E’ già un po’ che il futuro è sparito dai nostri discorsi, anni, forse decenni. Futuro come forma verbale, intendo: lentamente e subdolamente radio e televisione hanno cominciato a parlare solo al presente per abituarci al fatto che il futuro, inteso come prospettiva di vita – lavoro, famiglia, figli, qualche spicciolo da mettere da parte per uno sfizio -, non ci sarebbe più stato. Che il futuro era già passato o, al massimo, presente.
Ma da oggi non c’è più neanche il presente. Da due giorni ascolto con raccapriccio le notizie sulla scomparsa di Yara, la ragazzina di 13 anni di Brembate, di cui si è persa ogni traccia da quando, venerdì scorso, è uscita da casa per andare poco più in là, al palazzetto dello sport, per allenarsi.
Le ascolto con raccapriccio, non soltanto per la preoccupazione e i pensieri terribili che ti vengono in testa in questi casi, ma soprattutto perché tutti i giornalisti di ogni radio o tv – che è probabile leggano pedissequamente la stessa notizia di agenzia -, da tre giorni hanno eliminato anche il presente e ci dicono che Yara era brava a scuola, che era una promessa della ginnastica ritmica, che nella sua vita non c’erano ombre.
Yara non è morta. Perché mettere un’ipoteca così pesante non dico sul suo futuro, ma persino sul suo presente? E se fosse stata assassinata non lei ma la sua innocenza, perché pensare che genitori affettuosi, insegnanti premurosi, allenatori attenti e una schiera di psicologi non potranno aiutarla a riprendersi la sua vita pulita?
Così si getta la spugna, non si combatte, si vive solo il qui ed ora e finirà che – dopo avere smesso di cercare il lavoro – non cercheremo più nemmeno le ragazzine scomparse. E ci sembrerà normale.
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