Io per fortuna da bambina leggevo i quotidiani, lenzuola
di carta con cui mi apparecchiavo un letto per terra nello studio di mia madre
e mi ci stendevo sopra a pancia ingiù, perché erano troppo grandi per tenerli
in mano. E però c’erano pure le riviste. Abiti firmati, mobili di pregio,
gioielli accecanti, i servizi di piatti intarsiati d’oro, favole patinate.
Realtà e regalità. Nella realtà le “ammazzatine” e i delitti d’onore, nella
regalità la vita da fiaba, il sogno della principessa. O forse no. Nella realtà
della regalità c’era anche l’incubo della principessa ripudiata, la
“principessa dagli occhi tristi”, anni Sessanta, molto prima di Lady D: Soraya Esfandiari Baktiari cacciata dallo scià di Persia Mohammad Reza Pahlavi (che pure dicono
l’amasse), in virtù di una anche allora anacronistica legge salica, perché
incapace di dargli un figlio maschio, un erede al trono che poteva e doveva essere
soltanto di sesso maschile. Incapace lei, anche se – come tutti sanno – a determinare
il sesso del nascituro sono i cromosomi dell’uomo; ma ad essere cacciate come
esseri inutili, come “colpevoli”, erano le donne. Soraya dopo essere stata
ripudiata fece una vita di merda, lussuosa ma di merda, alcol e antidepressivi
che la portarono alla morte. Praticamente un femminicidio differito il suo, una
quarantina d’anni dopo la cacciata.
Roba
vecchia? Acqua passata? Come il delitto d’onore, no? Storie d’altri tempi. Per
quanto, se pensiamo che il delitto d’onore in Italia è stato abrogato soltanto
nel 1981 qualche domanda dovremmo porcela.
E infatti
oggi due di quelle storie d’altri tempi sono riaffiorate dal passato e ci sono
piombate sotto gli occhi dalle pagine dei quotidiani in tutta la loro concretezza
e malvagità; e per venire fuori hanno scelto lo stesso giorno, quasi a volerci
ricordare che non ne siamo usciti, che siamo ancora alla barbarie, che siamo
sempre di più nella barbarie. Sono storie che ci parlano, ancora una volta, di
violenze contro le donne e di uomini impotenti – come sono i mafiosi e quelli
che vivono nel mito della virilità. A Catania (e quanto mi fa male dover
parlare della mia terra) un marito giovane ha preso a calci e pugni sua moglie
praticamente per tutto il periodo della gravidanza, perché colpevole di essere
incinta di una femmina. “U masculu”, ci voleva “u masculu”: magari per seguire
la carriera criminale del padre pregiudicato, l’erede al trono della devianza,
“u masculu” da esibire con orgoglio, “u masculu” a cui insegnare che le femmine
devono stare sottomesse. U masculu che può e deve tradire, se è vero masculu,
ma non può subire l’affronto del tradimento. Affronto per il quale la
“colpevole” può essere condannata a morte, onta da lavare col sangue. È
successo a Palermo (e quanto mi fa male dover parlare della mia terra), dove dei
vecchi mafiosi avevano decretato la pena capitale per la giovane moglie di un sodale
ergastolano che secondo loro aveva un amante e li disonorava tutti, tutta la
“famiglia”. Parlavano di rispetto, di dignità e di onore nelle intercettazioni
che fortunatamente li hanno fermati in tempo. Cianciano di rispetto, dignità,
onore e virilità i vecchi mafiosi di là, il giovane pregiudicato di qua; e
progettano femmincidi i vecchi mafiosi di là, il giovane pregiudicato di qua:
uomini incapaci di accettare che una donna decida della propria vita e capaci
persino di attribuirle le “colpe” dei loro cromosomi. Convinti come sono di
essere infallibili e superiori. Poveri, piccoli, esseri meschini; povere,
piccole, grandi montagne di merda. Nella vita reale e in quella regale, nelle
storie vere dei quotidiani e nelle fiabe delle riviste patinate. E non c’è
niente da sognare.
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