«Scusi, signora», «Scusi, signora». Ci sta un po’ a girarsi, a capire che sto parlando con lei. Forse nessuno l’ha mai chiamata signora. Puttana, troia, zoccola, al massimo «ehi, tu», o «au!» visto che ci troviamo a Catania. Chi vuoi che chiami signora una schiava del racket, nera per di più, costretta a vendere il proprio corpo per fare arricchire gli assassini di umanità che l’hanno portata fin qui con il miraggio di un lavoro? Lavoro di merda. Per pagarsi il viaggio su un barcone a rischio naufragio e mandare qualcosa ai parenti rimasti nel paese d’origine. Notte e giorno, estate e inverno, con quaranta gradi e il sole che ti brucia il cervello o sotto la neve, seminuda a quell’angolo di strada, seduta su una seggiolina sbilenca, all’ingresso di un quartiere popolato da prostitute, immigrati, trans, ultimi degli ultimi, disperati e, da qualche tempo, da giovani donne e uomini che provano a far qualcosa per loro e con loro. Il quartiere San Berillo, un ghetto in pieno centro.
Finalmente si gira verso di me. «Scusi, signora. Via Carro?». «Via?». «Carro». «Via Carro? Forse Via Carrà». E lo ripete due volte. Mi scappa un sorriso: Raffaella Carrà è talmente un’icona del movimento Lgbt che deve aver pensato che le abbiano dedicato una strada proprio in quel rione dove, d’altronde, c’è un murales con la faccia di Fabrizio De Andrè, che gli hanno messo un’aureola dietro la testa e lo hanno pure fatto santo: San Fabrizio dei vicoli.
Comunque no, non lo sa. Grazie, prego. «Provi a chiedere a quella incinta». No, nemmeno lei chiama signora un’altra donna come lei, per quanto incinta.
Via Carro – lo scopro qualche secondo dopo - è ad appena una ventina di metri da quell’angolo sulla strada grande in cui lei sta seduta, ma lei non lo sa. Mi viene da pensare che abbia l’ordine di non muoversi da quell’angolo neanche per fare per pipì, che a San Berillo non ci abiti, che sia solo il suo luogo di lavoro. Ma, chissà com’è, per quanto mi sforzi, non riesco proprio a immaginarla come un’impiegata che arriva a una certa ora, striscia il cartellino, si fa le sue ore di lavoro, alla fine timbra e se ne torna a casa (e chissà se ce l’ha una casa): penso che i suoi aguzzini la caricano, la portano lì e se la riportano via quando ha finito, per non perderne il controllo nemmeno per un istante. E l’unica immagine che riesco a vedere è quella di un vitello squartato, caricato in spalla da un uomo con le mani insanguinate, depositato sul bancone, fatto a pezzi e, quando non resta più niente, un po’ di ossa lanciate ai cani. Mentre uno sciacallo diventato statista si avventa sulla carcassa.