Da quando, un anno fa circa, mi regalarono un giallo di Fred Vargas, questa scrittrice francese e la sua scrittura vivace, intrigante, ironica e intelligente sono diventate per me qualcosa di cui non posso fare a meno. Per fortuna leggo in francese, altrimenti avrei dovuto accendere un mutuo. In Francia un tascabile (edizioni J’ai lu) di Fred Vargas costa fra 5 e 8 euro; in Italia i libri di questa scrittrice (edizioni Einaudi, quindi Berlusconi) vanno da un minimo di 12 fino a 18 euro come se niente fosse: cioè uno al prezzo di due o addirittura tre. Già, perché in Francia e a prescindere che ci sia un governo di destra o di sinistra, nessuno o quasi dubita del fatto che la cultura sia una sorta di bene inalienabile, che debba essere accessibile a tutti e che rappresenti una tutela per la democrazia.
Il preambolo della “Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino”, redatta nel 1789 e da allora perno su cui ruotano la Costituzione francese e le più avanzate carte costituzionali di altri Paesi, lo dice chiaramente fin dalle sue prime parole: “I Rappresentanti del Popolo Francese, costituiti in Assemblea Nazionale, considerando che l’ignoranza, l’oblio o il disprezzo dei diritti dell’uomo sono le uniche cause delle sciagure pubbliche e della corruzione dei governi…”. L’ignoranza come causa prima dei mali peggiori di un Paese. E ne sono talmente convinti che da tempo immemorabile la politica dei prezzi dei libri è stata orientata in questo senso: i “livres de poche”, invenzione tutta francese, pur essendo apparsi ufficialmente sotto questo nome nel 1953, c’erano già dagli inizi del secolo. Tascabili non solo per la rilegatura e le dimensioni che consentivano di metterli in tasca, ma soprattutto – così mi piace immaginare, anche se si tratta di un’interpretazione tutta mia dello spirito da cui nascevano – perché si potevano pagare con i pochi spiccioli che stanno in tasca. Ieri come oggi, grazie alla legge Lang del 1981 (recentemente aggiornata, ma rimasta uguale nella sostanza) che stabilisce per i libri un prezzo fisso di vendita stampato sulla copertina – e non, dunque, appesantito da pecette varie che si accumulano una sull’altra come accade in Italia – e soprattutto uno sconto massimo del 5% che tutela i piccoli editori dalle furbate dei grandi i quali, avendo maggiori margini di manovra, potrebbero altrimenti effettuare sconti maggiori e alterare il mercato. Quando, un paio di anni fa, due deputati della maggioranza – uno del Nc e l’altro dell’Ump, il partito di Sarkozy - hanno provato a proporre degli emendamenti che avrebbero favorito le multinazionali e minacciato (come denunciato all’unisono da tutte le categorie interessate, dagli scrittori ai librai agli editori) “gli equilibri del mercato del libro, oltre che la diversità della creazione e dell’edizione francese”, persino due ministre di peso del governo di centrodestra – quella della Cultura e la sua collega dell’Economia - hanno detto che non se ne parlava. E non solo i due parlamentari lobbisti non l’hanno avuta vinta, ma qualche tempo dopo, in seduta notturna e all’unanimità, il Senato francese ha approvato una norma che estendeva la legge Lang anche al mercato editoriale digitale.
In Italia invece la legge sul libro l’hanno fatta, nel silenzio quasi generale (eccezion fatta per gli addetti ai lavori), l’estate scorsa, nella canicola di luglio, ed è mossa da uno spirito totalmente opposto a quella francese. Anzi, per dirla tutta, sembra proprio essere l’ennesima legge ad personam. Primo firmatario, giusto per non farci mancare niente nell’èra dell’inciucismo sconfinato, il parlamentare del Pd Ricky Levi, che ha spacciato la sua norma per una tutela delle piccole librerie contro lo strapotere della grande distribuzione e invece sembra aver cucito l’ennesimo abitino su misura per Silvio Berlusconi. La legge infatti, formalmente, vieta ai librai di effettuare sconti superiori al 15% e questo potrebbe oggettivamente apparire come una protezione per i piccoli librai che non possono permettersi gli stessi sconti dei supermercati, ma c’è un “ma” grande quanto una libreria a tre piani e cioè che gli editori potranno fare promozioni per tutto l’anno (a parte il mese di dicembre) e senza alcun limite percentuale. Tradotto: i grandi potranno, i piccoli resteranno schiacciati.
E infatti i piccoli – centinaia fra editori e librai - si sono incazzati, si sono riuniti in gruppo dandosi il nome di “Mulini a vento” e hanno spiegato all’onorevole Levi (peraltro autore della cosiddetta legge “ammazza blog”, sempre perché in Italia ormai la moda è diventare più fascisti dei fascisti), che aveva sostenuto di avere “trovato il sostegno della stragrande maggioranza degli operatori, grandi e piccoli, librai ed editori, del settore librario”, come la sua creatura, nata con l’obiettivo di mettere ordine, “di fatto cristallizza dei vantaggi spropositati per le grandi case editrici e le librerie di catena”. Spiegazione dettagliata in tre punti:
“1) lo sconto del 15% permette di mantenere una buona redditività alle librerie di catena mentre porta alla soglia della perdita la piccola libreria indipendente, che dunque non può farlo;
2) che il piccolo medio editore, avendo tirature limitate, non può permettersi di fare promozioni con sconti addirittura superiori al 15%, perché si mangerebbe tutto il suo già piccolo margine, mentre la grande casa editrice grazie a tirature alte può fare sconti maggiori senza andare in perdita (anche perché spesso ha già provveduto a fissare prezzi alti in previsione dei futuri sconti);
3) la norma che prevede che le promozioni possano essere fatte solo dagli editori, mette loro in mano un’arma micidiale: si dice infatti che tutte le librerie devono essere informate e hanno facoltà di non aderire. Ma non si dice da nessuna parte che il maggiore sconto offerto dalla casa editrice alla libreria debba essere uguale per tutti (perché un grosso gruppo editoriale non dovrebbe favorire le sue librerie, se la legge glielo consente?)”
I Mulini a vento hanno anche fatto notare che “in Francia e in Germania ci sono da anni leggi che limitano o vietano drasticamente lo sconto e le promozioni, con ottimi risultati non solo per l’intera filiera del libro ma anche per la cultura (e senza danni per il lettore)” e che “se nessuno può fare sconti non ci sarà più bisogno di farli. Se nessuno potrà fare sconti il prezzo fisso dei libri diventerà elemento di concorrenza ad armi pari e i prezzi scenderanno”.
La legge ovviamente è passata senza tenere conto di queste considerazioni e, come se non bastasse, assistiamo allo sperpero di denaro pubblico per uno spot ad personam targato Presidenza del consiglio dei Ministri. Lo avete sentito in radio o visto in tv? Duemilioni e quattrocentomila euro hanno speso per spiegare in radio, in televisione, via web e sui giornali che leggere fa bene ed è il cibo della mente. Ma il sospetto che sia solo cibo per la panza (di Berlusconi, ça va sans dire) è forte. Non foss’altro che per un calcolo un po’ statistico e un po’ della serva: che se lui è proprietario di 8 case editrici su dieci (Einaudi, Mondadori, Electa, Le Monnier, I classici del giallo, I classici Disney, I classici Urania, Il Mulino, Paperino, Paperinik, Sperling&Kupfer, più un’infinità di altre minori), peraltro più note delle altre che non hanno abbastanza soldi per fare pubblicità martellanti, è molto probabile che i libri più venduti saranno i suoi.
Insomma, con i soldi nostri la Presidenza del Consiglio dei Ministri ha pagato uno spot non per incentivare la lettura, ma per favorire ulteriormente la vendita dei libri del presidente del Consiglio dei Ministri.
Perché se davvero avessero avuto un obiettivo nobile, avrebbero potuto fare altro. Per esempio. Quanto fa duemilioni e quattrocentomila euro diviso quindici (che potremmo assumere come prezzo medio di un libro)? Fa centosessantamila libri. Che, per esempio, il governo avrebbe potuto comprare (magari facendo il gesto elegante di evitare le case editrici del padrone) e regalare alle biblioteche. Oppure che il governo avrebbe potuto comprare (come sopra) e regalare a 160.000 cittadini italiani che ne avessero fatto richiesta, magari esibendo una fotocopia della dichiarazione dei redditi per dimostrare che un libro è un lusso che non possono permettersi. Oppure, perfino, senza nemmeno chiedergliela la dichiarazione dei redditi, ma a sorteggio. Chissà che qualche animale pieno di soldi, trovandosi fra le mani un libro, invece di pulircisi il culo come farebbe Bossi con la bandiera italiana, non si incuriosisca e cominci a leggere riuscendo persino a rendersi conto di quali siano le cose importanti della vita. Ma, già, questo – che a qualcuno si attivi il cervello – una dittatura non può permetterlo.
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