E’ già un po’ che il futuro è sparito dai nostri discorsi, anni, forse decenni. Futuro come forma verbale, intendo: lentamente e subdolamente radio e televisione hanno cominciato a parlare solo al presente per abituarci al fatto che il futuro, inteso come prospettiva di vita – lavoro, famiglia, figli, qualche spicciolo da mettere da parte per uno sfizio -, non ci sarebbe più stato. Che il futuro era già passato o, al massimo, presente.
Ma da oggi non c’è più neanche il presente. Da due giorni ascolto con raccapriccio le notizie sulla scomparsa di Yara, la ragazzina di 13 anni di Brembate, di cui si è persa ogni traccia da quando, venerdì scorso, è uscita da casa per andare poco più in là, al palazzetto dello sport, per allenarsi.
Le ascolto con raccapriccio, non soltanto per la preoccupazione e i pensieri terribili che ti vengono in testa in questi casi, ma soprattutto perché tutti i giornalisti di ogni radio o tv – che è probabile leggano pedissequamente la stessa notizia di agenzia -, da tre giorni hanno eliminato anche il presente e ci dicono che Yara era brava a scuola, che era una promessa della ginnastica ritmica, che nella sua vita non c’erano ombre.
Yara non è morta. Perché mettere un’ipoteca così pesante non dico sul suo futuro, ma persino sul suo presente? E se fosse stata assassinata non lei ma la sua innocenza, perché pensare che genitori affettuosi, insegnanti premurosi, allenatori attenti e una schiera di psicologi non potranno aiutarla a riprendersi la sua vita pulita?
Così si getta la spugna, non si combatte, si vive solo il qui ed ora e finirà che – dopo avere smesso di cercare il lavoro – non cercheremo più nemmeno le ragazzine scomparse. E ci sembrerà normale.
lunedì 29 novembre 2010
domenica 28 novembre 2010
Sono entrato nella storia
Visto che ormai è diventato un gioco di società (e, in questo caso, forse sarebbe meglio dire uno sport nazionale), mi dedicherò anch’io a quello che appare sempre più un esercizio fisico, piuttosto che mentale, leggendovi o, meglio, scrivendo l’elenco delle parole usate da giornalisti sportivi, commissari tecnici e aspiranti tali (i famosi cinquanta milioni) per definire un calcio a un pallone dato particolarmente bene, una palla che va in rete, una partita vinta.
Parliamo, naturalmente, di football. Ma perché non vi siano dubbi sul mio pensiero (certamente impopolare), in premessa vi regalerò l’esegesi del Maltese-pensiero, non perché io mi creda una tale ideologa, ma perché se Maroni può permettersi di andare in tv a dire puttanate non vedo perché non possa dire la propria pure una che passa per strada come me. E allora vi dico subito che dell’uso che i giornalisti sportivi (e tutti gli altri che fanno loro il verso, in maniera totalmente acritica, “comme des perroquets”) fanno delle parole per i loro resoconti penso che abbia la stessa funzione che ha avuto nel 2004 lo tsunami che provocò migliaia di morti nel sudest asiatico e fu talmente forte da spostare – secondo quanto ci dissero gli esperti – l’asse della terra: come se le avessero dato un calcione nel sedere.
Ebbene, i giornalisti sportivi (che spero per loro abbiano almeno un tornaconto economico personale, altrimenti non si spiega) spostano il senso delle cose, sicché la conseguenza è che se una volta si moriva e si uccideva per l’unità nazionale, per liberare il Paese dal nazifascismo, per i diritti dei lavoratori, per la libertà, cioè per valori e ideali, adesso si muore e si uccide perché un analfabeta pieno di soldi ha commesso un fallo e un altro non meno analfabeta (ma forse meno ricco) non lo ha visto o ha finto di non vederlo.
A questo punto, ecco a voi l’elenco con qualche chiosa servendomi anche di commenti trovati su un sito specializzato:
- “L’azione di…poesia pura”. Poesia? Poesia???!!!! Ah, sì, poesia: Sempre caro mi fu quest’ermo colle, /E questa siepe, che da tanta parte/De l’ultimo orizzonte il guardo esclude…e così via…
- “La vittoria della Roma sul Bayern: impresa storica”. Esticazzi! E io che pensavo a Garibaldi e ai Mille.
- Dichiarazione di Fabrizio Miccoli, attaccante del Palermo: “Sono entrato nella storia superando il record di gol di Di Maso”. Minchia! Allons enfants de la Patrie/Le jour de gloire est arrivé.
- “Il club nerazzurro con il fiato sospeso per i due argentini tornati infortunati dall’amichevole contro il Giappone”. Ah, e io che pensavo che dovesse essere il Cile intero con il fiato sospeso per i 33 minatori bloccati nelle viscere della terra.
- “La disperazione di Cambiasso e Lucio dopo il gol del pareggio di Kroldrup in Fiorentina-Inter...” Chi è morto?
-
- “Il calcio d'angolo del Manchester United, che contro il Chelsea ha realizzato un goal geniale”. Si vede che giocava Einstein.
Vi risparmio il cronista in estasi, che sembra avere visto la madonna, e la cronista a un passo dall’orgasmo e chiudo con un commento di un tifoso a una decisione arbitrale non condivisa: “Come spiegarlo a mio figlio? E’ stato vergognoso!” Il tifoso indignato conclude: “Questa è l’Italia”.
Per fortuna mio figlio ha trent’anni e non ho bisogno di spiegargli che questa è l’Italia: l’Italia che si indigna per un fallo annullato ma non per uno rattrappito che corre dietro alle minorenni.
Mio figlio l’ha capito da solo che questa è l’Italia. E infatti è andato a vivere in Spagna.
Parliamo, naturalmente, di football. Ma perché non vi siano dubbi sul mio pensiero (certamente impopolare), in premessa vi regalerò l’esegesi del Maltese-pensiero, non perché io mi creda una tale ideologa, ma perché se Maroni può permettersi di andare in tv a dire puttanate non vedo perché non possa dire la propria pure una che passa per strada come me. E allora vi dico subito che dell’uso che i giornalisti sportivi (e tutti gli altri che fanno loro il verso, in maniera totalmente acritica, “comme des perroquets”) fanno delle parole per i loro resoconti penso che abbia la stessa funzione che ha avuto nel 2004 lo tsunami che provocò migliaia di morti nel sudest asiatico e fu talmente forte da spostare – secondo quanto ci dissero gli esperti – l’asse della terra: come se le avessero dato un calcione nel sedere.
Ebbene, i giornalisti sportivi (che spero per loro abbiano almeno un tornaconto economico personale, altrimenti non si spiega) spostano il senso delle cose, sicché la conseguenza è che se una volta si moriva e si uccideva per l’unità nazionale, per liberare il Paese dal nazifascismo, per i diritti dei lavoratori, per la libertà, cioè per valori e ideali, adesso si muore e si uccide perché un analfabeta pieno di soldi ha commesso un fallo e un altro non meno analfabeta (ma forse meno ricco) non lo ha visto o ha finto di non vederlo.
A questo punto, ecco a voi l’elenco con qualche chiosa servendomi anche di commenti trovati su un sito specializzato:
- “L’azione di…poesia pura”. Poesia? Poesia???!!!! Ah, sì, poesia: Sempre caro mi fu quest’ermo colle, /E questa siepe, che da tanta parte/De l’ultimo orizzonte il guardo esclude…e così via…
- “La vittoria della Roma sul Bayern: impresa storica”. Esticazzi! E io che pensavo a Garibaldi e ai Mille.
- Dichiarazione di Fabrizio Miccoli, attaccante del Palermo: “Sono entrato nella storia superando il record di gol di Di Maso”. Minchia! Allons enfants de la Patrie/Le jour de gloire est arrivé.
- “Il club nerazzurro con il fiato sospeso per i due argentini tornati infortunati dall’amichevole contro il Giappone”. Ah, e io che pensavo che dovesse essere il Cile intero con il fiato sospeso per i 33 minatori bloccati nelle viscere della terra.
- “La disperazione di Cambiasso e Lucio dopo il gol del pareggio di Kroldrup in Fiorentina-Inter...” Chi è morto?
-
- “Il calcio d'angolo del Manchester United, che contro il Chelsea ha realizzato un goal geniale”. Si vede che giocava Einstein.
Vi risparmio il cronista in estasi, che sembra avere visto la madonna, e la cronista a un passo dall’orgasmo e chiudo con un commento di un tifoso a una decisione arbitrale non condivisa: “Come spiegarlo a mio figlio? E’ stato vergognoso!” Il tifoso indignato conclude: “Questa è l’Italia”.
Per fortuna mio figlio ha trent’anni e non ho bisogno di spiegargli che questa è l’Italia: l’Italia che si indigna per un fallo annullato ma non per uno rattrappito che corre dietro alle minorenni.
Mio figlio l’ha capito da solo che questa è l’Italia. E infatti è andato a vivere in Spagna.
giovedì 25 novembre 2010
Spot ad personam
Da quando, un anno fa circa, mi regalarono un giallo di Fred Vargas, questa scrittrice francese e la sua scrittura vivace, intrigante, ironica e intelligente sono diventate per me qualcosa di cui non posso fare a meno. Per fortuna leggo in francese, altrimenti avrei dovuto accendere un mutuo. In Francia un tascabile (edizioni J’ai lu) di Fred Vargas costa fra 5 e 8 euro; in Italia i libri di questa scrittrice (edizioni Einaudi, quindi Berlusconi) vanno da un minimo di 12 fino a 18 euro come se niente fosse: cioè uno al prezzo di due o addirittura tre. Già, perché in Francia e a prescindere che ci sia un governo di destra o di sinistra, nessuno o quasi dubita del fatto che la cultura sia una sorta di bene inalienabile, che debba essere accessibile a tutti e che rappresenti una tutela per la democrazia.
Il preambolo della “Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino”, redatta nel 1789 e da allora perno su cui ruotano la Costituzione francese e le più avanzate carte costituzionali di altri Paesi, lo dice chiaramente fin dalle sue prime parole: “I Rappresentanti del Popolo Francese, costituiti in Assemblea Nazionale, considerando che l’ignoranza, l’oblio o il disprezzo dei diritti dell’uomo sono le uniche cause delle sciagure pubbliche e della corruzione dei governi…”. L’ignoranza come causa prima dei mali peggiori di un Paese. E ne sono talmente convinti che da tempo immemorabile la politica dei prezzi dei libri è stata orientata in questo senso: i “livres de poche”, invenzione tutta francese, pur essendo apparsi ufficialmente sotto questo nome nel 1953, c’erano già dagli inizi del secolo. Tascabili non solo per la rilegatura e le dimensioni che consentivano di metterli in tasca, ma soprattutto – così mi piace immaginare, anche se si tratta di un’interpretazione tutta mia dello spirito da cui nascevano – perché si potevano pagare con i pochi spiccioli che stanno in tasca. Ieri come oggi, grazie alla legge Lang del 1981 (recentemente aggiornata, ma rimasta uguale nella sostanza) che stabilisce per i libri un prezzo fisso di vendita stampato sulla copertina – e non, dunque, appesantito da pecette varie che si accumulano una sull’altra come accade in Italia – e soprattutto uno sconto massimo del 5% che tutela i piccoli editori dalle furbate dei grandi i quali, avendo maggiori margini di manovra, potrebbero altrimenti effettuare sconti maggiori e alterare il mercato. Quando, un paio di anni fa, due deputati della maggioranza – uno del Nc e l’altro dell’Ump, il partito di Sarkozy - hanno provato a proporre degli emendamenti che avrebbero favorito le multinazionali e minacciato (come denunciato all’unisono da tutte le categorie interessate, dagli scrittori ai librai agli editori) “gli equilibri del mercato del libro, oltre che la diversità della creazione e dell’edizione francese”, persino due ministre di peso del governo di centrodestra – quella della Cultura e la sua collega dell’Economia - hanno detto che non se ne parlava. E non solo i due parlamentari lobbisti non l’hanno avuta vinta, ma qualche tempo dopo, in seduta notturna e all’unanimità, il Senato francese ha approvato una norma che estendeva la legge Lang anche al mercato editoriale digitale.
In Italia invece la legge sul libro l’hanno fatta, nel silenzio quasi generale (eccezion fatta per gli addetti ai lavori), l’estate scorsa, nella canicola di luglio, ed è mossa da uno spirito totalmente opposto a quella francese. Anzi, per dirla tutta, sembra proprio essere l’ennesima legge ad personam. Primo firmatario, giusto per non farci mancare niente nell’èra dell’inciucismo sconfinato, il parlamentare del Pd Ricky Levi, che ha spacciato la sua norma per una tutela delle piccole librerie contro lo strapotere della grande distribuzione e invece sembra aver cucito l’ennesimo abitino su misura per Silvio Berlusconi. La legge infatti, formalmente, vieta ai librai di effettuare sconti superiori al 15% e questo potrebbe oggettivamente apparire come una protezione per i piccoli librai che non possono permettersi gli stessi sconti dei supermercati, ma c’è un “ma” grande quanto una libreria a tre piani e cioè che gli editori potranno fare promozioni per tutto l’anno (a parte il mese di dicembre) e senza alcun limite percentuale. Tradotto: i grandi potranno, i piccoli resteranno schiacciati.
E infatti i piccoli – centinaia fra editori e librai - si sono incazzati, si sono riuniti in gruppo dandosi il nome di “Mulini a vento” e hanno spiegato all’onorevole Levi (peraltro autore della cosiddetta legge “ammazza blog”, sempre perché in Italia ormai la moda è diventare più fascisti dei fascisti), che aveva sostenuto di avere “trovato il sostegno della stragrande maggioranza degli operatori, grandi e piccoli, librai ed editori, del settore librario”, come la sua creatura, nata con l’obiettivo di mettere ordine, “di fatto cristallizza dei vantaggi spropositati per le grandi case editrici e le librerie di catena”. Spiegazione dettagliata in tre punti:
“1) lo sconto del 15% permette di mantenere una buona redditività alle librerie di catena mentre porta alla soglia della perdita la piccola libreria indipendente, che dunque non può farlo;
2) che il piccolo medio editore, avendo tirature limitate, non può permettersi di fare promozioni con sconti addirittura superiori al 15%, perché si mangerebbe tutto il suo già piccolo margine, mentre la grande casa editrice grazie a tirature alte può fare sconti maggiori senza andare in perdita (anche perché spesso ha già provveduto a fissare prezzi alti in previsione dei futuri sconti);
3) la norma che prevede che le promozioni possano essere fatte solo dagli editori, mette loro in mano un’arma micidiale: si dice infatti che tutte le librerie devono essere informate e hanno facoltà di non aderire. Ma non si dice da nessuna parte che il maggiore sconto offerto dalla casa editrice alla libreria debba essere uguale per tutti (perché un grosso gruppo editoriale non dovrebbe favorire le sue librerie, se la legge glielo consente?)”
I Mulini a vento hanno anche fatto notare che “in Francia e in Germania ci sono da anni leggi che limitano o vietano drasticamente lo sconto e le promozioni, con ottimi risultati non solo per l’intera filiera del libro ma anche per la cultura (e senza danni per il lettore)” e che “se nessuno può fare sconti non ci sarà più bisogno di farli. Se nessuno potrà fare sconti il prezzo fisso dei libri diventerà elemento di concorrenza ad armi pari e i prezzi scenderanno”.
La legge ovviamente è passata senza tenere conto di queste considerazioni e, come se non bastasse, assistiamo allo sperpero di denaro pubblico per uno spot ad personam targato Presidenza del consiglio dei Ministri. Lo avete sentito in radio o visto in tv? Duemilioni e quattrocentomila euro hanno speso per spiegare in radio, in televisione, via web e sui giornali che leggere fa bene ed è il cibo della mente. Ma il sospetto che sia solo cibo per la panza (di Berlusconi, ça va sans dire) è forte. Non foss’altro che per un calcolo un po’ statistico e un po’ della serva: che se lui è proprietario di 8 case editrici su dieci (Einaudi, Mondadori, Electa, Le Monnier, I classici del giallo, I classici Disney, I classici Urania, Il Mulino, Paperino, Paperinik, Sperling&Kupfer, più un’infinità di altre minori), peraltro più note delle altre che non hanno abbastanza soldi per fare pubblicità martellanti, è molto probabile che i libri più venduti saranno i suoi.
Insomma, con i soldi nostri la Presidenza del Consiglio dei Ministri ha pagato uno spot non per incentivare la lettura, ma per favorire ulteriormente la vendita dei libri del presidente del Consiglio dei Ministri.
Perché se davvero avessero avuto un obiettivo nobile, avrebbero potuto fare altro. Per esempio. Quanto fa duemilioni e quattrocentomila euro diviso quindici (che potremmo assumere come prezzo medio di un libro)? Fa centosessantamila libri. Che, per esempio, il governo avrebbe potuto comprare (magari facendo il gesto elegante di evitare le case editrici del padrone) e regalare alle biblioteche. Oppure che il governo avrebbe potuto comprare (come sopra) e regalare a 160.000 cittadini italiani che ne avessero fatto richiesta, magari esibendo una fotocopia della dichiarazione dei redditi per dimostrare che un libro è un lusso che non possono permettersi. Oppure, perfino, senza nemmeno chiedergliela la dichiarazione dei redditi, ma a sorteggio. Chissà che qualche animale pieno di soldi, trovandosi fra le mani un libro, invece di pulircisi il culo come farebbe Bossi con la bandiera italiana, non si incuriosisca e cominci a leggere riuscendo persino a rendersi conto di quali siano le cose importanti della vita. Ma, già, questo – che a qualcuno si attivi il cervello – una dittatura non può permetterlo.
Il preambolo della “Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino”, redatta nel 1789 e da allora perno su cui ruotano la Costituzione francese e le più avanzate carte costituzionali di altri Paesi, lo dice chiaramente fin dalle sue prime parole: “I Rappresentanti del Popolo Francese, costituiti in Assemblea Nazionale, considerando che l’ignoranza, l’oblio o il disprezzo dei diritti dell’uomo sono le uniche cause delle sciagure pubbliche e della corruzione dei governi…”. L’ignoranza come causa prima dei mali peggiori di un Paese. E ne sono talmente convinti che da tempo immemorabile la politica dei prezzi dei libri è stata orientata in questo senso: i “livres de poche”, invenzione tutta francese, pur essendo apparsi ufficialmente sotto questo nome nel 1953, c’erano già dagli inizi del secolo. Tascabili non solo per la rilegatura e le dimensioni che consentivano di metterli in tasca, ma soprattutto – così mi piace immaginare, anche se si tratta di un’interpretazione tutta mia dello spirito da cui nascevano – perché si potevano pagare con i pochi spiccioli che stanno in tasca. Ieri come oggi, grazie alla legge Lang del 1981 (recentemente aggiornata, ma rimasta uguale nella sostanza) che stabilisce per i libri un prezzo fisso di vendita stampato sulla copertina – e non, dunque, appesantito da pecette varie che si accumulano una sull’altra come accade in Italia – e soprattutto uno sconto massimo del 5% che tutela i piccoli editori dalle furbate dei grandi i quali, avendo maggiori margini di manovra, potrebbero altrimenti effettuare sconti maggiori e alterare il mercato. Quando, un paio di anni fa, due deputati della maggioranza – uno del Nc e l’altro dell’Ump, il partito di Sarkozy - hanno provato a proporre degli emendamenti che avrebbero favorito le multinazionali e minacciato (come denunciato all’unisono da tutte le categorie interessate, dagli scrittori ai librai agli editori) “gli equilibri del mercato del libro, oltre che la diversità della creazione e dell’edizione francese”, persino due ministre di peso del governo di centrodestra – quella della Cultura e la sua collega dell’Economia - hanno detto che non se ne parlava. E non solo i due parlamentari lobbisti non l’hanno avuta vinta, ma qualche tempo dopo, in seduta notturna e all’unanimità, il Senato francese ha approvato una norma che estendeva la legge Lang anche al mercato editoriale digitale.
In Italia invece la legge sul libro l’hanno fatta, nel silenzio quasi generale (eccezion fatta per gli addetti ai lavori), l’estate scorsa, nella canicola di luglio, ed è mossa da uno spirito totalmente opposto a quella francese. Anzi, per dirla tutta, sembra proprio essere l’ennesima legge ad personam. Primo firmatario, giusto per non farci mancare niente nell’èra dell’inciucismo sconfinato, il parlamentare del Pd Ricky Levi, che ha spacciato la sua norma per una tutela delle piccole librerie contro lo strapotere della grande distribuzione e invece sembra aver cucito l’ennesimo abitino su misura per Silvio Berlusconi. La legge infatti, formalmente, vieta ai librai di effettuare sconti superiori al 15% e questo potrebbe oggettivamente apparire come una protezione per i piccoli librai che non possono permettersi gli stessi sconti dei supermercati, ma c’è un “ma” grande quanto una libreria a tre piani e cioè che gli editori potranno fare promozioni per tutto l’anno (a parte il mese di dicembre) e senza alcun limite percentuale. Tradotto: i grandi potranno, i piccoli resteranno schiacciati.
E infatti i piccoli – centinaia fra editori e librai - si sono incazzati, si sono riuniti in gruppo dandosi il nome di “Mulini a vento” e hanno spiegato all’onorevole Levi (peraltro autore della cosiddetta legge “ammazza blog”, sempre perché in Italia ormai la moda è diventare più fascisti dei fascisti), che aveva sostenuto di avere “trovato il sostegno della stragrande maggioranza degli operatori, grandi e piccoli, librai ed editori, del settore librario”, come la sua creatura, nata con l’obiettivo di mettere ordine, “di fatto cristallizza dei vantaggi spropositati per le grandi case editrici e le librerie di catena”. Spiegazione dettagliata in tre punti:
“1) lo sconto del 15% permette di mantenere una buona redditività alle librerie di catena mentre porta alla soglia della perdita la piccola libreria indipendente, che dunque non può farlo;
2) che il piccolo medio editore, avendo tirature limitate, non può permettersi di fare promozioni con sconti addirittura superiori al 15%, perché si mangerebbe tutto il suo già piccolo margine, mentre la grande casa editrice grazie a tirature alte può fare sconti maggiori senza andare in perdita (anche perché spesso ha già provveduto a fissare prezzi alti in previsione dei futuri sconti);
3) la norma che prevede che le promozioni possano essere fatte solo dagli editori, mette loro in mano un’arma micidiale: si dice infatti che tutte le librerie devono essere informate e hanno facoltà di non aderire. Ma non si dice da nessuna parte che il maggiore sconto offerto dalla casa editrice alla libreria debba essere uguale per tutti (perché un grosso gruppo editoriale non dovrebbe favorire le sue librerie, se la legge glielo consente?)”
I Mulini a vento hanno anche fatto notare che “in Francia e in Germania ci sono da anni leggi che limitano o vietano drasticamente lo sconto e le promozioni, con ottimi risultati non solo per l’intera filiera del libro ma anche per la cultura (e senza danni per il lettore)” e che “se nessuno può fare sconti non ci sarà più bisogno di farli. Se nessuno potrà fare sconti il prezzo fisso dei libri diventerà elemento di concorrenza ad armi pari e i prezzi scenderanno”.
La legge ovviamente è passata senza tenere conto di queste considerazioni e, come se non bastasse, assistiamo allo sperpero di denaro pubblico per uno spot ad personam targato Presidenza del consiglio dei Ministri. Lo avete sentito in radio o visto in tv? Duemilioni e quattrocentomila euro hanno speso per spiegare in radio, in televisione, via web e sui giornali che leggere fa bene ed è il cibo della mente. Ma il sospetto che sia solo cibo per la panza (di Berlusconi, ça va sans dire) è forte. Non foss’altro che per un calcolo un po’ statistico e un po’ della serva: che se lui è proprietario di 8 case editrici su dieci (Einaudi, Mondadori, Electa, Le Monnier, I classici del giallo, I classici Disney, I classici Urania, Il Mulino, Paperino, Paperinik, Sperling&Kupfer, più un’infinità di altre minori), peraltro più note delle altre che non hanno abbastanza soldi per fare pubblicità martellanti, è molto probabile che i libri più venduti saranno i suoi.
Insomma, con i soldi nostri la Presidenza del Consiglio dei Ministri ha pagato uno spot non per incentivare la lettura, ma per favorire ulteriormente la vendita dei libri del presidente del Consiglio dei Ministri.
Perché se davvero avessero avuto un obiettivo nobile, avrebbero potuto fare altro. Per esempio. Quanto fa duemilioni e quattrocentomila euro diviso quindici (che potremmo assumere come prezzo medio di un libro)? Fa centosessantamila libri. Che, per esempio, il governo avrebbe potuto comprare (magari facendo il gesto elegante di evitare le case editrici del padrone) e regalare alle biblioteche. Oppure che il governo avrebbe potuto comprare (come sopra) e regalare a 160.000 cittadini italiani che ne avessero fatto richiesta, magari esibendo una fotocopia della dichiarazione dei redditi per dimostrare che un libro è un lusso che non possono permettersi. Oppure, perfino, senza nemmeno chiedergliela la dichiarazione dei redditi, ma a sorteggio. Chissà che qualche animale pieno di soldi, trovandosi fra le mani un libro, invece di pulircisi il culo come farebbe Bossi con la bandiera italiana, non si incuriosisca e cominci a leggere riuscendo persino a rendersi conto di quali siano le cose importanti della vita. Ma, già, questo – che a qualcuno si attivi il cervello – una dittatura non può permetterlo.
lunedì 22 novembre 2010
Bersani? Un boh!
Qualche giorno fa conversavo in chat con un amico: uno di sinistra, ma non un estremista ipercritico, anzi uno dei tanti che sono caduti nella doppia trappola del voto utile e del Pd partito di sinistra.
Si parlava della situazione politica nazionale e, naturalmente, di “Vieni via con me”. In particolare dell’elenco che avrebbero dovuto leggere di lì a qualche giorno Fini e Bersani, rispettivamente sui valori della destra e della sinistra.
A un certo punto lui mi ha scritto: “Certo che chiamare a parlare dei valori della destra e della sinistra un fascista e un…boh?..”
Un “boh”, capito? Una cosa indefinibile, un’entità indistinta, un nonloso.
A meno che non si riferisse alla formula chimica dell’idrossido di boro. Almeno in quel caso Bersani una sua utilità potrebbe averla.
Si parlava della situazione politica nazionale e, naturalmente, di “Vieni via con me”. In particolare dell’elenco che avrebbero dovuto leggere di lì a qualche giorno Fini e Bersani, rispettivamente sui valori della destra e della sinistra.
A un certo punto lui mi ha scritto: “Certo che chiamare a parlare dei valori della destra e della sinistra un fascista e un…boh?..”
Un “boh”, capito? Una cosa indefinibile, un’entità indistinta, un nonloso.
A meno che non si riferisse alla formula chimica dell’idrossido di boro. Almeno in quel caso Bersani una sua utilità potrebbe averla.
lunedì 15 novembre 2010
Magistrati come foglie di fico
C’è una frase che mi ha colpito in modo particolare nel documento di quasi seicento pagine redatto dai magistrati della Procura di Catania che indagano sui rapporti fra Raffaele Lombardo e suo fratello Angelo e la mafia.
E’ il passaggio che riguarda la presenza in giunta di due magistrati (che, ai tempi a cui fanno riferimento le indagini, erano Massimo Russo e Giovanni Ilarda): secondo i pm catanesi quella di Lombardo era stata una scelta strategica. “Una strategia – si legge nel documento - che mirava a presentarsi come soggetto politico che, godendo della fiducia di due autorevoli e noti magistrati siciliani, non era per ciò stesso sospettabile di contiguità alcuna”.
Cioè, detto terra terra, quei magistrati all’interno del governo regionale avevano la funzione di specchietto per le allodole o, peggio, di foglia di fico per coprire le schifezze di Lombardo.
Frasi pesanti - soprattutto se ti arrivano dai tuoi colleghi e soprattutto se i tuoi colleghi sono dei magistrati - che inducono a qualche riflessione. Ilarda nel frattempo si è dimesso, ma Massimo Russo è rimasto inchiodato nel suo ruolo di assessore alla Sanità (perverso e perfetto esempio di spoil system, dove dai posti di comando levi i merdosi del tuo rivale e ci metti i merdosi tuoi) e nel frattempo è arrivata Caterina Chinnici, non solo magistrato ma figlia di un giudice ucciso dalla mafia. Possibile che non avvertano un minimo di vergogna ad essere visti dai loro stessi colleghi come portatori d’acqua? Possibile che, mentre sono a casa, passando davanti a uno specchio, non siano portati impercettibilmente ad abbassare lo sguardo?
Da Russo non me lo aspetto più, perché ha dimostrato di essere in perfetta sintonia con Lombardo, ma da Caterina Chinnici vorrei sentire un sussulto di dignità.
Come vorrei sentirlo da chi dovrebbe occuparsi dei rapporti (e della difficoltà di rapporti) fra magistrati all’interno di una procura e soprattutto da chi dovrebbe vigilare sulla correttezza e onestà dei magistrati. Perché non c’è dubbio che ci sia più di una nota stonata in questa vicenda, in cui i pm (cioè quelli che si sono studiate tutte le carte, virgole comprese) parlano senza alcun dubbio di rapporti provati “diretti e indiretti” dei boss di Cosa nostra con i fratelli Lombardo e anzi di “Rapporto non occasionale né marginale ma cospicuo, diretto e continuativo grazie al quale l’uomo politico poteva avvalersi del costante e consistente appoggio elettorale della criminalità organizzata di stampo mafioso a lui vicina”, mentre il loro procuratore capo, Vincenzo D’Agata, sente ogni due per tre il bisogno compulsivo di apparire in tv o sui giornali locali o forse persino di affacciarsi dal balcone di casa sua per sostenere – più o meno - che a carico del presidente della Regione non c’è niente. Limpido e puro come acqua di sorgente.
Forse qualcuno (il Csm?) dovrebbe chiedersi cosa sta accadendo alla procura di Catania, se ci sono problemi di “incompatibilità ambientale”, se ci sono magistrati che non sanno svolgere le indagini, se ci sono magistrati che mentono, se ci sono magistrati che hanno interessi personali in questa faccenda.
E’ il passaggio che riguarda la presenza in giunta di due magistrati (che, ai tempi a cui fanno riferimento le indagini, erano Massimo Russo e Giovanni Ilarda): secondo i pm catanesi quella di Lombardo era stata una scelta strategica. “Una strategia – si legge nel documento - che mirava a presentarsi come soggetto politico che, godendo della fiducia di due autorevoli e noti magistrati siciliani, non era per ciò stesso sospettabile di contiguità alcuna”.
Cioè, detto terra terra, quei magistrati all’interno del governo regionale avevano la funzione di specchietto per le allodole o, peggio, di foglia di fico per coprire le schifezze di Lombardo.
Frasi pesanti - soprattutto se ti arrivano dai tuoi colleghi e soprattutto se i tuoi colleghi sono dei magistrati - che inducono a qualche riflessione. Ilarda nel frattempo si è dimesso, ma Massimo Russo è rimasto inchiodato nel suo ruolo di assessore alla Sanità (perverso e perfetto esempio di spoil system, dove dai posti di comando levi i merdosi del tuo rivale e ci metti i merdosi tuoi) e nel frattempo è arrivata Caterina Chinnici, non solo magistrato ma figlia di un giudice ucciso dalla mafia. Possibile che non avvertano un minimo di vergogna ad essere visti dai loro stessi colleghi come portatori d’acqua? Possibile che, mentre sono a casa, passando davanti a uno specchio, non siano portati impercettibilmente ad abbassare lo sguardo?
Da Russo non me lo aspetto più, perché ha dimostrato di essere in perfetta sintonia con Lombardo, ma da Caterina Chinnici vorrei sentire un sussulto di dignità.
Come vorrei sentirlo da chi dovrebbe occuparsi dei rapporti (e della difficoltà di rapporti) fra magistrati all’interno di una procura e soprattutto da chi dovrebbe vigilare sulla correttezza e onestà dei magistrati. Perché non c’è dubbio che ci sia più di una nota stonata in questa vicenda, in cui i pm (cioè quelli che si sono studiate tutte le carte, virgole comprese) parlano senza alcun dubbio di rapporti provati “diretti e indiretti” dei boss di Cosa nostra con i fratelli Lombardo e anzi di “Rapporto non occasionale né marginale ma cospicuo, diretto e continuativo grazie al quale l’uomo politico poteva avvalersi del costante e consistente appoggio elettorale della criminalità organizzata di stampo mafioso a lui vicina”, mentre il loro procuratore capo, Vincenzo D’Agata, sente ogni due per tre il bisogno compulsivo di apparire in tv o sui giornali locali o forse persino di affacciarsi dal balcone di casa sua per sostenere – più o meno - che a carico del presidente della Regione non c’è niente. Limpido e puro come acqua di sorgente.
Forse qualcuno (il Csm?) dovrebbe chiedersi cosa sta accadendo alla procura di Catania, se ci sono problemi di “incompatibilità ambientale”, se ci sono magistrati che non sanno svolgere le indagini, se ci sono magistrati che mentono, se ci sono magistrati che hanno interessi personali in questa faccenda.
lunedì 8 novembre 2010
Italiani a mille euro, artisti della sopravvivenza
Franco Califano rivendica per sé i benefici della legge Bacchelli, il vitalizio per gli artisti che versano in stato di indigenza (indigenza - capito? - non indecenza): dice che non ce la fa a sbarcare il lunario e a pagare l’affitto con i soldi dei diritti d’autore, che sarebbero diecimila euro ogni sei mesi. Cioè più di 1.600 euro al mese, molto di più dello stipendio mensile di molti italiani, loro sì artisti della sopravvivenza, poeti della disperazione, che ogni giorno fanno i tripli salti mortali, stanno in equilibrio su una fune e si arrampicano sui muri per fare la spesa e pagare le bollette con uno stipendio da mille euro al mese (quando va bene). E non certo perché abbiano sputtanato i loro soldi in donne e coca.
E’ a loro che andrebbero estesi i benefici della Bacchelli.
A Califano consiglierei di prendere in affitto un monovano in periferia: vedrà che potrà persino andare in pizzeria una volta a settimana, farsi un viaggetto l’anno e comprarsi qualche vestito con 1.600 euro al mese.
E’ a loro che andrebbero estesi i benefici della Bacchelli.
A Califano consiglierei di prendere in affitto un monovano in periferia: vedrà che potrà persino andare in pizzeria una volta a settimana, farsi un viaggetto l’anno e comprarsi qualche vestito con 1.600 euro al mese.
Dei delitti e delle pene, di Nino Mandalà
La cosa curiosa è che vai sul motore di ricerca, gli dai come chiave “nino mandalà+wikipedia”, perché vorresti avere le notizie in maniera quanto più asettica possibile, ma il link che ti spunta non si intitola Nino Mandalà: si intitola Renato Schifani.
Poi, dentro, ci trovi il nome del capocosca di Villabate, la sua fedeltà a Bernardo Provenzano, l’essere stato il fondatore di uno dei primi club di Forza Italia a Palermo e i rapporti societari con il presidente del Senato: ma quello che comanda nel titolo è il nome di Schifani, come se l’uno fosse lo pseudonimo o il nome d’arte dell’altro.
Nom de plume si direbbe se si parlasse di uno scrittore. E in effetti Mandalà da qualche tempo si è messo a scrivere: come molti ha un blog e da lì diffonde il suo verbo.
Per esempio a proposito del 41 bis, l’articolo della legge sull’ordinamento penitenziario che prevede il carcere duro per i mafiosi.
Prima di cominciare a scrivere, l’amico di Schifani dà le sue credenziali e ci spiega di essere un’autorità in materia per emettere subito dopo la sua autorevole sentenza: "Ho una discreta competenza in proposito e posso dire che uomini che hanno vissuto in quelle condizioni sono stati cambiati dalla sofferenza, istupiditi da consuetudini che si ripetono per anni ininterrottamente sempre uguali, sono diventati i malconci residui del contesto originario, non saprebbero neanche leggere la realtà esterna che si è nel frattempo determinata".
Doverosamente, prima di dire la mia, faccio anch’io due premesse: 1) non ho competenze giuridiche e quindi non scendo nel dettaglio dell’efficacia della misura carceraria o della sua crudeltà; 2) in linea di massima non sono una forcaiola e – con la competenza minima di chi lo ha studiato in letteratura italiana da minore e non in quanto giurista – avrei una certa propensione a sentirmi seguace di Cesare Beccaria.
Detto questo, mio caro (si fa per dire) signor mafioso di merda, come pensa che si siano sentiti quelli che a Villabate e dintorni, per esempio, cercando un lavoro, sapevano di doversi sottomettere a voi per essere assunti nel centro commerciale che avreste voluto costruire a suon di mazzette, modifiche irregolari al piano regolatore e minacce?
Come pensa che si siano sentiti in questi anni commercianti, imprenditori e persino gestori di cinema, costretti dalla sua cosca mensilmente a pagare il pizzo?
Come pensa che si senta un’intera regione, il cui sviluppo è soffocato dalla presenza mafiosa sul territorio e nelle istituzioni?
Come pensa che sia sentito un bambino di 12 anni tenuto prigioniero in un maneggio proprio nel suo paese e poi sciolto nell’acido per punire il padre pentito?
Glielo dico io, usando le sue stesse parole: tutti “sono stati cambiati dalla sofferenza, istupiditi da consuetudini che si ripetono per anni ininterrottamente sempre uguali, sono diventati i malconci residui del contesto originario, non saprebbero neanche leggere la realtà esterna che si è nel frattempo determinata".
Zombie, siamo diventati tutti zombie in Sicilia, perché la mafia è dappertutto e ci stiamo convincendo che sia l’ordine naturale delle cose.
E allora, caro (si fa per dire) signor mafioso di merda, le comunico che me ne fotto delle sofferenze inflitte ai mafiosi dal 41 bis e le rivolgo un invito: la smetta di fare la vittima e l’avvocato difensore dei poveri mafiosi torturati e se ne vada affanculo. Con i suoi complici che stanno a Villabate, con quelli che stanno a Palermo e con quelli fungibili a lei che stanno a Roma.
Poi, dentro, ci trovi il nome del capocosca di Villabate, la sua fedeltà a Bernardo Provenzano, l’essere stato il fondatore di uno dei primi club di Forza Italia a Palermo e i rapporti societari con il presidente del Senato: ma quello che comanda nel titolo è il nome di Schifani, come se l’uno fosse lo pseudonimo o il nome d’arte dell’altro.
Nom de plume si direbbe se si parlasse di uno scrittore. E in effetti Mandalà da qualche tempo si è messo a scrivere: come molti ha un blog e da lì diffonde il suo verbo.
Per esempio a proposito del 41 bis, l’articolo della legge sull’ordinamento penitenziario che prevede il carcere duro per i mafiosi.
Prima di cominciare a scrivere, l’amico di Schifani dà le sue credenziali e ci spiega di essere un’autorità in materia per emettere subito dopo la sua autorevole sentenza: "Ho una discreta competenza in proposito e posso dire che uomini che hanno vissuto in quelle condizioni sono stati cambiati dalla sofferenza, istupiditi da consuetudini che si ripetono per anni ininterrottamente sempre uguali, sono diventati i malconci residui del contesto originario, non saprebbero neanche leggere la realtà esterna che si è nel frattempo determinata".
Doverosamente, prima di dire la mia, faccio anch’io due premesse: 1) non ho competenze giuridiche e quindi non scendo nel dettaglio dell’efficacia della misura carceraria o della sua crudeltà; 2) in linea di massima non sono una forcaiola e – con la competenza minima di chi lo ha studiato in letteratura italiana da minore e non in quanto giurista – avrei una certa propensione a sentirmi seguace di Cesare Beccaria.
Detto questo, mio caro (si fa per dire) signor mafioso di merda, come pensa che si siano sentiti quelli che a Villabate e dintorni, per esempio, cercando un lavoro, sapevano di doversi sottomettere a voi per essere assunti nel centro commerciale che avreste voluto costruire a suon di mazzette, modifiche irregolari al piano regolatore e minacce?
Come pensa che si siano sentiti in questi anni commercianti, imprenditori e persino gestori di cinema, costretti dalla sua cosca mensilmente a pagare il pizzo?
Come pensa che si senta un’intera regione, il cui sviluppo è soffocato dalla presenza mafiosa sul territorio e nelle istituzioni?
Come pensa che sia sentito un bambino di 12 anni tenuto prigioniero in un maneggio proprio nel suo paese e poi sciolto nell’acido per punire il padre pentito?
Glielo dico io, usando le sue stesse parole: tutti “sono stati cambiati dalla sofferenza, istupiditi da consuetudini che si ripetono per anni ininterrottamente sempre uguali, sono diventati i malconci residui del contesto originario, non saprebbero neanche leggere la realtà esterna che si è nel frattempo determinata".
Zombie, siamo diventati tutti zombie in Sicilia, perché la mafia è dappertutto e ci stiamo convincendo che sia l’ordine naturale delle cose.
E allora, caro (si fa per dire) signor mafioso di merda, le comunico che me ne fotto delle sofferenze inflitte ai mafiosi dal 41 bis e le rivolgo un invito: la smetta di fare la vittima e l’avvocato difensore dei poveri mafiosi torturati e se ne vada affanculo. Con i suoi complici che stanno a Villabate, con quelli che stanno a Palermo e con quelli fungibili a lei che stanno a Roma.
venerdì 5 novembre 2010
Napoleone Bonaparte
Ora io dico, se tu incontri alle tre di notte, in una strada scarsamente illuminata, ferma sotto un lampione, una signorina in calze a rete, tacchi a spillo, labbra a canotto eccetera, e lei ti dice di essere la figlia della regina d’Inghilterra, i casi sono due: o tu sei un pollo e ci credi (e in questo caso non ti affiderei nemmeno l’amministrazione di un piccolissimo condominio di due soli appartamenti), oppure sei normale e, sghignazzando, le schiaffi una mano sul culo e rispondi: “Sèeeee, e io sono Napoleone Bonaparte”.
Effettivamente, ci sarebbe anche una terza possibilità: che tu sia convinto di essere veramente Napoleone Bonaparte.
Effettivamente, ci sarebbe anche una terza possibilità: che tu sia convinto di essere veramente Napoleone Bonaparte.
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