Ho letto la storia di Deborah, la studente del liceo artistico di Monterotondo che durante una lite ha ucciso il padre violento. Ho letto che era bravissima a scuola - selezionata per le olimpiadi di Filosofia -, che qualcuno si chiedeva perché una ragazza così carina fosse sempre triste, che dell’inferno che viveva a casa non parlava con nessuno.
Ho letto la storia di Deborah e mi sono tornate in mente tutte le storie di ragazze e ragazzi che hanno avuto la vita devastata da un padre violento: quelli più grandi, che facevano i turni per uscire la sera pur di non lasciare la mamma nelle mani del suo potenziale assassino, e quelli più piccoli che durante le liti si frapponevano fra il padre e la madre, a fare scudo con il loro corpo.
«Meg ha venticinque anni e tre cicatrici sul braccio» scriveva la mia amica e collega Roberta Fuschi nel libro a cui abbiamo lavorato insieme qualche anno fa incontrando alcune donne che l’hanno scampata, uscite vive dalla violenza dei loro compagni. Meg parlava di suo padre definendolo «quell’uomo». Quell’uomo da cui, insieme ai suoi fratelli, aveva salvato la madre beccandosi le coltellate.
Ho letto la storia di Deborah, l’ho incrociata con quella di Meg e ho ripensato a quella di G: studente liceale bravissima che viveva nello stesso inferno, chiamava suo padre «quello», non raccontava la sua storia in giro come se fosse lei a doversi vergognare, era sempre triste e la notte faceva la pipì nel letto. Una di quelle notti, mentre suo padre stringeva le mani al collo di una moglie che non riusciva a sottomettere, e niente e nessuno riusciva a distogliere quell’uomo dal suo proposito femminicida, lei afferrò una bottiglia di Coca-Cola e gliela diede in testa.
Gli fece male, abbastanza da fermarne la violenza, ma non lo uccise e certamente non era quello il suo intento. Come non lo era per Deborah. Ma se anche lo avesse ucciso, certamente a lei sì, come a Deborah, si sarebbe dovuta riconoscere la legittima difesa: della madre e della propria stabilità psichica.