Boubakar non sopporta di vedere le persone morire. Il suo è quasi un riflesso condizionato: se vede uno che si getta sotto un treno, gli si tuffa appresso e non schioda finché non l’ha tirato via da lì sano e salvo. Quest’anno lo ha fatto già due volte in pochi mesi: all’inizio di luglio si è lanciato sui binari, si è spalmato a mo’ di coperta (come testimoniano i filmati esaminati dalla polizia ferroviaria) su una donna che aspettava l’arrivo del treno, è rimasto fermo e presumibilmente senza respirare insieme a lei fin quando non ha visto il convoglio allontanarsi e poi l’ha riportata a galla. Fra «stare sotto un treno», con il carico di disperazione che questa espressione porta con sé, e «passare sotto un treno», in mezzo c’è la vita che riprende a vivere.
Boubakar questa storia probabilmente non l’avrebbe raccontata, se non fosse che gettandosi sui binari si era ferito a un piede ed è stato necessario portarlo al pronto soccorso, come non aveva raccontato quella di cui è stato protagonista circa sette mesi fa quando insieme a un amico aveva trascinato fuori dalla strada ferrata un uomo, poco prima che venisse falciato da un treno: quella volta erano arrivate subito l’ambulanza e la polizia e lui si era dileguato prima che qualcuno potesse capire chi aveva salvato quell’uomo disperato.
Boubakar ha soltanto diciannove anni, è arrivato ancora minorenne dalla Libia su un barcone: la Sicilia, poi la Liguria, lo Sprar di Arenzano dove vive con un permesso di soggiorno che fra non molto scadrà.
Boubakar non ama il clamore e le luci dei riflettori, quando gli dicono che ha fatto un grande gesto (due grandi gesti in pochi mesi), lui si schermisce, dice che non è niente: «Niente di speciale» dice. Niente di speciale: è solo che non ne può più di vedere morti, Boubakar stanco di guerra, dopo aver visto gli amici morire a grappoli in Libia; Boubakar che in meno di diciannove anni ha visto morire più persone che se avesse vissuto cent’anni. «Non sopportavo l’idea di vedere una persona morire davanti a me», ha detto a chi gli chiedeva perché l’avesse fatto. Ma anche questa domanda dovrebbe farci riflettere: chiedere a Boubakar perché l’ha fatto e non a tutti gli altri – a tutti quelli che «aiutiamoli a casa loro» e Carola «amica degli scafisti» – perché non l’hanno fatto.
E forse per questi, da Salvini in giù, bisognerebbe organizzare una specie di viaggio premio con «cura Ludovico» compresa nel pacchetto: giorni in Libia, costretti a vedere quello che succede, come lo ha visto Boubakar, a non chiudere gli occhi fino ad esserne straziati.