostrato che tutto era facile da imparare nella pratica per chi possedesse l’istinto, la sensibilità e la resistenza da giornalista. L’esercizio stesso del mestiere imponeva la necessità di formarsi una base culturale, e lo stesso ambiente di lavoro si occupava di alimentarla. La lettura era un vizio professionale”.
“Da allora, qualcosa è cambiato. In Colombia se ne vanno a spasso circa ventisettemila tesserini da giornalista, che però in massima parte...servono come salvacondotto per ottenere favori dalle istituzioni, o per non fare le code, o per entrare gratis negli stadi...”
“Prima che fosse inventato il registratore, il mestiere si esercitava bene con tre strumenti indispensabili che in realtà erano uno solo: il blocco per gli appunti, un’etica a tutta prova e un paio di orecchie che i cronisti usavano ancora per ascoltare ciò che veniva loro detto....In realtà, l’utilizzo professionale ed etico del registratore è ancora da inventare...Il registratore sente ma non ascolta, registra ma non pensa, è fedele ma non ha cuore, e alla fine dei conti la sua versione letterale non sarà altrettanto affidabile di quella di chi fa attenzione alle parole vive dell’interlocutore, le valuta con la sua intelligenza e le giudica con la sua morale....”
“Nelle università colombiane ci sono quattordici lauree e due master in Scienze delle comunicazioni. Questo conferma una crescente preoccupazione di grande portata, però dà anche l’impressione di un pantano accademico che soddisfa molte delle necessità attuali dell’insegnamento, ma non le due più importanti: la creatività e la pratica....”
...il giornalismo è una passione insaziabile che può essere digerita e umanizzata soltanto nel confronto crudo con la realtà. Nessuno che non l’abbia sofferta può concepire questa schiavitù che viene alimentata dagli imprevisti della vita. Nessuno che non l’abbia vissuto può nemmeno immaginare cosa sia il palpito sovrannaturale della notizia, l’orgasmo dell’esclusiva, la demolizione morale del fallimento. Nessuno che non sia nato per il giornalismo e non sia pronto a morire per esso potrebbe resistere in una professione così incomprensibile e vorace, il cui lavoro finisce dopo ogni notizia, come se fosse per sempre, e non concede un attimo di pace fin quando non ricomincia, con più entusiasmo che mai, il minuto dopo”.
Dedicato a quelli che pensano che per fare i giornalisti si debba soltanto – come dicono loro – “stare al desk”; a quelli che credono che per essere giornalisti non sia necessario intervistare una persona guardandola in faccia; a quelli che ritengono che prima di andare a una conferenza stampa o a un convegno sia superfluo informarsi sull’argomento; a quelli per i quali essere giornalisti significa apparire in televisione; a quelli convinti di essere automaticamente giornalisti perché hanno studiato Scienza della comunicazione; a quelli certi che per fare i giornalisti non sia indispensabile saper scrivere in Italiano; a quelli che i giornali li scrivono, ma non li leggono; a quelli che vogliono fare i giornalisti per arricchirsi; a quelli che nelle interviste non fanno domande, ma riportano risposte; a quei sedicenti giornalisti per i quali “servizio” è sinonimo di fellatio (al padrone); a quelli che dicono “noi giornalisti amiamo il potere” e se ne vantano; a quelli che dicono “noi giornalisti siamo come le puttane, ma vendiamo la parte più bella del nostro corpo e cioè il cervello” e non se ne vergognano; a quelli secondo i quali essere giornalisti vuol dire camminare a 90° gradi.... o forse no, forse è meglio dedicarlo a quei pochi (pochissimi) che capirebbero: quelli che questo mestiere lo amano talmente tanto da farlo gratis, riconoscendo la sua grandissima funzione democratica e di cane da guardia del potere.
Garcia Marquez parla della Colombia, ma è come se parlasse dell’Italia:
“....è questa la ragione per cui sono tanto imprecise le motivazioni fornite dalla maggior parte degli studenti per spiegare la loro decisione di studiare giornalismo....Soltanto uno ha attribuito la propria preferenza al fatto che la sua passione per informare superava il suo interesse a essere informato”.
“Una cinquantina di anni fa, quando la stampa colombiana era all’avanguardia in America latina, non c’erano scuole di giornalismo. Il mestiere si imparava nelle redazioni, nelle tipografie, nel bar di fronte...L’ingresso nella corporazione non prevedeva nessuna condizione che non fosse il desiderio di essere giornalista, ma perfino i figli dei proprietari di giornali...dovevano dimostrare le loro attitudini nella pratica....L’esperienza aveva dimostrato che tutto era facile da imparare nella pratica per chi possedesse l’istinto, la sensibilità e la resistenza da giornalista. L’esercizio stesso del mestiere imponeva la necessità di formarsi una base culturale, e lo stesso ambiente di lavoro si occupava di alimentarla. La lettura era un vizio professionale”.
“Da allora, qualcosa è cambiato. In Colombia se ne vanno a spasso circa ventisettemila tesserini da giornalista, che però in massima parte...servono come salvacondotto per ottenere favori dalle istituzioni, o per non fare le code, o per entrare gratis negli stadi...”
“Prima che fosse inventato il registratore, il mestiere si esercitava bene con tre strumenti indispensabili che in realtà erano uno solo: il blocco per gli appunti, un’etica a tutta prova e un paio di orecchie che i cronisti usavano ancora per ascoltare ciò che veniva loro detto....In realtà, l’utilizzo professionale ed etico del registratore è ancora da inventare...Il registratore sente ma non ascolta, registra ma non pensa, è fedele ma non ha cuore, e alla fine dei conti la sua versione letterale non sarà altrettanto affidabile di quella di chi fa attenzione alle parole vive dell’interlocutore, le valuta con la sua intelligenza e le giudica con la sua morale....”
“Nelle università colombiane ci sono quattordici lauree e due master in Scienze delle comunicazioni. Questo conferma una crescente preoccupazione di grande portata, però dà anche l’impressione di un pantano accademico che soddisfa molte delle necessità attuali dell’insegnamento, ma non le due più importanti: la creatività e la pratica....”
...il giornalismo è una passione insaziabile che può essere digerita e umanizzata soltanto nel confronto crudo con la realtà. Nessuno che non l’abbia sofferta può concepire questa schiavitù che viene alimentata dagli imprevisti della vita. Nessuno che non l’abbia vissuto può nemmeno immaginare cosa sia il palpito sovrannaturale della notizia, l’orgasmo dell’esclusiva, la demolizione morale del fallimento. Nessuno che non sia nato per il giornalismo e non sia pronto a morire per esso potrebbe resistere in una professione così incomprensibile e vorace, il cui lavoro finisce dopo ogni notizia, come se fosse per sempre, e non concede un attimo di pace fin quando non ricomincia, con più entusiasmo che mai, il minuto dopo”.
lunedì 3 gennaio 2011
Un sindaco per Catania: le "nuove proposte" di Sud
Il giornale Sud, free(?)press catanese, ha lanciato un sondaggio su un possibile eventuale futuro candidato sindaco di Catania.
Questo l’elenco dei nomi nuovi proposti, sia pure con la possibilità che i lettori ne segnalino altri: Bianco, Stancanelli, Scapagnini, Pogliese, Fiumefreddo, Chisari, Villari, Musumeci, Agen… Ragazzi, ma ci siete o ci fate? Vi rendete conto che questi hanno tutti i cervelli putrescenti? E non è nemmeno una questione anagrafica, perché Pogliese – che sarebbe il più giovane – è, esattamente come gli altri, il frutto della prima Repubblica, della seconda, della terza e di chissà quante altre prima che questi riusciamo a levarceli dai coglioni.
Evito di analizzare una per una questa proposte solo per spirito caritatevole, altrimenti dovrei ricordare chi se n’è andato lasciandoci con il culo a terra, chi si è sputtanato (in tutti i sensi) il nostro patrimonio, chi ora si atteggia a verginella avendo fatto scempio della città – correo – fino a non troppi anni fa, eccetera; evito anche di rilevare che non ci sono proposte femminili (perché non sono solita impiccarmi sulle questioni di genere e perché le donne che finora hanno ricoperto ruoli politici sono state superiori ai maschi anche in merdosità: potrei fare un nome di una la cui metamorfosi è ormai compiuta, tanto che il suo timbro di voce è diventato maschile); evito di sottolineare che forse non è caso di proporre nomi di gente indagata; evito di ricordarvi che non ce n'è nemmeno mezzo di sinistra; evito di segnalare il cocktail inquietante di mafia-affari-massoneria; evito persino di fare notare lo stucchevole gioco delle parti, con uno dei candidati (la verginella di cui sopra) che ringrazia e respinge l’offerta non dimenticando di ergersi a vittima della mafia; e mi limito invece a sottolineare la tristezza della mancanza di fantasia e/o speranza che sottende a proposte simili.
E il guaio è che a togliere ai catanesi ogni speranza di vedere qualcosa di diverso, di riscattarsi, di meritare un sindaco (o una sindaca) che si occupi finalmente e seriamente di creare posti di lavoro (posti di lavoro, non clientele), cultura, aria pulita, spazi verdi - insomma quelle cose minime per trasformare una città di merda in una vivibile -, sono stati proprio quelli che avete elencato, tutti, nessuno escluso.
Ma il guaio è anche che a togliere ai catanesi ogni speranza sono stati i catanesi stessi, che di questi signori in elenco si sono fatti servi e lecchini.
Questo l’elenco dei nomi nuovi proposti, sia pure con la possibilità che i lettori ne segnalino altri: Bianco, Stancanelli, Scapagnini, Pogliese, Fiumefreddo, Chisari, Villari, Musumeci, Agen… Ragazzi, ma ci siete o ci fate? Vi rendete conto che questi hanno tutti i cervelli putrescenti? E non è nemmeno una questione anagrafica, perché Pogliese – che sarebbe il più giovane – è, esattamente come gli altri, il frutto della prima Repubblica, della seconda, della terza e di chissà quante altre prima che questi riusciamo a levarceli dai coglioni.
Evito di analizzare una per una questa proposte solo per spirito caritatevole, altrimenti dovrei ricordare chi se n’è andato lasciandoci con il culo a terra, chi si è sputtanato (in tutti i sensi) il nostro patrimonio, chi ora si atteggia a verginella avendo fatto scempio della città – correo – fino a non troppi anni fa, eccetera; evito anche di rilevare che non ci sono proposte femminili (perché non sono solita impiccarmi sulle questioni di genere e perché le donne che finora hanno ricoperto ruoli politici sono state superiori ai maschi anche in merdosità: potrei fare un nome di una la cui metamorfosi è ormai compiuta, tanto che il suo timbro di voce è diventato maschile); evito di sottolineare che forse non è caso di proporre nomi di gente indagata; evito di ricordarvi che non ce n'è nemmeno mezzo di sinistra; evito di segnalare il cocktail inquietante di mafia-affari-massoneria; evito persino di fare notare lo stucchevole gioco delle parti, con uno dei candidati (la verginella di cui sopra) che ringrazia e respinge l’offerta non dimenticando di ergersi a vittima della mafia; e mi limito invece a sottolineare la tristezza della mancanza di fantasia e/o speranza che sottende a proposte simili.
E il guaio è che a togliere ai catanesi ogni speranza di vedere qualcosa di diverso, di riscattarsi, di meritare un sindaco (o una sindaca) che si occupi finalmente e seriamente di creare posti di lavoro (posti di lavoro, non clientele), cultura, aria pulita, spazi verdi - insomma quelle cose minime per trasformare una città di merda in una vivibile -, sono stati proprio quelli che avete elencato, tutti, nessuno escluso.
Ma il guaio è anche che a togliere ai catanesi ogni speranza sono stati i catanesi stessi, che di questi signori in elenco si sono fatti servi e lecchini.
domenica 2 gennaio 2011
La "setteveli" di Napolitano
Perché un ragazzo di ventiquattro anni decide di fare testamento? A meno che non si tratti delle solite manipolazioni giornalistiche, per rendere più teatrale ed eroica una morte che è un omicidio di Stato, è questo quello che ci hanno raccontato in tv: Matteo Miotto, il giovanissimo alpino ucciso due giorni fa in Afghanistan “da un cecchino”, aveva fatto testamento per dire che avrebbe voluto essere sepolto fra i caduti di guerra.
Ma perché un ragazzo che ha 24 anni, che gode di buona saluta, che ha genitori affettuosi e una fidanzata che lo ama, sente il bisogno di pensare alla morte? Forse perché, pur drogato di retorica patriottarda, sa che quella in cui è impegnato non è una missione di pace ma di morte? Forse perché sa già che nel suo Paese se vuoi vivere devi andare a morire facendo il carabiniere, il poliziotto, il militare esportatore di presunte democrazie e altrettanto presunte verità rivelate? Forse perché sa che nel suo Paese non c’è futuro?
Di che va cianciando Giorgio Napolitano in quella “setteveli” di ipocrisia ipocritamente apprezzata in maniera circolare da destra a sinistra (?) e ritorno, quando parla di giovani, di futuro e di democrazia? In questo Paese queste tre parole non stanno più insieme da tempo, fanno cortocircuito e, anzi, forse sono già state cancellate dai vocabolari. Oppure ce le hanno lasciate, mettendoci accanto quel macabro simbolo che indica un termine desueto. Di che va parlando Napolitano, quando violenta la Costituzione e ci prende per scemi, dicendo che le nostre missioni sono militari, ma non di guerra? Su che farfuglia il capo dello Stato che in questi anni ha firmato tutto ciò che ha ucciso la democrazia? Firma ma osserva, firma ma obietta, firma ma fa rilevare, firma ma raccomanda, ma firma, firma, firma, immancabilmente firma. Ha firmato la legge sul legittimo impedimento che para il culo a un criminale comune; ha firmato il decreto Bondi che ammazza la cultura; ha firmato lo scudo fiscale che ha fatto un gran regalo a mafiosi ed evasori (che poi sarebbe la stessa cosa); sta per firmare il rifinanziamento della missione in Afghanistan e ha appena firmato la riforma Gelmini.
E’ grazie a queste leggi se i giovani se la danno a gambe levate da questo Paese. E’ a causa di queste leggi che un ragazzo di ventiquattro anni fa testamento come un ricchissimo possidente ottuagenario: perché sa di non essere padrone nemmeno dei propri ventiquattro anni.
Ma perché un ragazzo che ha 24 anni, che gode di buona saluta, che ha genitori affettuosi e una fidanzata che lo ama, sente il bisogno di pensare alla morte? Forse perché, pur drogato di retorica patriottarda, sa che quella in cui è impegnato non è una missione di pace ma di morte? Forse perché sa già che nel suo Paese se vuoi vivere devi andare a morire facendo il carabiniere, il poliziotto, il militare esportatore di presunte democrazie e altrettanto presunte verità rivelate? Forse perché sa che nel suo Paese non c’è futuro?
Di che va cianciando Giorgio Napolitano in quella “setteveli” di ipocrisia ipocritamente apprezzata in maniera circolare da destra a sinistra (?) e ritorno, quando parla di giovani, di futuro e di democrazia? In questo Paese queste tre parole non stanno più insieme da tempo, fanno cortocircuito e, anzi, forse sono già state cancellate dai vocabolari. Oppure ce le hanno lasciate, mettendoci accanto quel macabro simbolo che indica un termine desueto. Di che va parlando Napolitano, quando violenta la Costituzione e ci prende per scemi, dicendo che le nostre missioni sono militari, ma non di guerra? Su che farfuglia il capo dello Stato che in questi anni ha firmato tutto ciò che ha ucciso la democrazia? Firma ma osserva, firma ma obietta, firma ma fa rilevare, firma ma raccomanda, ma firma, firma, firma, immancabilmente firma. Ha firmato la legge sul legittimo impedimento che para il culo a un criminale comune; ha firmato il decreto Bondi che ammazza la cultura; ha firmato lo scudo fiscale che ha fatto un gran regalo a mafiosi ed evasori (che poi sarebbe la stessa cosa); sta per firmare il rifinanziamento della missione in Afghanistan e ha appena firmato la riforma Gelmini.
E’ grazie a queste leggi se i giovani se la danno a gambe levate da questo Paese. E’ a causa di queste leggi che un ragazzo di ventiquattro anni fa testamento come un ricchissimo possidente ottuagenario: perché sa di non essere padrone nemmeno dei propri ventiquattro anni.
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