domenica 30 ottobre 2016

Un film dell'orrore


La storia non era credibile: due amici che passeggiano per strada nella notte americana, un uomo che sbuca da una traversa, punta una pistola contro uno dei due, gli dice “ora ti ammazzo” e fa fuoco; nemmeno il tempo di sbiancare per la paura, nemmeno il tempo di farsi una risata credendolo uno scherzo.
Erano gli anni Settanta: un ragazzo bello come il sole rientrava sconvolto da quello che avrebbe dovuto essere il suo viaggio del secolo, lo raccontava ai suoi amici, ma a quel tempo per noi quella storia non era credibile. Ad ogni parola, sembrava che aggiungesse al racconto qualche strato di orrore, come si fa nei film, per non far calare l’attenzione, per tenere il pubblico con il fiato sospeso. Poi però finisce il secondo tempo e te ne vai a casa: famiglia da salutare, cani e gatti da accarezzare, compiti da fare, la compagna in difficoltà da aiutare nella versione di latino, il panino con lo zucchero o quello con la Nutella che è ancora una novità. La tua realtà contro il racconto incredibile che resta fuori, lontano. Come l’America, “dall’altra parte della luna”: finisce il film e la cattiveria non ci può toccare, resta fuori dalla porta di casa.
Poi giri pagina, ti trovi in Italia, quarant’anni dopo, e il film dell’orrore ce l’hai a casa, incarnato da un sindaco con un nome un po’ da topo dei cartoni animati e un po’ da boss italoamericano in doppiopetto gessato, protagonista di qualche miniserie televisiva, che lancia messaggi da mafioso vero. E non sei nemmeno in Sicilia: sei nel profondo Nordest. Qui abbiamo un poligono di tiro e “il più alto numero di porto d’armi di tutta la regione Veneto” minaccia Joe Formaggio, sindaco di Albettone.  Ce l’ha con gli immigrati, “i negri”. Lui è già oltre, un passo avanti il livello di cattiveria dopo il quale pensavamo non ci potesse essere più niente: e infatti avverte il prefetto che se gli manda i profughi “le barricate di Gorino passeranno in secondo piano”. E, giusto per essere certo che si capisca, senza nemmeno darci il tempo di sbiancare, spara: “Da noi si rischia la pelle”.
Non è credibile questa storia, non può essere vera. Pensi che sia l’invenzione di un mitomane, di uno che magari si è fatto qualche acido di troppo, come in quella lontana storia americana, e invece è vera come lo era quella che ti sembrava incredibile: la cattiveria è vera e concreta. E allora ti chiedi com’è successo, ti guardi il corpo pieno di lividi e non ti ricordi dove hai sbattuto, conti decine di ferite sanguinanti sulle mani e sulle braccia e non riesci a ricordare quale coltello te le ha inferte e perché.
Quand’è che abbiamo smesso di subire la cattiveria dell’emigrazione e abbiamo cominciato ad essere noi i cattivi? Quand’è che abbiamo smesso di aiutare i nostri compagni di vita a fare la versione e di camminare insieme a loro prendendoli per mano? Quand’è che il nostro film nazionale è diventato un film dell’orrore?

mercoledì 12 ottobre 2016

La via giudiziaria al sindacalismo

-->
Io un vago sospetto rispetto all'intera categoria già lo avevo, ma finalmente l'hanno certificato anche i magistrati: la padrona è stronza. Cioè, non l'hanno detto così esplicitamente, ma il concetto è chiaro. Non è la via giudiziaria al socialismo, però poco ci manca. Insomma, siccome di socialismo in questo Paese non se ne vede l’ombra, ma nemmeno di “semplice” democrazia, da quando c’è un governo che fa le leggi a favore dei padroni e contro i lavoratori, a rendere giustizia, letteralmente, agli operai ci hanno pensato i giudici. Che hanno preso di peso la suddetta padrona e l’hanno mandata in pensione. Diciamo che è la via giudiziaria al sindacalismo.
La signora in questione, cavaliera del lavoro di quelli che si spaccano il culo (a proposito, ma non sarebbe il caso di toglierglielo questo titolo che offende i lavoratori veri e anzi di sopprimerla quest’ipocrita onorificenza?), si chiama Maria Cristina Gilardoni, ha 83 anni ed è – anzi, era – la capa della Gilardoni Raggi X di Mandello, un’azienda che produce macchinari per aeroporti e ospedali.
Ebbene, la signora - senza nemmeno bisogno di casse integrazioni, mobilità, licenziamenti e jobs act vari (roba da far morire d’invidia Renzi) - era riuscita a ridurre da 209 a 162 i dipendenti che non ne potevano più di aggressioni fisiche e psichiche e avevano preferito licenziarsi, pur senza avere alternative, piuttosto che continuare a subire insulti, minacce, demansionamenti, procedimenti disciplinari immotivati, lancio di oggetti e botte. E piuttosto che convivere con la depressione che a quanto pare nel comune di Mandello, proprio a causa dei metodi criminali della padrona, ha assunto dimensioni da epidemia tanto da far preoccupare pure il sindaco.
Dopo decine di proteste sindacali e denunce penali, una magistrata di Milano, Elena Riva Crugnola, ha contestato alla cara nonnina il reato di maltrattamenti e l’ha sollevata dall’incarico con effetto immediato, mettendo a dirigere l’azienda il figlio della vecchia strega che era già stato direttore generale e si era dimesso perché non condivideva i modi di fare della madre, accusata anche di “distruzione di valore d’impresa” in seguito alla denuncia di un nipote/socio che pure lui non ne poteva più.
Insomma la vecchia malvagia è riuscita in “un’impresa” davvero difficile: rendersi odiosa agli occhi dei lavoratori, dei sindacati, del figlio, del nipote, del sindaco e del paese intero. Dovrebbero darle una benemerenza. Ah, vero, già gliel’avevano data. E sapete chi gliel’aveva conferita fra gli applausi e la soddisfazione del mondo imprenditoriale? Giorgio Napolitano: quello a cui sta sul culo la Costituzione della Repubblica democratica fondata sul lavoro.

martedì 4 ottobre 2016

Il racket delle riforme avvelenate


Lettera a una mamma, da mamma a mamma, o da figlia a mamma, da mamma a nonna, fai tu, basta che mi ascolti: te devo di’ ‘na cosa. Perciò mettiti comoda e apri bene le orecchie. Tu hai un figlio, giusto? Certo, sennò che mamma saresti. Bene. Anch’io ho un figlio. Mia sorella ha una figlia. Ci sono mamme che di figlie e figli ne hanno due e anche tre (ché li hanno fatti prima che la ministra Lorenzin ci facesse passare la voglia). Non so se te ne sei accorta, ma l’Italia è piena di mamme. E quindi di figli. E quindi di mamme preoccupate per il futuro dei figli. Pure se hanno novant’anni e i loro figli ne hanno settanta – e dunque a spanne direi che hanno vissuto quando ancora non era passato di moda lavorare e poi andare in pensione -, le mamme sono preoccupate per definizione del futuro dei figli. E però ci sono mamme preoccupate per il futuro dei loro figli e mamme preoccupate per il futuro di tutti i figli di tutti. Io sono fra queste. Sì, lo so: chi te lo fa fare, pensa per te, coltiva il tuo orto. Gnafò. Io mi preoccupo per il futuro di tutti i figli di tutti. E perciò mi preoccupo quando mi dici che non sai ancora cosa farai alle prossime elezioni perché a tuo figlio hanno promesso un lavoro (e lo dici come se niente fosse, dando per assodato che la raccomandazione esista in natura). Dici che sono vendicativi. E ho idea che tu sappia benissimo cosa farai nell’urna, per evitare la vendetta.
Anche se non è detto che la tua scelta vada a buon fine: perché poi può essere che ci sia un figlio più figlio di qualcuno che conosce qualcuno e allora – malgrado tu abbia prostituito il tuo voto – tuo figlio se la pija in saccoccia. Il problema è che a pijassela in saccoccia, per colpa di tuo figlio e del tuo voto, saranno tutti gli altri figli: quelli a cui avrai regalato questo governo, che regalerà loro le buone scuole che gli cadono addosso, le leggi sul lavoro fatte apposta per licenziare, le operazioni di cataratta da pagare quando saranno diventati vecchi.
Ma da figlia ti dico anche un altro paio di cose che forse non immagini. La prima è che non è detto che tuo figlio ti chiederebbe un sacrificio simile. La seconda è che non è detto che tuo figlio voglia “vincere” un posto di lavoro per demerito, tuo e suo. Magari – ci hai pensato? – il lavoro lo vuole perché è bravo, oppure preferisce non averlo se deve pagare in dignità. Esistono, sai? Sembra strano ma esistono (e meritano rispetto) figli che la loro vita se la vogliono guadagnare per merito, che non si vogliono piegare. A volte grazie a genitori che li hanno allevati nella filosofia della schiena dritta, altre per reazione a genitori un po’ troppo inclini agli inchini.
Ti ricordi Libero Grassi? Ti ricordi che ai suoi tempi i commercianti non denunciavano i mafiosi che chiedevano il pizzo e che lui fu ammazzato perché fu lasciato solo, unico a ribellarsi al racket delle estorsioni? “Sono vendicativi”, dicevano. E per paura delle ritorsioni pagavano. Poi qualcuno ha cominciato a capire. E così è successo, per esempio, che qualche giorno fa a Corleone (a Corleone!) un grappolo di mafiosi di merda sia stato arrestato perché otto imprenditori hanno ammesso di avere pagato il pizzo. Pensaci: si può dire no al racket delle estorsioni e si può dire no al racket delle riforme avvelenate e alla paura delle ritorsioni. Io il 4 dicembre dirò no al racket delle riforme avvelenate che si nutre di minacce e ricatti. Lo farò per mio figlio, ma anche per il tuo e per quelli di tutti gli altri. Altrimenti, se la pijieranno in saccoccia tutti - il mio, il tuo e tutti gli altri - per i prossimi cinquant’anni. Quindi anche i tuoi nipoti. Pensaci: da mamma e da nonna.

domenica 2 ottobre 2016

Barbarie


Io per fortuna da bambina leggevo i quotidiani, lenzuola di carta con cui mi apparecchiavo un letto per terra nello studio di mia madre e mi ci stendevo sopra a pancia ingiù, perché erano troppo grandi per tenerli in mano. E però c’erano pure le riviste. Abiti firmati, mobili di pregio, gioielli accecanti, i servizi di piatti intarsiati d’oro, favole patinate. Realtà e regalità. Nella realtà le “ammazzatine” e i delitti d’onore, nella regalità la vita da fiaba, il sogno della principessa. O forse no. Nella realtà della regalità c’era anche l’incubo della principessa ripudiata, la “principessa dagli occhi tristi”, anni Sessanta, molto prima di Lady D: Soraya Esfandiari Baktiari cacciata dallo scià di Persia Mohammad Reza Pahlavi (che pure dicono l’amasse), in virtù di una anche allora anacronistica legge salica, perché incapace di dargli un figlio maschio, un erede al trono che poteva e doveva essere soltanto di sesso maschile. Incapace lei, anche se – come tutti sanno – a determinare il sesso del nascituro sono i cromosomi dell’uomo; ma ad essere cacciate come esseri inutili, come “colpevoli”, erano le donne. Soraya dopo essere stata ripudiata fece una vita di merda, lussuosa ma di merda, alcol e antidepressivi che la portarono alla morte. Praticamente un femminicidio differito il suo, una quarantina d’anni dopo la cacciata.
Roba vecchia? Acqua passata? Come il delitto d’onore, no? Storie d’altri tempi. Per quanto, se pensiamo che il delitto d’onore in Italia è stato abrogato soltanto nel 1981 qualche domanda dovremmo porcela.
E infatti oggi due di quelle storie d’altri tempi sono riaffiorate dal passato e ci sono piombate sotto gli occhi dalle pagine dei quotidiani in tutta la loro concretezza e malvagità; e per venire fuori hanno scelto lo stesso giorno, quasi a volerci ricordare che non ne siamo usciti, che siamo ancora alla barbarie, che siamo sempre di più nella barbarie. Sono storie che ci parlano, ancora una volta, di violenze contro le donne e di uomini impotenti – come sono i mafiosi e quelli che vivono nel mito della virilità. A Catania (e quanto mi fa male dover parlare della mia terra) un marito giovane ha preso a calci e pugni sua moglie praticamente per tutto il periodo della gravidanza, perché colpevole di essere incinta di una femmina. “U masculu”, ci voleva “u masculu”: magari per seguire la carriera criminale del padre pregiudicato, l’erede al trono della devianza, “u masculu” da esibire con orgoglio, “u masculu” a cui insegnare che le femmine devono stare sottomesse. U masculu che può e deve tradire, se è vero masculu, ma non può subire l’affronto del tradimento. Affronto per il quale la “colpevole” può essere condannata a morte, onta da lavare col sangue. È successo a Palermo (e quanto mi fa male dover parlare della mia terra), dove dei vecchi mafiosi avevano decretato la pena capitale per la giovane moglie di un sodale ergastolano che secondo loro aveva un amante e li disonorava tutti, tutta la “famiglia”. Parlavano di rispetto, di dignità e di onore nelle intercettazioni che fortunatamente li hanno fermati in tempo. Cianciano di rispetto, dignità, onore e virilità i vecchi mafiosi di là, il giovane pregiudicato di qua; e progettano femmincidi i vecchi mafiosi di là, il giovane pregiudicato di qua: uomini incapaci di accettare che una donna decida della propria vita e capaci persino di attribuirle le “colpe” dei loro cromosomi. Convinti come sono di essere infallibili e superiori. Poveri, piccoli, esseri meschini; povere, piccole, grandi montagne di merda. Nella vita reale e in quella regale, nelle storie vere dei quotidiani e nelle fiabe delle riviste patinate. E non c’è niente da sognare.