Se non ho capito male e, almeno, così era facile dedurre, il capomafia Giovanni Arena, superboss del clan Santapaola, latitante da 18 anni sempre all'interno del palazzo di cemento del quartiere catanese di Librino, lo ha arrestato lui a mani nude. Come, lui chi? Lui! SuperRaf, Nembo Stankid, Stancanellix, Stancanelliana Jones, l'Eroe dei due monti (no, non è che l'ho scritto come lo pronuncerebbe lui, volevo dire proprio monti: l'Etna e l'Altesina, la montagna più vicina a casa sua): Raffaele Stancanelli, sindaco di Catania e ormai ex senatore del Pdl.
Lo stesso che ieri sera, con una spesa di cinquemila euro di cui la città non aveva proprio bisogno, ha comunicato urbi et orbi, durante una seduta comunale appositamente convocata, che si sarebbe dimesso da senatore per restare a fare il sindaco di Catania.
E, appunto, per spiegare che non poteva lasciare il lavoro a metà, l'agente all'Havana di Raffaele Lombardo, armato di pennelli, tavolozza e cavalletto, ha dipinto una città dove splende giallo il sole, il cielo è sempre azzurro e terso, i bambini corrono felici per i prati verdi, le fabbriche grigie pullulano di tute blu, gli autobus arancione dell'Amt scorrazzano a tutta birra copiosi indisturbati dalle auto e pieni di passeggeri sorridenti e, infine - come da kit del fascista nero perfetto - si dorme con le porte aperte perché la criminalità è stata sconfitta. Unico neo, quei cattivacci dei comunisti che lo contestano con le loro bandiere rosse.
Insomma e in estrema sintesi, ieri sera durante la seduta del consiglio comunale Raffaele Stancanelli, per dire che non si dimetteva da sindaco, ha raccontato una serie di minchiate in fila che nemmeno Silvio Berlusconi, altrimenti universalmente noto come "le bouffon de l'Europe". Ecco: lbuffon d Rgalbiutò.
Praticamente l'unica cosa che non ha detto di aver fatto è di aver aperto con le mani su indicazione divina le acque del Mar Rosso e dev'essere per questo che ha deciso di restare: quella è la seconda puntata. Intanto qualche settimana fa, quando si sono aperte le cataratte del cielo allagando per mancata manutenzione il villaggio Santa Maria Goretti, è stato lui a rischiare di essere aperto dagli abitanti del rione. Ma lui, Lui, ieri sera in consiglio comunale ha detto di averli affrontati senza tema (ma con un problema grande quanto un intero quartiere) e, I suppose, sconfitti. Così come ha raccontato di essere diventato "credibile", di aver sanato il buco di bilancio del quale per l'ennesima volta ha ribadito di non essere responsabile (ma chi l'ha creato, Umberto Scapagnini, è suo complice di partito e lui, sempre Lui, mentre il napoletano si dava alle spese pazze era assessore regionale agli Enti locali: cioè avrebbe dovuto vigilare e invece ha permesso che le casse del comune venissero svuotate completamente), di avere risollevato le partecipate, di avere rimesso in sesto l'Amt, di avere pagato tutti i creditori, di avere risolto tutte le vertenze di lavoro, di avere eliminato la spazzatura dalle strade di Catania e tutta una serie di cose che manco Mandrake.
Ah, alla fine ha ringraziato l'opposizione: quella che sta al governo regionale con il suo datore di lavoro. Per non aver fatto opposizione, ça va sans dire. Ma questo è un merito che Stancanelli non può prendersi: hanno fatto tutto da soli.
Ora, io è da ieri sera che ci penso: ma di quale città parlava Stancanelli? Non è che io non me ne sono mai accorta e in realtà esiste una Catania di sotto e una Catania di sopra? No, perché vorrei informarlo che non solo io (che appartengo alla categoria di quelli che lo contestano brandendo le bandiere rosse), ma la gran parte dei cittadini (persino quelli che lo hanno votato) e tutti i report nazionali, sia che parlino di lavoro, di raccolta differenziata dei rifiuti, di microcriminalità o di tutela dell'ambiente, parlano di una città al collasso, di una città invivibile. Per dirla tutta: di una città di merda. E la sensazione è che quella di cui parla il primo cittadino ex senatore non sia nemmeno una città invisibile, ma proprio inesistente. Come il suo sindaco.
sabato 29 ottobre 2011
martedì 25 ottobre 2011
Galli da combattimento
Posso dire una cosa anch'io? Mi sono stufata e mi sento offesa da tutti coloro che si sentono offesi dalla cosiddetta risata di Sarkozy e si riempiono con virile e militaresco orgoglio la bocca, la mente e il petto di parole e concetti come patria e onore.
Io semmai mi sento offesa dal fatto che abbiamo un presidente del consiglio che attira su di sé - e, dunque, purtroppo, per la proprietà transitiva anche su di noi - la derisione del mondo e che possa essere oggetto di derisione persino da parte di uno come Sarkozy.
Dopo di che, ci sono due o tre cose che mi provocano il disgusto per come tutta questa faccenda è stata gestita.
La prima: è probabile che sia stata una mia distrazione, ma ho la sensazione di aver sentito sulla vicenda soltanto pareri maschili, come se il contenzioso riguardasse due galli da combattimento, il gallo della Gallia e il verdoniano Gallo Cedrone, e come se fosse che al primo gli italici "viri" - sentendosi vicini a B. per solidarietà di genere - non perdonassero di essere riuscito, malgrado l'età non più giovane, addirittura di procreare (ulteriore segno di virilità), mentre a quell'altro ormai gli sta su solo con il lievito Bertolini.
La seconda: ancora una volta le donne non contano, anche se si tratta del fin troppo cazzuto capo di una delle più potenti cancellerie del mondo. Altrimenti non si spiega perché si parli della cosiddetta risata di Sarkozy (ci tornerò sulla cosiddetta risata), fingendo di ignorare che a quella conferenza stampa durante la quale i giornalisti chiedevano conto dell'incontro con il premier italiano c'era anche Angela Merkel e che il presidente francese e la cancelliera tedesca hanno avuto la stessa reazione.
La terza: quando si dice manipolare l'informazione negando persino l'evidenza. In pratica tutti parlano del famoso video della conferenza stampa di Merkel e Sarkozy, ma ho il sospetto che nessuno l'abbia visto e men che meno sentito e la quasi certezza che tutta la stampa nazionale stia giocando molto sull'equivoco. A partire, appunto, da quella cosiddetta risata di Sarkozy che non era affatto una risata. Le cose, in estrema sintesi, sono andate così: la giornalista ha chiesto ai due se fossero rassicurati dal colloquio con Berlusconi sulla capacità dell'Italia di uscire dalla crisi e fare le riforme, i due si sono guardati scambiandosi un sorriso imbarazzato per la serie "e ora che cazzo gli raccontiamo?" (semmai il punto è proprio questo: che due a quel livello non potevano non aspettarsi quella domanda e farsi cogliere impreparati, ma avrebbero dovuto ingoiare un manico di scopa e dare di quelle risposte in cui danno il meglio di sé, dicendo tutto e il contrario di tutto) ed è stato in quel momento che è esplosa la risata, non di Merkel e Sarkozy, ma dei giornalisti di tutto il mondo. Dopo di che Sarko si è ripreso e ha recitato la formula di rito: "Confidiamo sul senso di responsabilità dell'insieme delle autorità italiane, politiche, finanziarie ed economiche". E, anzi, volendo analizzare con attenzione parole, sguardi e gesti, proprio in quell' "insieme delle autorità..." si potrebbe cogliere un appello a tutti gli altri, perché lo tengano d'occhio.
La quarta: ancora una volta si è voluto cercare un "casus belli" per spostare l'occhio di bue ai lati della scena. Perché ieri tutti parlavano di questo presunto affronto all'italianità da lavare con il sangue proprio mentre al centro della scena si svolgeva un consiglio dei ministri in cui come sempre Berlusconi e Bossi si tenevano reciprocamente per le palle: il primo in quanto proprietario della Lega (per averla riempita di soldi e garantita con fidejussioni) e persino del suo simbolo, il secondo con il solito minuetto "stacco la spina/non stacco la spina" i cui effetti sono, rispettivamente, crescita di elettori e crescita di denaro nelle casse leghiste. Uno spettacolo che ti fa solo venire da piangere, perché sai che il tuo Paese è nelle mani di questi delinquenti e che non se ne uscirà mai perché non c'è nessun garante della Costituzione che si alzi dalla sua sedia per andarli a prendere a ceffoni.
E torno alla cosiddetta risata. Ebbene sì, lo confesso: nel momento in cui è esplosa la risata (vera) della stampa internazionale, nello stesso identico istante anch'io sono scoppiata a ridere. Ma la risata non sempre è sinonimo di divertimento: a volte può anche indicare disperazione. Chi di noi non ha sguinzagliato una risata di fronte alla morte delle persone più care (del tuo Paese, della democrazia), un istante prima che un dolore insostenibile rischiasse di fargli esplodere il cuore?
Io semmai mi sento offesa dal fatto che abbiamo un presidente del consiglio che attira su di sé - e, dunque, purtroppo, per la proprietà transitiva anche su di noi - la derisione del mondo e che possa essere oggetto di derisione persino da parte di uno come Sarkozy.
Dopo di che, ci sono due o tre cose che mi provocano il disgusto per come tutta questa faccenda è stata gestita.
La prima: è probabile che sia stata una mia distrazione, ma ho la sensazione di aver sentito sulla vicenda soltanto pareri maschili, come se il contenzioso riguardasse due galli da combattimento, il gallo della Gallia e il verdoniano Gallo Cedrone, e come se fosse che al primo gli italici "viri" - sentendosi vicini a B. per solidarietà di genere - non perdonassero di essere riuscito, malgrado l'età non più giovane, addirittura di procreare (ulteriore segno di virilità), mentre a quell'altro ormai gli sta su solo con il lievito Bertolini.
La seconda: ancora una volta le donne non contano, anche se si tratta del fin troppo cazzuto capo di una delle più potenti cancellerie del mondo. Altrimenti non si spiega perché si parli della cosiddetta risata di Sarkozy (ci tornerò sulla cosiddetta risata), fingendo di ignorare che a quella conferenza stampa durante la quale i giornalisti chiedevano conto dell'incontro con il premier italiano c'era anche Angela Merkel e che il presidente francese e la cancelliera tedesca hanno avuto la stessa reazione.
La terza: quando si dice manipolare l'informazione negando persino l'evidenza. In pratica tutti parlano del famoso video della conferenza stampa di Merkel e Sarkozy, ma ho il sospetto che nessuno l'abbia visto e men che meno sentito e la quasi certezza che tutta la stampa nazionale stia giocando molto sull'equivoco. A partire, appunto, da quella cosiddetta risata di Sarkozy che non era affatto una risata. Le cose, in estrema sintesi, sono andate così: la giornalista ha chiesto ai due se fossero rassicurati dal colloquio con Berlusconi sulla capacità dell'Italia di uscire dalla crisi e fare le riforme, i due si sono guardati scambiandosi un sorriso imbarazzato per la serie "e ora che cazzo gli raccontiamo?" (semmai il punto è proprio questo: che due a quel livello non potevano non aspettarsi quella domanda e farsi cogliere impreparati, ma avrebbero dovuto ingoiare un manico di scopa e dare di quelle risposte in cui danno il meglio di sé, dicendo tutto e il contrario di tutto) ed è stato in quel momento che è esplosa la risata, non di Merkel e Sarkozy, ma dei giornalisti di tutto il mondo. Dopo di che Sarko si è ripreso e ha recitato la formula di rito: "Confidiamo sul senso di responsabilità dell'insieme delle autorità italiane, politiche, finanziarie ed economiche". E, anzi, volendo analizzare con attenzione parole, sguardi e gesti, proprio in quell' "insieme delle autorità..." si potrebbe cogliere un appello a tutti gli altri, perché lo tengano d'occhio.
La quarta: ancora una volta si è voluto cercare un "casus belli" per spostare l'occhio di bue ai lati della scena. Perché ieri tutti parlavano di questo presunto affronto all'italianità da lavare con il sangue proprio mentre al centro della scena si svolgeva un consiglio dei ministri in cui come sempre Berlusconi e Bossi si tenevano reciprocamente per le palle: il primo in quanto proprietario della Lega (per averla riempita di soldi e garantita con fidejussioni) e persino del suo simbolo, il secondo con il solito minuetto "stacco la spina/non stacco la spina" i cui effetti sono, rispettivamente, crescita di elettori e crescita di denaro nelle casse leghiste. Uno spettacolo che ti fa solo venire da piangere, perché sai che il tuo Paese è nelle mani di questi delinquenti e che non se ne uscirà mai perché non c'è nessun garante della Costituzione che si alzi dalla sua sedia per andarli a prendere a ceffoni.
E torno alla cosiddetta risata. Ebbene sì, lo confesso: nel momento in cui è esplosa la risata (vera) della stampa internazionale, nello stesso identico istante anch'io sono scoppiata a ridere. Ma la risata non sempre è sinonimo di divertimento: a volte può anche indicare disperazione. Chi di noi non ha sguinzagliato una risata di fronte alla morte delle persone più care (del tuo Paese, della democrazia), un istante prima che un dolore insostenibile rischiasse di fargli esplodere il cuore?
domenica 23 ottobre 2011
Calunnie a domicilio
Non più "caro", ma anzi, inutilmente dispendioso Il Fatto,
non sono un' "epistolocompulsiva", ma mi trovo costretta a scrivere per la terza volta in pochi mesi, e stavolta in via definitiva.
La prima, in quanto comunista, mi ero sentita offesa (come molti di noi) da un pezzo di Marco Travaglio che poi però alle proteste di molti di noi rispose scusandosi e ammettendo che in effetti avrebbe almeno dovuto distinguere fra certi dirigenti e i militanti; la seconda - dopo aver subìto per mesi un "non cale" scientifico durante la campagna elettorale, finalizzato a far credere che i comunisti non esistano, cosa che, per esempio, continua a fare l'impomatato pagato da La7 con il solo compito di cancellarci dai sondaggi e favorire qualcuno più funzionale al sistema - per protestare appunto contro questa cancellazione sistematica dei comunisti, che sembrava non fossero nelle piazze a manifestare, che non avessero candidati alle elezioni, che si fossero liofilizzati o che fossero stati ibernati. In quella seconda lettera annunciavo che non avrei più comprato "Il Fatto" e che il mio era un sentimento e una decisione comune a molti. Qualche giorno dopo il direttore Padellaro - bontà sua - mi fece mandare una risposta a sua firma in cui si preannunciava una sorta di inchiesta "risarcitoria" su quello che veniva definito "il ritorno della sinistra sinistra" (ho conservato la mail e posso produrla in qualunque momento). Siccome sono una fiduciosa, non avevo comunque smesso di acquistare "Il Fatto" perché pensavo che semmai qualcuno mi avesse risposto non lo avrebbe fatto in modo privato ma pubblicamente, sul giornale, e meritava di essere ascoltato; e siccome sono una fiduciosa non ho smesso di comprarlo volendo credere in quelle parole, per quanto private e che dunque non rappresentavano un impegno pubblico (e peraltro, sia detto fra molte parentesi, ho continuato a comprarlo malgrado ne colga l'essenza qualunquista e nonostante molti giornalisti del Fatto sconoscano totalmente l'uso della punteggiatura, cosa che mi fa venire l'orticaria, perché comunque apprezzavo lo sforzo di fare un giornale indipendente. Ah, a proposito: non so se sia una leggenda metropolitana, ma mi raccontano che un certo Palmiro Togliatti, comunista, quand'era direttore di Rinascita, controllava gli articoli per essere certo che non ci fossero errori di grammatica e di ortografia. E' quello che faccio anch'io, ogni volta che dirigo nel mio infinitamente piccolo un giornaletto di sezione, leggendomi gli articoli uno per uno, perché sono convinta che l'abitudine al rispetto delle regole - e dei propri interlocutori - discenda direttamente anche dall'abitudine a rispettare le norme della propria lingua)
Sto ancora aspettando l'inchiesta sul ritorno della "sinistra sinistra" (che, comunque, non se n'era mai andata, perché per quanto bastonati e pieni di lividi e per quanto la stampa abbia fatto di tutto per ignorarci, noi comunisti le nostre battaglie, nelle nostre città e nei luoghi di lavoro, abbiamo continuato a farle), ma soprattutto quello che continua a farmi male è che quelle rare volte che "Il Fatto" parla dei comunisti lo fa per denigrarli. L'ultima volta (ma proprio l'ultima, perché stavolta ho smesso davvero di comprare "Il Fatto") è stato ieri, sabato 22 ottobre, quando Maurizio Viroli ha preso a pretesto un pezzo in cui attaccava Berlusconi per attaccare i comunisti e dirne tutto il male possibile.
Io dal Fatto non mi aspettavo certo che fosse il mio "organo di partito" - ci mancherebbe! -, ma un minimo di onestà intellettuale e correttezza quelle sì. Perché, vedete, io che odio quelli del Pd, perché millantando un appellativo "di sinistra" con il loro operato gettano fango su quella che Padellaro definirebbe "sinistra sinistra" e perché in Sicilia puntellano il governo della mafia e delle clientele, quando ne parlo mi guardo bene dal generalizzare e dico "una parte" perché oggettivamente so che non tutti i dirigenti del Pd sono pessimi e soprattutto penso di capire quanta sofferenza possa esserci in una base fatta di persone per bene legata per affetto e tradizione al suo partito pur non condividendone quasi nessuna scelta.
Invece Il Fatto, nel suo odio anticomunista (la cui natura forse potrebbe essere materia di studio per uno psicanalista), dimentica di distinguere fra il comunismo italiano e le degenerazioni di altri comunismi e soprattutto dimentica - mi si perdoni il passaggio retorico - il tributo di vite umane dato dai comunisti in Italia alla guerra di Liberazione dal nazifascismo. Ora questo Paese è governato da un piduista, eversore ("assaltiamo il Palazzo di Giustizia di Milano"), frequentatore di mafiosi, evasore fiscale, corruttore, maniaco sessuale, stupratore di minorenni, eccetera, in gran parte proprio a causa della mancata opposizione di quelli che hanno rinnegato il comunismo perché hanno sentito l'odore (puzza di merda, per quanto mi riguarda) dei soldi e del potere. E voi ve la prendete con i comunisti?
Mi dispiace, ma io non ci sto. Non farò nessuna denuncia né richiesta di danno per le continue calunnie, perché io - comunista - difendo la libertà di stampa e di opinione fino alla morte, ma certo non sarò più così masochista da comprare un giornale che mi insulta. Voi del Fatto lo sapete cosa ci si compra in Sicilia (dove, per fortuna, almeno nei mercati la vita è meno cara) con un euro e venti centesimi? Due lattughe e qualche pomodoro, o una confezione di carote e un paio di uova. Vuol dire pranzo e cena per due giorni. No, francamente, pagare per farmi insultare a domicilio è un lusso che io - licenziata perché comunista - non posso permettermi.
non sono un' "epistolocompulsiva", ma mi trovo costretta a scrivere per la terza volta in pochi mesi, e stavolta in via definitiva.
La prima, in quanto comunista, mi ero sentita offesa (come molti di noi) da un pezzo di Marco Travaglio che poi però alle proteste di molti di noi rispose scusandosi e ammettendo che in effetti avrebbe almeno dovuto distinguere fra certi dirigenti e i militanti; la seconda - dopo aver subìto per mesi un "non cale" scientifico durante la campagna elettorale, finalizzato a far credere che i comunisti non esistano, cosa che, per esempio, continua a fare l'impomatato pagato da La7 con il solo compito di cancellarci dai sondaggi e favorire qualcuno più funzionale al sistema - per protestare appunto contro questa cancellazione sistematica dei comunisti, che sembrava non fossero nelle piazze a manifestare, che non avessero candidati alle elezioni, che si fossero liofilizzati o che fossero stati ibernati. In quella seconda lettera annunciavo che non avrei più comprato "Il Fatto" e che il mio era un sentimento e una decisione comune a molti. Qualche giorno dopo il direttore Padellaro - bontà sua - mi fece mandare una risposta a sua firma in cui si preannunciava una sorta di inchiesta "risarcitoria" su quello che veniva definito "il ritorno della sinistra sinistra" (ho conservato la mail e posso produrla in qualunque momento). Siccome sono una fiduciosa, non avevo comunque smesso di acquistare "Il Fatto" perché pensavo che semmai qualcuno mi avesse risposto non lo avrebbe fatto in modo privato ma pubblicamente, sul giornale, e meritava di essere ascoltato; e siccome sono una fiduciosa non ho smesso di comprarlo volendo credere in quelle parole, per quanto private e che dunque non rappresentavano un impegno pubblico (e peraltro, sia detto fra molte parentesi, ho continuato a comprarlo malgrado ne colga l'essenza qualunquista e nonostante molti giornalisti del Fatto sconoscano totalmente l'uso della punteggiatura, cosa che mi fa venire l'orticaria, perché comunque apprezzavo lo sforzo di fare un giornale indipendente. Ah, a proposito: non so se sia una leggenda metropolitana, ma mi raccontano che un certo Palmiro Togliatti, comunista, quand'era direttore di Rinascita, controllava gli articoli per essere certo che non ci fossero errori di grammatica e di ortografia. E' quello che faccio anch'io, ogni volta che dirigo nel mio infinitamente piccolo un giornaletto di sezione, leggendomi gli articoli uno per uno, perché sono convinta che l'abitudine al rispetto delle regole - e dei propri interlocutori - discenda direttamente anche dall'abitudine a rispettare le norme della propria lingua)
Sto ancora aspettando l'inchiesta sul ritorno della "sinistra sinistra" (che, comunque, non se n'era mai andata, perché per quanto bastonati e pieni di lividi e per quanto la stampa abbia fatto di tutto per ignorarci, noi comunisti le nostre battaglie, nelle nostre città e nei luoghi di lavoro, abbiamo continuato a farle), ma soprattutto quello che continua a farmi male è che quelle rare volte che "Il Fatto" parla dei comunisti lo fa per denigrarli. L'ultima volta (ma proprio l'ultima, perché stavolta ho smesso davvero di comprare "Il Fatto") è stato ieri, sabato 22 ottobre, quando Maurizio Viroli ha preso a pretesto un pezzo in cui attaccava Berlusconi per attaccare i comunisti e dirne tutto il male possibile.
Io dal Fatto non mi aspettavo certo che fosse il mio "organo di partito" - ci mancherebbe! -, ma un minimo di onestà intellettuale e correttezza quelle sì. Perché, vedete, io che odio quelli del Pd, perché millantando un appellativo "di sinistra" con il loro operato gettano fango su quella che Padellaro definirebbe "sinistra sinistra" e perché in Sicilia puntellano il governo della mafia e delle clientele, quando ne parlo mi guardo bene dal generalizzare e dico "una parte" perché oggettivamente so che non tutti i dirigenti del Pd sono pessimi e soprattutto penso di capire quanta sofferenza possa esserci in una base fatta di persone per bene legata per affetto e tradizione al suo partito pur non condividendone quasi nessuna scelta.
Invece Il Fatto, nel suo odio anticomunista (la cui natura forse potrebbe essere materia di studio per uno psicanalista), dimentica di distinguere fra il comunismo italiano e le degenerazioni di altri comunismi e soprattutto dimentica - mi si perdoni il passaggio retorico - il tributo di vite umane dato dai comunisti in Italia alla guerra di Liberazione dal nazifascismo. Ora questo Paese è governato da un piduista, eversore ("assaltiamo il Palazzo di Giustizia di Milano"), frequentatore di mafiosi, evasore fiscale, corruttore, maniaco sessuale, stupratore di minorenni, eccetera, in gran parte proprio a causa della mancata opposizione di quelli che hanno rinnegato il comunismo perché hanno sentito l'odore (puzza di merda, per quanto mi riguarda) dei soldi e del potere. E voi ve la prendete con i comunisti?
Mi dispiace, ma io non ci sto. Non farò nessuna denuncia né richiesta di danno per le continue calunnie, perché io - comunista - difendo la libertà di stampa e di opinione fino alla morte, ma certo non sarò più così masochista da comprare un giornale che mi insulta. Voi del Fatto lo sapete cosa ci si compra in Sicilia (dove, per fortuna, almeno nei mercati la vita è meno cara) con un euro e venti centesimi? Due lattughe e qualche pomodoro, o una confezione di carote e un paio di uova. Vuol dire pranzo e cena per due giorni. No, francamente, pagare per farmi insultare a domicilio è un lusso che io - licenziata perché comunista - non posso permettermi.
giovedì 20 ottobre 2011
Sanità siciliana: la parola è fallimento
A Catania c'è il rischio che gli ambulatori della Asp cadano nelle mani dei soliti palazzinari per le loro solite speculazioni. La voce si rincorreva già da qualche anno - da quando, cioè, con la scusa di razionalizzare e tagliare gli sprechi, era stato chiuso il poliambulatorio di Santa Maria La Grande per il quale erano appena stati spesi e, dunque, "sprecati" chissà quanti soldi per ristrutturarlo -, ma è diventata concreta nel timore espresso questa mattina da Fiorentino Trojano, coordinatore dei medici della Cgil, durante una conferenza stampa sui guasti della sanità: "Non vorremmo - ha detto Troiano - che lo spostamento determini il sacco edilizio delle aree che verranno dismesse".
Convocata dal sindacato in seguito alle numerose proteste degli utenti sul non funzionamento del tanto sbandierato Centro unico di prenotazione, che avrebbe dovuto razionalizzare il sistema e invece lo ha gettato nel caos più assoluto, la conferenza stampa è stata un duro atto di accusa della Sanità siciliana targata Lombardo e Russo, che pure in un primo momento la Cgil aveva salutato con favore e che ha finito per scontentare tutti, riproporre il sistema delle clientele e penalizzare i più deboli. Per questo al tavolo c'erano i dirigenti di tutte le categorie interessate: dai medici agli impiegati, ai pensionati, questi ultimi principali fruitori dell'assistenza sanitaria pubblica che ora si troveranno, nel centro della città, privi di qualunque servizio sanitario. Perché, dopo la chiusura di Santa Maria La Grande, i cui ambulatori sono stati spostati a Librino, enorme serbatoio di voti, presto sarà la volta dei presìdi di via Pasubio e via Cifali. Così i pensionati, che spesso non guidano, dovranno fare i conti con l'impossibilità - anche per la drammatica situazione dei trasporti pubblici, dovuta all'incapacità comprovata del sindaco Stancanelli e della sua giunta - di raggiungere un presidio medico vicino casa, oltre a dover pagare il ticket previsto dalla regione a cui di recente si è inserito anche quello contemplato dalla finanziaria nazionale che si è accanita contro le fasce deboli. Uno dei risultati è che a questa carenza di servizi devono supplire i medici di base. E uno dei risultati del non funzionamento del Centro prenotazioni è che i cittadini, giustamente imbufaliti dopo avere passato tre giorni al telefono senza riuscire a comunicare con nessuno, si recano di persona negli ambulatori e aggrediscono il primo operatore che gli capita a tiro.
E non basta: le strutture di pronto soccorso - è stato denunciato - non funzionano per carenza di personale e stanze di degenza sovraffollate, con tempi di attesa fino a dodici ore; la disorganizzazione in ogni tipo di struttura è totale; nel caso dell'ospedale Cannizzaro si sarebbero verificati anche episodi di comportamento antisindacale, con il manager che avrebbe preteso di indicare i nomi dei rappresentanti sindacali all'interno dei posti di lavoro; i tempi di attesa per gli accertamenti vanno dai 140 giorni per un elettrocardiogramma o una tac fino ai 550 per una mammografia; dei cosiddetti Pta (Punti territoriali di assistenza), che avrebbero dovuto sopperire al depauperamento dei servizi, non c'è traccia in tutta la provincia e l'unico esistente, quello di Giarre (per intenderci, quello dello scandaloso appalto per l'informatizzazione assegnato al marito della senatrice Finocchiaro senza uno straccio di gara e infatti poi revocato), lo è soltanto sulla carta; e, quanto alla sanità privata convenzionata, non c'è alcuna vigilanza e dunque nessuna garanzia di diritti e doveri dei medici uguali a quelli del pubblico, con la conseguenza che spesso per i professionisti delle cliniche private non c'è alcun rispetto dei contratti con paghe che si aggirano intorno ai dieci euro lordi l'ora e orari di lavoro massacranti a tutto discapito della qualità del servizio.
Per finire, le nomine dei manager il cui unico criterio continua a restare quello del clientelismo e della tessera di partito, tanto che spesso gli intoccabili superburocrati si arrogano il diritto di prendere decisioni senza tener conto dei pareri dei sindacati e degli operatori e spesso rifiutandosi persino di incontrarli. Con il caso limite del doppio incarico per il direttore generale dell'ospedale Cannizzaro, Francesco Poli, nominato anche commissario dell'Asp di Messina.
Un elenco infinito di disfunzioni, sintetizzato nella stessa parola in ciascuno degli interventi: fallimento. Ecco, quando uno va in fallimento chiude e va a casa (e, ma questo è solo un consiglio personale, a volte si vergogna pure e si suicida): chissà quanto dovranno aspettare i cittadini siciliani e quanti casi di malasanità e di morti in corsia dovranno esserci prima che Lombardo e Russo vadano a casa con onta. E chissà quando i cittadini siciliani insieme ai professionisti e agli operatori vessati per non essersi inchinati all'imperatore solleveranno la testa e lo prenderanno a calci nel sedere fino in Africa. Che gli è certamente più consona, avendo ridotto - come e in continuità con il suo predecessore Cuffaro - la Sanità siciliana a livelli da terzo mondo.
Convocata dal sindacato in seguito alle numerose proteste degli utenti sul non funzionamento del tanto sbandierato Centro unico di prenotazione, che avrebbe dovuto razionalizzare il sistema e invece lo ha gettato nel caos più assoluto, la conferenza stampa è stata un duro atto di accusa della Sanità siciliana targata Lombardo e Russo, che pure in un primo momento la Cgil aveva salutato con favore e che ha finito per scontentare tutti, riproporre il sistema delle clientele e penalizzare i più deboli. Per questo al tavolo c'erano i dirigenti di tutte le categorie interessate: dai medici agli impiegati, ai pensionati, questi ultimi principali fruitori dell'assistenza sanitaria pubblica che ora si troveranno, nel centro della città, privi di qualunque servizio sanitario. Perché, dopo la chiusura di Santa Maria La Grande, i cui ambulatori sono stati spostati a Librino, enorme serbatoio di voti, presto sarà la volta dei presìdi di via Pasubio e via Cifali. Così i pensionati, che spesso non guidano, dovranno fare i conti con l'impossibilità - anche per la drammatica situazione dei trasporti pubblici, dovuta all'incapacità comprovata del sindaco Stancanelli e della sua giunta - di raggiungere un presidio medico vicino casa, oltre a dover pagare il ticket previsto dalla regione a cui di recente si è inserito anche quello contemplato dalla finanziaria nazionale che si è accanita contro le fasce deboli. Uno dei risultati è che a questa carenza di servizi devono supplire i medici di base. E uno dei risultati del non funzionamento del Centro prenotazioni è che i cittadini, giustamente imbufaliti dopo avere passato tre giorni al telefono senza riuscire a comunicare con nessuno, si recano di persona negli ambulatori e aggrediscono il primo operatore che gli capita a tiro.
E non basta: le strutture di pronto soccorso - è stato denunciato - non funzionano per carenza di personale e stanze di degenza sovraffollate, con tempi di attesa fino a dodici ore; la disorganizzazione in ogni tipo di struttura è totale; nel caso dell'ospedale Cannizzaro si sarebbero verificati anche episodi di comportamento antisindacale, con il manager che avrebbe preteso di indicare i nomi dei rappresentanti sindacali all'interno dei posti di lavoro; i tempi di attesa per gli accertamenti vanno dai 140 giorni per un elettrocardiogramma o una tac fino ai 550 per una mammografia; dei cosiddetti Pta (Punti territoriali di assistenza), che avrebbero dovuto sopperire al depauperamento dei servizi, non c'è traccia in tutta la provincia e l'unico esistente, quello di Giarre (per intenderci, quello dello scandaloso appalto per l'informatizzazione assegnato al marito della senatrice Finocchiaro senza uno straccio di gara e infatti poi revocato), lo è soltanto sulla carta; e, quanto alla sanità privata convenzionata, non c'è alcuna vigilanza e dunque nessuna garanzia di diritti e doveri dei medici uguali a quelli del pubblico, con la conseguenza che spesso per i professionisti delle cliniche private non c'è alcun rispetto dei contratti con paghe che si aggirano intorno ai dieci euro lordi l'ora e orari di lavoro massacranti a tutto discapito della qualità del servizio.
Per finire, le nomine dei manager il cui unico criterio continua a restare quello del clientelismo e della tessera di partito, tanto che spesso gli intoccabili superburocrati si arrogano il diritto di prendere decisioni senza tener conto dei pareri dei sindacati e degli operatori e spesso rifiutandosi persino di incontrarli. Con il caso limite del doppio incarico per il direttore generale dell'ospedale Cannizzaro, Francesco Poli, nominato anche commissario dell'Asp di Messina.
Un elenco infinito di disfunzioni, sintetizzato nella stessa parola in ciascuno degli interventi: fallimento. Ecco, quando uno va in fallimento chiude e va a casa (e, ma questo è solo un consiglio personale, a volte si vergogna pure e si suicida): chissà quanto dovranno aspettare i cittadini siciliani e quanti casi di malasanità e di morti in corsia dovranno esserci prima che Lombardo e Russo vadano a casa con onta. E chissà quando i cittadini siciliani insieme ai professionisti e agli operatori vessati per non essersi inchinati all'imperatore solleveranno la testa e lo prenderanno a calci nel sedere fino in Africa. Che gli è certamente più consona, avendo ridotto - come e in continuità con il suo predecessore Cuffaro - la Sanità siciliana a livelli da terzo mondo.
mercoledì 19 ottobre 2011
Meglio in carcere che al lavoro
Vediamo di ricapitolare: 1) la Caritas fornisce i dati sulla povertà in Italia - che sono agghiaccianti e forse arrotondati per difetto dal momento che si basano soltanto sulla stima di quanti si rivolgono ai suoi centri di ascolto - e ci spiega che il 13,8% delle famiglie (vuol dire otto milioni e trecentomila persone in carne, sempre meno, ed ossa, sempre più a vista) vive in povertà e che in cinque anni il numero di giovani poveri è aumentato del 59,6%; 2) la scuola targata Gelmini ha istituzionalizzato la figura del precario di ruolo, stabile nella sua precarietà, e c'è gente che alla soglia della pensione non sa di che morte lavorativa morirà; 3) centinaia di migliaia di persone sempre più frequentemente in Italia scendono in piazza per rivendicare lavoro; 4) quotidianamente sentiamo di cinquantenni che si sono tolti la vita o hanno tentato di farlo perché avevano perduto il lavoro; 5) la prima volta che mi capitò di sentire dei commercianti che non rifornivano i negozi per mancanza di clientela fu qualche anno fa a Termini Imerese, dove le scelte della Fiat e dell'assassino Marchionne hanno messo in ginocchio l'intero comprensorio, ma qualche giorno fa la stessa frase me l'ha detta un libraio di Catania e di solito nelle librerie ci vanno quelli che non se la passano male o, meglio, ci andavano quelli che non se la passavano male e che ora invece pagano pure loro gli effetti di una crisi che è mondiale, ma resa insostenibile dalle politiche economiche di un governo che si accanisce con metodo scientifico sui lavoratori e sulle persone oneste.
Ebbene, uno legge queste notizie (l'elenco avrebbe potuto proseguire ben oltre il numero 5) e già gli basta e avanza non per indignarsi, ma per incazzarsi di brutto, poi ne arriva un'altra - di quelle che i giornali radio passano come fenomeno di colore - e allora ti girano talmente tanto che ti viene una voglia irrefrenabile di menare le mani.
Dunque la notizia è questa: c'è una stronza, che risponde al nome di Patrizia Reggiani, arrestata nel 1997 dopo essere stata condannata a 26 anni di reclusione in quanto mandante dell'omicidio dell'ex marito, Maurizio Gucci - titolare della nota azienda di borsaioli, borsisti, borseggiatori (l'ultima che si sa, notizia di pochi giorni fa, è che i titolari della "griffe" a Shenzhen, in Cina, sfruttavano e maltrattavano i lavoratori) -, che avendo scontato già buona parte della pena ha maturato il diritto alla semilibertà, cioè mezza giornata in carcere e l'altra metà a lavorare.
Ebbene "il puttanone", per citare il titolo di un racconto datato di Gino e Michele, la cui descrizione ("la signora bionda e altera con la pelliccia di leopardo e il barboncino bianco seduta sulla jeep Cherokee Limited T.D. 4 x 4 verde targata MI 7M0644 che tutti i giorni tra le 12.30 e le 13 parcheggia in seconda fila in viale Majno a Milano davanti all’Istituto Orsoline San Carlo, costringendo chiunque passi di lì ad almeno cinque minuti di coda supplementare e gratuita") non credo si discosti molto - colore dei capelli a parte - dal personaggio della signora Reggiani vedova Gucci, ha comunicato ai magistrati di sorveglianza del Tribunale di Milano che intende rinunciare alla semilibertà e dunque preferisce restarci per tutto il giorno in carcere perché dice che non c'è abituata a lavorare: "Non ho mai lavorato nella mia vita". Sic.
Ora a parte l'istinto incontrollabile che mi viene di prenderla a calci in culo e che probabilmente mi farebbe finire nella sua stessa cella per rissa aggravata, mi chiedo se un giudice o l'amministrazione penitenziaria, di fronte a una motivazione così sfrontata, non dovrebbe avere il diritto e forse anche il dovere di rispondere: "No, bella, ora tu alzi le chiappe e te ne vai a lavorare e impari come hanno fatto tutti: altrimenti non mangi".
Anche perché il fatto più allucinante, secondo quanto riportano le agenzie, è che alla stronza sarà consentito nel pomeriggio, invece di rovinarsi lo smalto delle unghie lavorando, di trastullarsi curando le sue piante.
E che altro farà? Riceverà le amiche all'ora del tè? Farà entrare in cella due volte a settimana l'estetista e la manicure? Oppure si farà assistere da un massaggiatore shiatsu che la farà rilassare dopo una dura giornata di grattamento di coglioni?
Ebbene, uno legge queste notizie (l'elenco avrebbe potuto proseguire ben oltre il numero 5) e già gli basta e avanza non per indignarsi, ma per incazzarsi di brutto, poi ne arriva un'altra - di quelle che i giornali radio passano come fenomeno di colore - e allora ti girano talmente tanto che ti viene una voglia irrefrenabile di menare le mani.
Dunque la notizia è questa: c'è una stronza, che risponde al nome di Patrizia Reggiani, arrestata nel 1997 dopo essere stata condannata a 26 anni di reclusione in quanto mandante dell'omicidio dell'ex marito, Maurizio Gucci - titolare della nota azienda di borsaioli, borsisti, borseggiatori (l'ultima che si sa, notizia di pochi giorni fa, è che i titolari della "griffe" a Shenzhen, in Cina, sfruttavano e maltrattavano i lavoratori) -, che avendo scontato già buona parte della pena ha maturato il diritto alla semilibertà, cioè mezza giornata in carcere e l'altra metà a lavorare.
Ebbene "il puttanone", per citare il titolo di un racconto datato di Gino e Michele, la cui descrizione ("la signora bionda e altera con la pelliccia di leopardo e il barboncino bianco seduta sulla jeep Cherokee Limited T.D. 4 x 4 verde targata MI 7M0644 che tutti i giorni tra le 12.30 e le 13 parcheggia in seconda fila in viale Majno a Milano davanti all’Istituto Orsoline San Carlo, costringendo chiunque passi di lì ad almeno cinque minuti di coda supplementare e gratuita") non credo si discosti molto - colore dei capelli a parte - dal personaggio della signora Reggiani vedova Gucci, ha comunicato ai magistrati di sorveglianza del Tribunale di Milano che intende rinunciare alla semilibertà e dunque preferisce restarci per tutto il giorno in carcere perché dice che non c'è abituata a lavorare: "Non ho mai lavorato nella mia vita". Sic.
Ora a parte l'istinto incontrollabile che mi viene di prenderla a calci in culo e che probabilmente mi farebbe finire nella sua stessa cella per rissa aggravata, mi chiedo se un giudice o l'amministrazione penitenziaria, di fronte a una motivazione così sfrontata, non dovrebbe avere il diritto e forse anche il dovere di rispondere: "No, bella, ora tu alzi le chiappe e te ne vai a lavorare e impari come hanno fatto tutti: altrimenti non mangi".
Anche perché il fatto più allucinante, secondo quanto riportano le agenzie, è che alla stronza sarà consentito nel pomeriggio, invece di rovinarsi lo smalto delle unghie lavorando, di trastullarsi curando le sue piante.
E che altro farà? Riceverà le amiche all'ora del tè? Farà entrare in cella due volte a settimana l'estetista e la manicure? Oppure si farà assistere da un massaggiatore shiatsu che la farà rilassare dopo una dura giornata di grattamento di coglioni?
martedì 18 ottobre 2011
Rapporto ecosistema urbano 2011: pessima Catania
La peggiore fra le grandi città. Noi, per la verità, lo sapevamo già. Lo sapevamo sulla nostra pelle, sulle nostre narici, sui nostri polmoni, sul nostro udito: Catania è una città di merda. Ora però abbiamo la certificazione ufficiale.
Il rapporto di Legambiente sull'ecosistema urbano 2011 (i cui dati si riferiscono al 2010) che stila la classifica delle città italiane in base alla loro ecocompatibilità e che quest'anno le ha divise in tre categorie a seconda del numero di abitanti - città grandi, medie e piccole - bolla Catania come la peggiore. Lo studio prende in considerazione una settantina di parametri e fra questi i principali sono la qualità dell'aria, l'acqua (consumi, dispersione nella rete, depurazione), i rifiuti, il sistema dei trasporti da quelli pubblici alle piste ciclabili, il verde.
E dunque si comincia dalla qualità dell'aria, in particolare dalla concentrazione di biossido di azoto registrata dalle centraline presenti sul territorio. La legge prevede che non si debbano superare i 40 microgrammi per metro cubo. Catania ne ha più del doppio: 84. Quanto all'acqua, il bene prezioso viene disperso per più del 50% in reti idriche colabrodo. Situazione drammatica, poi, per quanto riguarda la depurazione: a Catania la tassa l'hanno pagata tutti, ma meno del 20% degli abitanti è allacciato al depuratore. Poi c'è la raccolta differenziata: per il 2010 avrebbe dovuto essere del 55%, ma Catania "eccelle" anche in questo: appena il 6%. E vogliamo parlare del trasporto pubblico? Quello, per intenderci, per il quale circa un mese fa il sindaco Stancanelli aveva annunciato una grande rivoluzione (ma forse, come il suo padrone Berlusconi, intendeva golpe) che avrebbe svuotato le strade dalle auto: 75 i passeggeri trasportati annualmente per abitante. Ma il rapporto precisa di avere tenuto conto anche dei turisti: i quali - evidentemente ignari di quello che li aspettava - hanno pensato di poter far uso dei mezzi pubblici come in qualunque città del mondo civile. Sempre in tema di trasporti, c'è l'indice di mobilità sostenibile che assegna un punteggio in base a una serie di indicatori: autobus a chiamata, controlli varchi Ztl, mobility manager, car-sharing. I punti vanno da 0 a 100 e Catania, penultima in questa graduatoria, ne ha ottenuti soltanto 28.
E vogliamo parlare - così, giusto per farci del male - di isole pedonali, Ztl e piste ciclabili? Dunque, a Catania le isole pedonali sono ben 0,08 metri quadrati per abitante. Roba che una coppia di formiche può comodamente cimentarsi in un pas de deux! Zone a traffico limitato non pervenute: nel senso che la superficie si estende (parola impegnativa, lo so) per 0,13 metri quadrati per abitante. Quanto alle piste ciclabili, lo studio precisa che "per cercare di valutare l’offerta ciclabile di una città sono stati considerati i km di piste ciclabili in sede propria, i km di piste ciclabili in corsia riservata, i km di piste su marciapiede, i km di piste promiscue bici/pedoni, le zone con moderazione di velocità a 20 e 30 km/h. Queste informazioni, opportunamente pesate, hanno concorso a formare l’indice di 'metri equivalenti' di percorsi ciclabili ogni 100 abitanti". E fa capire che il minimo dignitoso è di 10 metri equivalenti. A Catania le piste ciclabili in sede propria, come può notare ogni cittadino, non esistono. Quelle su marciapiede sono più o meno quei tre centimetri che il sindaco (imputato) coatto ha inaugurato con la fanfara qualche mese fa: in pratica non fai in tempo a sederti sul sellino che la pista è già finita. Più che una pista ciclabile, sembra una pista di coca: giusto il tempo di una sniffata e non ce n'è più traccia, se non nei gesti inconsulti e nelle frasi che mentalmente rivolgi al tuo cosiddetto primo cittadino quando la ruota si trova circondata dalle quattro ruote e senza via d'uscita. E i "km di piste promiscue bici/pedoni" suonano vagamente come una presa per il culo nella città dove né le bici né i pedoni possono salire sui marciapiedi perché - sotto l'occhio vigile dei vigili - ci sono state posteggiate le auto. Dopo di che, per tornare ai freddi numeri, tutto questo nella classifica di Legambiente si traduce in uno 0,38 rispetto a quel minimo di 10 "metri equivalenti". Che, in termini di "indice di ciclabilità", e cioè - come spiega il rapporto - "la capacità delle amministrazioni comunali di attivare un ventaglio di strumenti che favoriscano la mobilità ciclabile", per Catania vuol dire cinque. Cinque al sindaco Stancanelli, che già sarebbe un voto di merda su una scala di dieci, ma qui la scala è da uno a cento.
Ancora in termini di centimetri (e non di ettari, come normalmente dovrebbe essere dato l'argomento) il discorso se ci inoltriamo nel bosco e nel sottobosco del verde urbano fruibile. Catania - grande città - ne ha 4,83 metri quadrati per abitante, contro 42,10 di Lucca, prima fra le città di medie dimensioni, e il 42,77 di Sondrio, prima delle città piccole (e, per inciso, in questo elenco bisogna arrivare alla trentaduesima città per avere un dato simile a quello del capoluogo etneo).
Il tasso di motorizzazione - cioè quante auto ci sono in circolazione ogni 100 abitanti - l'ho lasciato per ultimo perché qui Catania non la batte proprio nessuno. Ma prima di qualunque considerazione, è necessario leggere la premessa contenuta nel rapporto: "La densità automobilistica costituisce uno degli elementi più critici per le città e distingue sfavorevolmente l’Italia nel panorama mondiale: rispetto ad alcune grandi capitali europee (Londra, Parigi e Berlino) che registrano valori molto bassi (32 auto/100 ab circa), il tasso medio di motorizzazione dei 107 comuni capoluogo italiani si mantiene molto più alto, con 63,7 auto ogni 100 abitanti". Poi comincia l'elenco delle 15 grandi città prese in esame e, accanto a ciascuna, in crescendo, il suo tasso di motorizzazione: Venezia 41, Genova 47, Bologna 52, Trieste 53, Milano 55, Firenze 56, Bari 57, Napoli 58, Padova 58, Messina 60, Verona 60, Palermo 61, Torino 61, Roma 69....and the winner is....Catania, con 72 auto ogni cento abitanti. Che, escludendo i neonati, i bambini, i ragazzini fino a 17 anni e gli ultranovantenni, non lo so quanto fa, ma a naso ho la sensazione che ogni automobilista circoli per Catania usando almeno un paio di vetture contemporaneamente. Stendendo un velo pietoso sul senso civico dei cittadini catanesi, certo non si può non notare che questo dato deriva direttamente da quelli relativi al trasporto pubblico. Lo stesso per il quale, nella calura estiva, il sindaco Stancanelli annunciava che ci avrebbe stupiti con effetti speciali acquistando nuovi autobus, istituendo nuove linee e aumentando la velocità di percorrenza. Finora di mezzi nuovi non c'è neppure l'ombra, le nuove linee erano tre vecchissime linee da e per Barriera, San Giovanni Galermo e Canalicchio e, quanto alla velocità, non solo non è aumentata ma ha rallentato persino quella dei pedoni, intrappolati nel pasticcio che il primo cittadino chiama pomposamente "nuovo piano per il traffico". Intanto un piano lo stanno studiando veramente: quello per mettere a segno l'audace colpo dei soliti ignoti a danno dei cittadini: l'Amt, il cui buco di bilancio ha già toccato i cento milioni di euro che gravano sul comune già indebitato per centinaia di milioni di euro, sta per essere privatizzata e trasformata in SpA. E il comune, per godere del "privilegio" di essere proprietario del 51% di quelle azioni, continuerà a farsi carico del buco e in più verserà all'azienda venti milioni di euro l'anno per cinque anni.
Forse i soldi pensa di recuperarli dalle multe, unico sistema di contenimento del traffico urbano che un'amministrazione di destra incline alla repressione sia in grado di ipotizzare.
Il rapporto di Legambiente sull'ecosistema urbano 2011 (i cui dati si riferiscono al 2010) che stila la classifica delle città italiane in base alla loro ecocompatibilità e che quest'anno le ha divise in tre categorie a seconda del numero di abitanti - città grandi, medie e piccole - bolla Catania come la peggiore. Lo studio prende in considerazione una settantina di parametri e fra questi i principali sono la qualità dell'aria, l'acqua (consumi, dispersione nella rete, depurazione), i rifiuti, il sistema dei trasporti da quelli pubblici alle piste ciclabili, il verde.
E dunque si comincia dalla qualità dell'aria, in particolare dalla concentrazione di biossido di azoto registrata dalle centraline presenti sul territorio. La legge prevede che non si debbano superare i 40 microgrammi per metro cubo. Catania ne ha più del doppio: 84. Quanto all'acqua, il bene prezioso viene disperso per più del 50% in reti idriche colabrodo. Situazione drammatica, poi, per quanto riguarda la depurazione: a Catania la tassa l'hanno pagata tutti, ma meno del 20% degli abitanti è allacciato al depuratore. Poi c'è la raccolta differenziata: per il 2010 avrebbe dovuto essere del 55%, ma Catania "eccelle" anche in questo: appena il 6%. E vogliamo parlare del trasporto pubblico? Quello, per intenderci, per il quale circa un mese fa il sindaco Stancanelli aveva annunciato una grande rivoluzione (ma forse, come il suo padrone Berlusconi, intendeva golpe) che avrebbe svuotato le strade dalle auto: 75 i passeggeri trasportati annualmente per abitante. Ma il rapporto precisa di avere tenuto conto anche dei turisti: i quali - evidentemente ignari di quello che li aspettava - hanno pensato di poter far uso dei mezzi pubblici come in qualunque città del mondo civile. Sempre in tema di trasporti, c'è l'indice di mobilità sostenibile che assegna un punteggio in base a una serie di indicatori: autobus a chiamata, controlli varchi Ztl, mobility manager, car-sharing. I punti vanno da 0 a 100 e Catania, penultima in questa graduatoria, ne ha ottenuti soltanto 28.
E vogliamo parlare - così, giusto per farci del male - di isole pedonali, Ztl e piste ciclabili? Dunque, a Catania le isole pedonali sono ben 0,08 metri quadrati per abitante. Roba che una coppia di formiche può comodamente cimentarsi in un pas de deux! Zone a traffico limitato non pervenute: nel senso che la superficie si estende (parola impegnativa, lo so) per 0,13 metri quadrati per abitante. Quanto alle piste ciclabili, lo studio precisa che "per cercare di valutare l’offerta ciclabile di una città sono stati considerati i km di piste ciclabili in sede propria, i km di piste ciclabili in corsia riservata, i km di piste su marciapiede, i km di piste promiscue bici/pedoni, le zone con moderazione di velocità a 20 e 30 km/h. Queste informazioni, opportunamente pesate, hanno concorso a formare l’indice di 'metri equivalenti' di percorsi ciclabili ogni 100 abitanti". E fa capire che il minimo dignitoso è di 10 metri equivalenti. A Catania le piste ciclabili in sede propria, come può notare ogni cittadino, non esistono. Quelle su marciapiede sono più o meno quei tre centimetri che il sindaco (imputato) coatto ha inaugurato con la fanfara qualche mese fa: in pratica non fai in tempo a sederti sul sellino che la pista è già finita. Più che una pista ciclabile, sembra una pista di coca: giusto il tempo di una sniffata e non ce n'è più traccia, se non nei gesti inconsulti e nelle frasi che mentalmente rivolgi al tuo cosiddetto primo cittadino quando la ruota si trova circondata dalle quattro ruote e senza via d'uscita. E i "km di piste promiscue bici/pedoni" suonano vagamente come una presa per il culo nella città dove né le bici né i pedoni possono salire sui marciapiedi perché - sotto l'occhio vigile dei vigili - ci sono state posteggiate le auto. Dopo di che, per tornare ai freddi numeri, tutto questo nella classifica di Legambiente si traduce in uno 0,38 rispetto a quel minimo di 10 "metri equivalenti". Che, in termini di "indice di ciclabilità", e cioè - come spiega il rapporto - "la capacità delle amministrazioni comunali di attivare un ventaglio di strumenti che favoriscano la mobilità ciclabile", per Catania vuol dire cinque. Cinque al sindaco Stancanelli, che già sarebbe un voto di merda su una scala di dieci, ma qui la scala è da uno a cento.
Ancora in termini di centimetri (e non di ettari, come normalmente dovrebbe essere dato l'argomento) il discorso se ci inoltriamo nel bosco e nel sottobosco del verde urbano fruibile. Catania - grande città - ne ha 4,83 metri quadrati per abitante, contro 42,10 di Lucca, prima fra le città di medie dimensioni, e il 42,77 di Sondrio, prima delle città piccole (e, per inciso, in questo elenco bisogna arrivare alla trentaduesima città per avere un dato simile a quello del capoluogo etneo).
Il tasso di motorizzazione - cioè quante auto ci sono in circolazione ogni 100 abitanti - l'ho lasciato per ultimo perché qui Catania non la batte proprio nessuno. Ma prima di qualunque considerazione, è necessario leggere la premessa contenuta nel rapporto: "La densità automobilistica costituisce uno degli elementi più critici per le città e distingue sfavorevolmente l’Italia nel panorama mondiale: rispetto ad alcune grandi capitali europee (Londra, Parigi e Berlino) che registrano valori molto bassi (32 auto/100 ab circa), il tasso medio di motorizzazione dei 107 comuni capoluogo italiani si mantiene molto più alto, con 63,7 auto ogni 100 abitanti". Poi comincia l'elenco delle 15 grandi città prese in esame e, accanto a ciascuna, in crescendo, il suo tasso di motorizzazione: Venezia 41, Genova 47, Bologna 52, Trieste 53, Milano 55, Firenze 56, Bari 57, Napoli 58, Padova 58, Messina 60, Verona 60, Palermo 61, Torino 61, Roma 69....and the winner is....Catania, con 72 auto ogni cento abitanti. Che, escludendo i neonati, i bambini, i ragazzini fino a 17 anni e gli ultranovantenni, non lo so quanto fa, ma a naso ho la sensazione che ogni automobilista circoli per Catania usando almeno un paio di vetture contemporaneamente. Stendendo un velo pietoso sul senso civico dei cittadini catanesi, certo non si può non notare che questo dato deriva direttamente da quelli relativi al trasporto pubblico. Lo stesso per il quale, nella calura estiva, il sindaco Stancanelli annunciava che ci avrebbe stupiti con effetti speciali acquistando nuovi autobus, istituendo nuove linee e aumentando la velocità di percorrenza. Finora di mezzi nuovi non c'è neppure l'ombra, le nuove linee erano tre vecchissime linee da e per Barriera, San Giovanni Galermo e Canalicchio e, quanto alla velocità, non solo non è aumentata ma ha rallentato persino quella dei pedoni, intrappolati nel pasticcio che il primo cittadino chiama pomposamente "nuovo piano per il traffico". Intanto un piano lo stanno studiando veramente: quello per mettere a segno l'audace colpo dei soliti ignoti a danno dei cittadini: l'Amt, il cui buco di bilancio ha già toccato i cento milioni di euro che gravano sul comune già indebitato per centinaia di milioni di euro, sta per essere privatizzata e trasformata in SpA. E il comune, per godere del "privilegio" di essere proprietario del 51% di quelle azioni, continuerà a farsi carico del buco e in più verserà all'azienda venti milioni di euro l'anno per cinque anni.
Forse i soldi pensa di recuperarli dalle multe, unico sistema di contenimento del traffico urbano che un'amministrazione di destra incline alla repressione sia in grado di ipotizzare.
lunedì 17 ottobre 2011
Black-bloc di lotta e di governo
Identikit del black-bloc/tipo. Quando non è un infiltrato dei servizi segreti - e non è necessario essere malati di fantapolitica e fantapolizia per affermarlo, ma è sufficiente ripescare dalla memoria gli ultimi quarant'anni di vita italiana -, comunque funzionale a uno stato golpista che usa ogni mezzo e ogni "scusa" per reprimere il dissenso, di solito il black-bloc di casa nostra è un rampollo di cosiddetta buona famiglia (quelle, cioè, dove succedono le peggio cose): padre inetto che non ha mai lavorato un giorno preferendo ciondolare, madre stronza con la puzza sotto il naso che non se l'è mai filato, un parente nazista, un altro ufficialmente imprenditore in realtà prestanome di mafiosi. Più che un giovane giustamente indignato per la mancanza di lavoro e di prospettive, è un perenne quindicenne affetto da mal de vivre; di più: terrorizzato dalla vita, incazzato nero forse con se stesso, che sfoga la sua rabbia e la sua frustrazione prendendo a pugni il mondo e veste rigorosamente in nero. Come gli emo, come la morte, come i fascisti.
In fondo, a ben riflettere, è preoccupato solo dai problemi suoi, come quell'altro eversore che non spacca le vetrine ma ha spaccato la Costituzione italiana e ambisce ad assaltare il Palazzo di Giustizia di Milano e a imporre leggi restrittive della libertà altrui e della libertà di informazione pur di garantire la propria libertà a violare quotidianamente la legge.
Non ho sentito una parola, dopo la diffusione dell'ultima terrificante intercettazione di una telefonata di Berlusconi con Lavitola, nella quale appunto il sedicente premier affermava di voler fare "la rivoluzione" (facendo confusione sui termini, perché quello che vuole fare lui si chiama colpo di Stato), non ho sentito nemmeno un alito, nemmeno un sospiro angosciato da parte di chi dovrebbe essere il garante della Carta costituzionale: nemmeno un piccolo richiamo al black-bloc di governo. Ho sentito, invece, una delle tante cazzate senza rete, voce dal sen fuggita, che di tanto in tanto si sottraggono al controllo del cervello di Antonio Di Pietro, in fondo visceralmente reazionario, che vorrebbe ripristinare la legge Reale, una delle più liberticide della storia dell'Italia repubblicana, per rispondere alla violenza dei black-bloc: nei fatti creando uno strumento di processo alle intenzioni che consentirebbe l'arresto preventivo magari di attempati signori e signore che pensano di andare ad una manifestazione per protestare contro il fatto che loro non hanno più una pensione e che i loro figli non ce l'avranno mai. Di Pietro, che tutto sommato è un brav'uomo (ma non è e non è mai stato di sinistra sebbene esista proprio grazie ai voti di quelli che lo credono di sinistra), è però uno a cui non basta aver fatto già delle cazzate per fermarsi a riflettere sui propri errori. No, lui continua a reiterare le cazzate favorendo il peggio della politica italiana. Come quando ha candidato Domenico Scilipoti, ginecologo e agopuntore di Barcellona Pozzo di Gotto, il comune messinese punto di snodo della mafia siciliana. Ora, a parte che sarebbe bastato avere un po' di "occhio clinico" (e non necessariamente quello di Cesare Lombroso) per rendersi conto del personaggio, per di più Di Pietro sembra fosse stato avvertito che già all'epoca della candidatura Scilipoti aveva guai con la giustizia. Ebbene: Scilipoti, eletto grazie a Di Pietro, ha consentito al golpista Berlusconi di continuare a sfasciare l'Italia e poi si è mostrato allegramente in giro con il golpista Gaetano Saya che gli ha persino proposto di diventare il presidente del suo partito nazista. E siccome pareva brutto non essere diabolici nella perseveranza, oggi Di Pietro - con la sua proposta di riedizione della legge Reale - lancia un assist ad altri due fascisti liberticidi: felice il ministro Maroni che così potrà sparare sui manifestanti (magari evitando di colpire i black-bloc e mirando invece a qualche ragazzina inerme: "atto di strategia della tensione, un omicidio deliberato per far precipitare una situazione e determinare una soluzione involutiva dell'ordine democratico" definì l'ex presidente della Commissione stragi, Giovanni Pellegrino, l'omicidio di Giorgiana Masi, assassinata dalla polizia durante una manifestazione il 12 maggio 1977, ministro dell'Interno Francesco Cossiga); felice il fascista Alemanno, per grazia ricevuta sindaco di Roma, che in questo momento gode come il topo nel formaggio della propria ordinanza che vieta per un mese manifestazioni per le vie della Capitale. L'unica in programma, al momento, era quella del 21 ottobre indetta dalla Fiom: cioè il solo sindacato (almeno nell'ambito della "triplice") che non abbia abdicato al suo ruolo di difesa dei diritti dei lavoratori. E basterebbe questo a capire che l'obiettivo non sono i violenti, ma i lavoratori.
Quanto ai black-bloc - sia quelli di lotta che quello di governo -, forse per loro sarebbe sufficiente un bravo psicoanalista. O, in un caso limite (nel caso limite), di uno psichiatra che potrebbe disporre anche un trattamento sanitario obbligatorio.
In fondo, a ben riflettere, è preoccupato solo dai problemi suoi, come quell'altro eversore che non spacca le vetrine ma ha spaccato la Costituzione italiana e ambisce ad assaltare il Palazzo di Giustizia di Milano e a imporre leggi restrittive della libertà altrui e della libertà di informazione pur di garantire la propria libertà a violare quotidianamente la legge.
Non ho sentito una parola, dopo la diffusione dell'ultima terrificante intercettazione di una telefonata di Berlusconi con Lavitola, nella quale appunto il sedicente premier affermava di voler fare "la rivoluzione" (facendo confusione sui termini, perché quello che vuole fare lui si chiama colpo di Stato), non ho sentito nemmeno un alito, nemmeno un sospiro angosciato da parte di chi dovrebbe essere il garante della Carta costituzionale: nemmeno un piccolo richiamo al black-bloc di governo. Ho sentito, invece, una delle tante cazzate senza rete, voce dal sen fuggita, che di tanto in tanto si sottraggono al controllo del cervello di Antonio Di Pietro, in fondo visceralmente reazionario, che vorrebbe ripristinare la legge Reale, una delle più liberticide della storia dell'Italia repubblicana, per rispondere alla violenza dei black-bloc: nei fatti creando uno strumento di processo alle intenzioni che consentirebbe l'arresto preventivo magari di attempati signori e signore che pensano di andare ad una manifestazione per protestare contro il fatto che loro non hanno più una pensione e che i loro figli non ce l'avranno mai. Di Pietro, che tutto sommato è un brav'uomo (ma non è e non è mai stato di sinistra sebbene esista proprio grazie ai voti di quelli che lo credono di sinistra), è però uno a cui non basta aver fatto già delle cazzate per fermarsi a riflettere sui propri errori. No, lui continua a reiterare le cazzate favorendo il peggio della politica italiana. Come quando ha candidato Domenico Scilipoti, ginecologo e agopuntore di Barcellona Pozzo di Gotto, il comune messinese punto di snodo della mafia siciliana. Ora, a parte che sarebbe bastato avere un po' di "occhio clinico" (e non necessariamente quello di Cesare Lombroso) per rendersi conto del personaggio, per di più Di Pietro sembra fosse stato avvertito che già all'epoca della candidatura Scilipoti aveva guai con la giustizia. Ebbene: Scilipoti, eletto grazie a Di Pietro, ha consentito al golpista Berlusconi di continuare a sfasciare l'Italia e poi si è mostrato allegramente in giro con il golpista Gaetano Saya che gli ha persino proposto di diventare il presidente del suo partito nazista. E siccome pareva brutto non essere diabolici nella perseveranza, oggi Di Pietro - con la sua proposta di riedizione della legge Reale - lancia un assist ad altri due fascisti liberticidi: felice il ministro Maroni che così potrà sparare sui manifestanti (magari evitando di colpire i black-bloc e mirando invece a qualche ragazzina inerme: "atto di strategia della tensione, un omicidio deliberato per far precipitare una situazione e determinare una soluzione involutiva dell'ordine democratico" definì l'ex presidente della Commissione stragi, Giovanni Pellegrino, l'omicidio di Giorgiana Masi, assassinata dalla polizia durante una manifestazione il 12 maggio 1977, ministro dell'Interno Francesco Cossiga); felice il fascista Alemanno, per grazia ricevuta sindaco di Roma, che in questo momento gode come il topo nel formaggio della propria ordinanza che vieta per un mese manifestazioni per le vie della Capitale. L'unica in programma, al momento, era quella del 21 ottobre indetta dalla Fiom: cioè il solo sindacato (almeno nell'ambito della "triplice") che non abbia abdicato al suo ruolo di difesa dei diritti dei lavoratori. E basterebbe questo a capire che l'obiettivo non sono i violenti, ma i lavoratori.
Quanto ai black-bloc - sia quelli di lotta che quello di governo -, forse per loro sarebbe sufficiente un bravo psicoanalista. O, in un caso limite (nel caso limite), di uno psichiatra che potrebbe disporre anche un trattamento sanitario obbligatorio.
sabato 15 ottobre 2011
Catania allagata: indignados di tutti i quartieri, unitevi!
Nel giorno degli indignados, nel giorno in cui milioni di persone in tutte le capitali e nelle principali città europee dicono basta alle banche, al neoliberismo, al capitalismo selvaggio, a Catania la goccia che ha fatto traboccare il vaso è stato un acquazzone.
E stavolta non sono stati studenti, insegnanti, borghesi illuminati: sono stati quelli dei villaggi della periferia sud - Santa Maria Goretti, San Giuseppe La Rena e la Playa - ad incazzarsi, probabilmente gli stessi che tre anni fa hanno dato un contributo sostanzioso all'elezione di Raffaele Stancanelli, che li ha ripagati negando loro i servizi essenziali - assistenza sociale, asili nido, mense scolastiche - e riducendo l'intera città in un letamaio le cui strade dissestate e piene di buche sono un continuo attentato alla vita delle persone. Perché soldi per le manutenzioni non ce ne sono mentre si trovano quelli per le consulenze, perché questo sindaco non soltanto non ha sanato, ma ha addirittura aggravato la situazione delle casse comunali resa disastrosa dal suo predecessore Umberto Scapagnini (che infatti è stato condannato) e non ha mosso un dito, non ha pronunciato una sola sillaba quando il governo del suo complice di partito Silvio Berlusconi ha deciso i tagli agli enti locali per far pagare la crisi ai più deboli, in linea con la finanza internazionale.
Stanotte a Catania è piovuto ininterrottamente e le strade che portano all'aeroporto (come quelle di tutti gli altri quartieri, dal centro alla periferia) sono diventate fiumi, laghi, mari, oceani, così - quando si sono trovati come topi in trappola, con le cantine delle case completamente allagate - gli abitanti del villaggio Santa Maria Goretti prima sono saliti sui tetti delle loro stesse abitazioni e poi hanno bloccato le vie di accesso all'aerostazione, con la conseguenza che molti passeggeri in partenza hanno dovuto raggiungere Fontanarossa a piedi, al guado, e che alcuni aerei, per l'impossibilità degli equipaggi di arrivare, hanno subìto ritardi di ore. Cinque quelle accumulate dal volo Catania-Linate, con duecento passeggeri a bordo, che hanno dovuto attendere l'arrivo di un altro equipaggio da Milano. Ritardi anche per le gare dei mondiali di scherma che tanto inorgogliscono il sindaco Stancanelli, perché le strade della Playa erano impraticabili.
Sarà orgoglioso il primo cittadino per questa vetrina mondiale della sua inettitudine, per questa figura di merda mondiale che ha visto Catania annegare in un mare di inefficienza. Ma per una volta i catanesi, fatalisti e indolenti, si sono resi conto che non era al cielo ma alla terra che dovevano levare gli occhi, non alle nuvole ma alle strade (e all'amministrazione) dissestate di Stancanelli. Adesso aspettiamo che si mettano in movimento, con proteste, sit-in e blocchi stradali - e che magari lo facciano oggi pomeriggio insieme agli studenti, ai lavoratori, ai giovani senza futuro - gli indignados catanesi degli altri quartieri, quelli che finora si sono limitati alla lamentela singola e che sono tantissimi, incazzati neri. E che facciano annegare definitivamente questa amministrazione di naufraghi.
E stavolta non sono stati studenti, insegnanti, borghesi illuminati: sono stati quelli dei villaggi della periferia sud - Santa Maria Goretti, San Giuseppe La Rena e la Playa - ad incazzarsi, probabilmente gli stessi che tre anni fa hanno dato un contributo sostanzioso all'elezione di Raffaele Stancanelli, che li ha ripagati negando loro i servizi essenziali - assistenza sociale, asili nido, mense scolastiche - e riducendo l'intera città in un letamaio le cui strade dissestate e piene di buche sono un continuo attentato alla vita delle persone. Perché soldi per le manutenzioni non ce ne sono mentre si trovano quelli per le consulenze, perché questo sindaco non soltanto non ha sanato, ma ha addirittura aggravato la situazione delle casse comunali resa disastrosa dal suo predecessore Umberto Scapagnini (che infatti è stato condannato) e non ha mosso un dito, non ha pronunciato una sola sillaba quando il governo del suo complice di partito Silvio Berlusconi ha deciso i tagli agli enti locali per far pagare la crisi ai più deboli, in linea con la finanza internazionale.
Stanotte a Catania è piovuto ininterrottamente e le strade che portano all'aeroporto (come quelle di tutti gli altri quartieri, dal centro alla periferia) sono diventate fiumi, laghi, mari, oceani, così - quando si sono trovati come topi in trappola, con le cantine delle case completamente allagate - gli abitanti del villaggio Santa Maria Goretti prima sono saliti sui tetti delle loro stesse abitazioni e poi hanno bloccato le vie di accesso all'aerostazione, con la conseguenza che molti passeggeri in partenza hanno dovuto raggiungere Fontanarossa a piedi, al guado, e che alcuni aerei, per l'impossibilità degli equipaggi di arrivare, hanno subìto ritardi di ore. Cinque quelle accumulate dal volo Catania-Linate, con duecento passeggeri a bordo, che hanno dovuto attendere l'arrivo di un altro equipaggio da Milano. Ritardi anche per le gare dei mondiali di scherma che tanto inorgogliscono il sindaco Stancanelli, perché le strade della Playa erano impraticabili.
Sarà orgoglioso il primo cittadino per questa vetrina mondiale della sua inettitudine, per questa figura di merda mondiale che ha visto Catania annegare in un mare di inefficienza. Ma per una volta i catanesi, fatalisti e indolenti, si sono resi conto che non era al cielo ma alla terra che dovevano levare gli occhi, non alle nuvole ma alle strade (e all'amministrazione) dissestate di Stancanelli. Adesso aspettiamo che si mettano in movimento, con proteste, sit-in e blocchi stradali - e che magari lo facciano oggi pomeriggio insieme agli studenti, ai lavoratori, ai giovani senza futuro - gli indignados catanesi degli altri quartieri, quelli che finora si sono limitati alla lamentela singola e che sono tantissimi, incazzati neri. E che facciano annegare definitivamente questa amministrazione di naufraghi.
giovedì 13 ottobre 2011
Vergogna familiare a tutto campo
Vi ricordate Gesualdo Campo? Assessore alle Politiche culturali in quota Mpa nella giunta provinciale di Catania guidata dall'attuale presidente della Regione, Raffaele Lombardo, fu messo alla Soprintendenza ai Beni culturali di Catania dopo che era stata defenestrata - su richiesta esplicita dell'allora sindaco di Catania, Umberto Scapagnini, condannato in questi giorni per il buco di bilancio - Maria Grazia Branciforti, colpevole di essersi opposta alla vendita dei beni di pregio pensata proprio dall'amministrazione comunale etnea per far fronte alla voragine creata nelle casse del Comune.
Campo fu poi chiamato alla Regione da Lombardo che - impegnato com'era a superare il suo maestro di clientele e di occupazione del potere, tal Cuffaro Salvatore detto Totò, attualmente residente a Roma, al n. 72 di via Bartolo Longo -, non contento della presenza di oltre duemila dirigenti, praticamente uno ogni sei dipendenti, sentì il bisogno irrefrenabile di aggiungere nove supermanager. A Campo, forse proprio per aver avallato il tentativo di Scapagnini di svendere il patrimonio architettonico della città come se si trattasse di scarti di magazzino, toccò il compito di superdirigere il settore dei Beni culturali.
Ebbene, siccome il suo più grande bene è la famiglia, Campo deve aver pensato di trasformarlo in un bene culturale dal valore inestimabile.
Ha cominciato con la figlia Giordana, 27 anni, che - secondo quanto denunciato circa un mese fa dal Cobas-Codir, il sindacato che rappresenta la gran parte dei dipendenti regionali - è stata assunta come consulente per chiamata diretta (come previsto da una legge regionale del 2002) a duemila euro al mese, cioè quattro volte un suo coetaneo precario, per l'inutile ufficio di rappresentanza della Regione a Bruxelles, dove altrettanto inutilmente stazionano il giornalista Gregorio Arena, che prende quattordicimila euro al mese e finora ha realizzato solo tre numeri zero di una newsletter che avrebbe potuto preparare standosene seduto davanti al pc di casa; e poi l'ex moglie del presidente della Commissione antimafia regionale Lillo Speziale, Maria Cristina Stimolo, dirigente dell'ufficio; Loredana Basile, figlia di un deputato regionale dell'Udc; Francesca Parlagreco, figlia di uno dei tanti giornalisti che affollano o hanno affollato l'ufficio stampa della Regione; Salvatore Lupo, ex consigliere comunale amico dell'europarlamentare Pd Rosario Crocetta (uno dei più strenui sostenitori, insieme a Lumia e Cracolici, dell'inciucio regionale Pd-Mpa); e per finire Pierfrancesco Virlinzi, un cognome che non ha bisogno di sottolineare legami di parentela.
Tutto in famiglia, insomma, perché la famiglia è tutto. E siccome senza una mamma una famiglia non c'è (e per fortuna che di mamma ce n'è una sola), Campo - che da supermanager sembra guadagni fra 150 e 250.000 euro l'anno - ha pensato di completare l'opera promuovendo sua moglie e, ça va sans dire, facendo lievitare lo stipendio della mamma di Giordana come un panettone. La denuncia è ancora del Cobas-Codir, secondo cui la signora Luisa Paladino, dirigente del polo museale di Catania, con una retribuzione di oltre cinquemila euro al mese (cioè tre volte uno stipendio dignitoso), è stata nominata capo dell'Unità operativa per i beni storico-artistici della Soprintendenza etnea e d'ora in poi percepirà quasi quindicimila euro e mezzo ogni mese. Ebbene, a firmare la promozione - senza il minimo di pudore - è stato proprio il marito che, sempre stando alla denuncia del sindacato, fa figli e figliastri: per la dirigente palermitana che ricopre lo stesso incarico della signora Paladino il contratto individuale prevede infatti uno stipendio di poco più di diecimila euro mensili, mentre alla moglie di Campo ne andranno appunto quindicimila, cioè la cifra massima possibile, che per di più si aggiunge a stipendio base e indennità fissa. Che ovviamente serviranno per le spesucce: il parrucchiere, la beauty-farm, la sarta, un viaggio a Bruxelles per andare a trovare la bambina...
E adesso vediamo cosa risponderà il moralizzatore Lombardo, che sbandiera ai quattro venti un inesistente taglio delle spese, alla richiesta del sindacato di verificare quanto le decisioni a tutto campo familiare del supermanager rispettino l'allegato "A" del contratto sulla dirigenza regionale. Che all'articolo 6 così recita: "1. Il dirigente si astiene dal partecipare all’adozione di decisioni o ad attività che possano coinvolgere interessi propri ovvero: di suoi parenti entro il quarto grado o conviventi; di individui od organizzazioni con cui egli stesso o il coniuge abbia causa pendente o grave inimicizia o rapporti di credito o debito....".
Campo fu poi chiamato alla Regione da Lombardo che - impegnato com'era a superare il suo maestro di clientele e di occupazione del potere, tal Cuffaro Salvatore detto Totò, attualmente residente a Roma, al n. 72 di via Bartolo Longo -, non contento della presenza di oltre duemila dirigenti, praticamente uno ogni sei dipendenti, sentì il bisogno irrefrenabile di aggiungere nove supermanager. A Campo, forse proprio per aver avallato il tentativo di Scapagnini di svendere il patrimonio architettonico della città come se si trattasse di scarti di magazzino, toccò il compito di superdirigere il settore dei Beni culturali.
Ebbene, siccome il suo più grande bene è la famiglia, Campo deve aver pensato di trasformarlo in un bene culturale dal valore inestimabile.
Ha cominciato con la figlia Giordana, 27 anni, che - secondo quanto denunciato circa un mese fa dal Cobas-Codir, il sindacato che rappresenta la gran parte dei dipendenti regionali - è stata assunta come consulente per chiamata diretta (come previsto da una legge regionale del 2002) a duemila euro al mese, cioè quattro volte un suo coetaneo precario, per l'inutile ufficio di rappresentanza della Regione a Bruxelles, dove altrettanto inutilmente stazionano il giornalista Gregorio Arena, che prende quattordicimila euro al mese e finora ha realizzato solo tre numeri zero di una newsletter che avrebbe potuto preparare standosene seduto davanti al pc di casa; e poi l'ex moglie del presidente della Commissione antimafia regionale Lillo Speziale, Maria Cristina Stimolo, dirigente dell'ufficio; Loredana Basile, figlia di un deputato regionale dell'Udc; Francesca Parlagreco, figlia di uno dei tanti giornalisti che affollano o hanno affollato l'ufficio stampa della Regione; Salvatore Lupo, ex consigliere comunale amico dell'europarlamentare Pd Rosario Crocetta (uno dei più strenui sostenitori, insieme a Lumia e Cracolici, dell'inciucio regionale Pd-Mpa); e per finire Pierfrancesco Virlinzi, un cognome che non ha bisogno di sottolineare legami di parentela.
Tutto in famiglia, insomma, perché la famiglia è tutto. E siccome senza una mamma una famiglia non c'è (e per fortuna che di mamma ce n'è una sola), Campo - che da supermanager sembra guadagni fra 150 e 250.000 euro l'anno - ha pensato di completare l'opera promuovendo sua moglie e, ça va sans dire, facendo lievitare lo stipendio della mamma di Giordana come un panettone. La denuncia è ancora del Cobas-Codir, secondo cui la signora Luisa Paladino, dirigente del polo museale di Catania, con una retribuzione di oltre cinquemila euro al mese (cioè tre volte uno stipendio dignitoso), è stata nominata capo dell'Unità operativa per i beni storico-artistici della Soprintendenza etnea e d'ora in poi percepirà quasi quindicimila euro e mezzo ogni mese. Ebbene, a firmare la promozione - senza il minimo di pudore - è stato proprio il marito che, sempre stando alla denuncia del sindacato, fa figli e figliastri: per la dirigente palermitana che ricopre lo stesso incarico della signora Paladino il contratto individuale prevede infatti uno stipendio di poco più di diecimila euro mensili, mentre alla moglie di Campo ne andranno appunto quindicimila, cioè la cifra massima possibile, che per di più si aggiunge a stipendio base e indennità fissa. Che ovviamente serviranno per le spesucce: il parrucchiere, la beauty-farm, la sarta, un viaggio a Bruxelles per andare a trovare la bambina...
E adesso vediamo cosa risponderà il moralizzatore Lombardo, che sbandiera ai quattro venti un inesistente taglio delle spese, alla richiesta del sindacato di verificare quanto le decisioni a tutto campo familiare del supermanager rispettino l'allegato "A" del contratto sulla dirigenza regionale. Che all'articolo 6 così recita: "1. Il dirigente si astiene dal partecipare all’adozione di decisioni o ad attività che possano coinvolgere interessi propri ovvero: di suoi parenti entro il quarto grado o conviventi; di individui od organizzazioni con cui egli stesso o il coniuge abbia causa pendente o grave inimicizia o rapporti di credito o debito....".
Il Fato invece dello Stato
Sette milioni di euro. Fa impressione. Fa impressione in termini assoluti e ancora di più in termini relativi. Sette milioni di euro sono l'equivalente di circa ventiquattro appartamenti belli e ben tenuti da quattro vani nel centro storico di una città di medie dimensioni; sono 350 automobili di cilindrata medio/alta; sono settecentomila volte in pizzeria con gli amici; sono, soprattutto - dal momento che quasi più nessuno può permettersi la casa, l'auto e nemmeno l'uscita di gruppo -, per esempio, più di cinquemilatrecento stipendi medio/bassi, se ragioniamo con i parametri di un tempo, di quando la gente veniva assunta a tempo indeterminato e la retribuzione era calcolata in base al contratto nazionale di lavoro. Se invece usiamo il metro del lavoro regolato dalla legge 30, dal capitalismo "pornografico" di Berlusconi (come lo ha chiamato qualcuno, ben sapendo che la cosa più oscena è sfruttare i lavoratori e privarli dei diritti) e dal capitalismo assassino di Marchionne, quello del precariato stabile, che ha reso un ossimoro la vita stessa delle persone, allora sette milioni di euro, calcolando un lavoro da seicento euro al mese e che dura sì e no sei mesi l'anno...beh, ve lo risparmio il risultato perché è un peso insostenibile, perché non ci si può credere, perché ho rifatto la stessa operazione decine di volte con la calcolatrice e mi rifiuto di accettare quel numero sul display.
Ebbene, sette milioni di euro sono la cifra sequestrata questa mattina dalla squadra mobile di Caltanissetta a un'intera famiglia che si occupa di noleggio di videogiochi e slot-machine, cioè una delle attività più redditizie della mafia.
E diventi pazzo se cerchi di quantificare quella cifra prendendo come parametro le persone normali; e fa impressione in termini assoluti ma soprattutto in termini relativi, se pensi non solo quanti anni dovrebbero lavorare un precario e i suoi discendenti (ammesso che uno che si trovi stabilmente con le pezze al culo possa avere voglia di fare figli) ma soprattutto a dove gira questa gran quantità di soldi: la provincia di Caltanissetta. Cioè una fra le più povere d'Italia e con un tasso di disoccupazione da disperazione: in un recente rapporto di Confartigianato si legge che nel nisseno 60,4 ragazzi su cento, della fascia d'età fra 15 e 24 anni, non lavorano; mentre sono il 33,9% (contro una media nazionale del 15,9) i giovani disoccupati fino ai 35 anni di età. La famiglia a cui sono stati sequestrati i beni (società, ville, auto, terreni, come da copione), legata a Cosa nostra, aveva trovato il modo di truffare i Monopoli di Stato manomettendo le macchinette, imponendole a bar e locali della zona e poi reinvestendo i proventi nella stessa attività. Perché evidentemente la gente più è disperata, più sa di non poter aspirare a un futuro "normale" in cui si viva di lavoro, e più "tenta la fortuna" pensando che il Fato, in assenza dello Stato, possa darle una prospettiva di vita. Anche se in Sicilia il Fato si chiama mafia e prolifera proprio grazie a uno Stato che non c'è.
Ah, a proposito: qualche ora dopo, sempre stamattina, la polizia di Messina ha sequestrato beni per quattrocentocinquanta milioni di euro al gruppo imprenditoriale Bonaffini-Chiofalo, anch'esso legato alla mafia. No, non lo so quanto fa quattrocentocinquanta milioni di euro in termini di anni di lavoro di un precario, ho preferito non farlo questo conto. Però dovremmo farli tutti questi calcoli e tutti i giorni, e le maestre a scuola ai bambini non dovrebbero chiedere quanto fa cinque mele diviso tre bimbi, ma quanti anni di lavoro precario fanno i beni di una famiglia di mafiosi. Semplici divisioni, per moltiplicare l'indignazione.
Ebbene, sette milioni di euro sono la cifra sequestrata questa mattina dalla squadra mobile di Caltanissetta a un'intera famiglia che si occupa di noleggio di videogiochi e slot-machine, cioè una delle attività più redditizie della mafia.
E diventi pazzo se cerchi di quantificare quella cifra prendendo come parametro le persone normali; e fa impressione in termini assoluti ma soprattutto in termini relativi, se pensi non solo quanti anni dovrebbero lavorare un precario e i suoi discendenti (ammesso che uno che si trovi stabilmente con le pezze al culo possa avere voglia di fare figli) ma soprattutto a dove gira questa gran quantità di soldi: la provincia di Caltanissetta. Cioè una fra le più povere d'Italia e con un tasso di disoccupazione da disperazione: in un recente rapporto di Confartigianato si legge che nel nisseno 60,4 ragazzi su cento, della fascia d'età fra 15 e 24 anni, non lavorano; mentre sono il 33,9% (contro una media nazionale del 15,9) i giovani disoccupati fino ai 35 anni di età. La famiglia a cui sono stati sequestrati i beni (società, ville, auto, terreni, come da copione), legata a Cosa nostra, aveva trovato il modo di truffare i Monopoli di Stato manomettendo le macchinette, imponendole a bar e locali della zona e poi reinvestendo i proventi nella stessa attività. Perché evidentemente la gente più è disperata, più sa di non poter aspirare a un futuro "normale" in cui si viva di lavoro, e più "tenta la fortuna" pensando che il Fato, in assenza dello Stato, possa darle una prospettiva di vita. Anche se in Sicilia il Fato si chiama mafia e prolifera proprio grazie a uno Stato che non c'è.
Ah, a proposito: qualche ora dopo, sempre stamattina, la polizia di Messina ha sequestrato beni per quattrocentocinquanta milioni di euro al gruppo imprenditoriale Bonaffini-Chiofalo, anch'esso legato alla mafia. No, non lo so quanto fa quattrocentocinquanta milioni di euro in termini di anni di lavoro di un precario, ho preferito non farlo questo conto. Però dovremmo farli tutti questi calcoli e tutti i giorni, e le maestre a scuola ai bambini non dovrebbero chiedere quanto fa cinque mele diviso tre bimbi, ma quanti anni di lavoro precario fanno i beni di una famiglia di mafiosi. Semplici divisioni, per moltiplicare l'indignazione.
martedì 11 ottobre 2011
Da derubati a ladri, nel dopoguerra berlusconiano
Ladri di biciclette ieri, ladri di biciclette oggi. Economia da dopoguerra, ieri e oggi. Il paragone è immediato e automatico, al punto da apparire banale, ma è l'unico possibile. La sola differenza è che non siamo più in bianco e nero. Forse. O forse no: qualche giorno fa al mercato ho incontrato un omino che sembrava uscito da un film di Ridolini, con il suo visino smunto e latteo forato da due occhietti tondi e neri, un vestito nero di due misure più grande da cui si scorgeva appena il colletto bianco della camicia semivuoto e fluttuante. Era a cavallo della sua bicicletta, una vecchia bici sgarrupata dalle ruote enormi, alte quanto lui, come quelle che si vedono al circo; a cavallo ma non in sella. E non pedalava, ma la spingeva e la trascinava con la punta dei suoi minuscoli piedini. La sensazione era che di tutta la bici gli servisse soltanto il cestellino, altrettanto sgangherato, per metterci dentro un po' di spesa.
Ma era il suo mezzo di locomozione, come quelle tante biciclette - sempre di più, in crescita esponenziale - che da qualche tempo invadono Catania (e molte altre città) e si vede che sono state per anni appese a un chiodo, là in fondo, sulla parete di un garage, di quelle che magari una volta - quando la gente poteva permettersi la casa di villeggiatura o comunque dei periodi di vacanza - si portavano al mare o in campagna e poi venivano rimesse in letargo. Signori anziani, non fighetti radical-ambientalisti con bici da migliaia di euro, persone normali che hanno ritirato fuori le due ruote, le hanno pulite e rimesse in sesto alla meno peggio e hanno cominciato a usarle per la città: consapevoli del loro ruolo esclusivamente "utilitario", come e anche meno della Cinquecento di una volta (non questa di oggi, che costa quanto una Maserati), non uno status-symbol, non un mezzo di abbordaggio. Semplicemente un mezzo per muoversi da un punto all'altro della città, non stressarsi, non spendere soldi di benzina bollo assicurazione meccanico carrozziere gommista multe posteggio. Fenomeno direttamente proporzionale, questo della proliferazione delle biciclette, a quello delle auto abbandonate invece lungo i marciapiedi con l'assicurazione scaduta da un po' e mai più rinnovata. Scelta obbligata, più economica che ecologica. E, in fondo, è l'unico effetto positivo di questo capitalismo selvaggio che sta fagocitando se stesso, nutrendosi degli esseri umani, comprandoli a peso, usandoli come merci e gettandoli via quando non servono più.
Dall'altra parte, l'altra faccia della stessa medaglia: i furti di biciclette. Che la rubi a fare una macchina, a chi la rivendi, a chi li vendi i pezzi di ricambio dopo averle smantellate se la gente non si può più nemmeno permettere un'auto di quarta mano, da ricomporre come un patchwork? E tornano i ladri di biciclette. Negli ultimi mesi a guardare le agenzie di stampa e i siti internet è un'alluvione di notizie simili, al nord come al sud. A San Nicola La Strada, in provincia di Caserta, ad essere derubato è stato un maresciallo dell'esercito che usava la bici per andare a prendere l'autobus e andare al lavoro a Napoli. Gli hanno lasciato solo la catena. A Castellanza, nel varesotto, a restare a piedi sono stati tutti i pendolari: sono scesi dal treno e delle loro bici non c'era traccia. A Palermo un signore è stato derubato delle sue due ruote tre volte nell'ultimo anno: l'ultima volta, due settimane fa, i ladri di biciclette per mettere a segno il colpo hanno segato il tronco di un platano alto quattro metri al quale era legata la catena.
Quanto agli autori dei furti, anche in questo caso si tratta di due facce della stessa medaglia: da un lato il berlusconismo mediatico che ti fa aspirare all'eccesso, dall'altro il berlusconismo di (presunto) governo, quello del liberismo selvaggio che fa pagare la crisi ai più deboli, tagliando stipendi, pensioni e servizi. In Piemonte un gruppo di sei ragazzi rubava le bici ai pendolari ma anche nei negozi, spaccando le vetrine e distruggendo tutto. Poi con il bottino (250.000 euro in alcuni mesi), annegavano la loro balordaggine in vestiti firmati e champagne. A Roma, invece, il ladro era un pensionato di 74 anni - una sorta di Capannelle, per restare in ambito cinematografico -, che con passepartout e tronchese ormai da anni ha fatto del furto di biciclette il suo nuovo lavoro. Del suo vecchio lavoro di barbiere, esercitato per trent'anni, gli restava una pensione di 280 euro al mese. Qualcuno lo ha intervistato e lui ha parlato di necessità e di vergogna: della vergogna sua e di quella che i suoi familiari provano per lui: "Mio figlio non è come me. Lui è una persona perbene, ha studiato tanto e io sono orgoglioso di lui. Fa un lavoro importante, lo so che si vergogna di me e fa anche bene. Ma un padre - almeno per l'educazione che ho ricevuto io - non deve mai chiedere soldi al proprio figlio. È il padre che deve mantenere moglie e figli. Che crede che non mi vergogni per quello che faccio quando penso a lui? Mi sono ridotto a fare l'accattone, il ladro e lui invece è il mio orgoglio, così bravo nel suo lavoro. E poi anche dentro casa le cose non vanno più, una mortificazione continua. Ogni volta che esco a fare un giro e poi torno a casa mia moglie mi guarda con la faccia di disgusto, è tutto un litigio. Ormai lo sa che quando torno vuol dire che m'è andata bene e quando non torno sto al carcere".
Vergogna. Vergogna che dovrebbero provare quelli che hanno ridotto questo Paese in un Paese da dopoguerra, dove vivere di espedienti e di piccoli imbrogli diventa quasi una necessità. Vergogna che dovrebbe provare chi ha fatto credere a quei sei ragazzi piemontesi che la vita sia champagne e giubbotti di marca. Vergogna che dovrebbe provare chi ha tramutato un intero popolo in un esercito di disperati e costretto i derubati a trasformarsi in ladri.
Ma era il suo mezzo di locomozione, come quelle tante biciclette - sempre di più, in crescita esponenziale - che da qualche tempo invadono Catania (e molte altre città) e si vede che sono state per anni appese a un chiodo, là in fondo, sulla parete di un garage, di quelle che magari una volta - quando la gente poteva permettersi la casa di villeggiatura o comunque dei periodi di vacanza - si portavano al mare o in campagna e poi venivano rimesse in letargo. Signori anziani, non fighetti radical-ambientalisti con bici da migliaia di euro, persone normali che hanno ritirato fuori le due ruote, le hanno pulite e rimesse in sesto alla meno peggio e hanno cominciato a usarle per la città: consapevoli del loro ruolo esclusivamente "utilitario", come e anche meno della Cinquecento di una volta (non questa di oggi, che costa quanto una Maserati), non uno status-symbol, non un mezzo di abbordaggio. Semplicemente un mezzo per muoversi da un punto all'altro della città, non stressarsi, non spendere soldi di benzina bollo assicurazione meccanico carrozziere gommista multe posteggio. Fenomeno direttamente proporzionale, questo della proliferazione delle biciclette, a quello delle auto abbandonate invece lungo i marciapiedi con l'assicurazione scaduta da un po' e mai più rinnovata. Scelta obbligata, più economica che ecologica. E, in fondo, è l'unico effetto positivo di questo capitalismo selvaggio che sta fagocitando se stesso, nutrendosi degli esseri umani, comprandoli a peso, usandoli come merci e gettandoli via quando non servono più.
Dall'altra parte, l'altra faccia della stessa medaglia: i furti di biciclette. Che la rubi a fare una macchina, a chi la rivendi, a chi li vendi i pezzi di ricambio dopo averle smantellate se la gente non si può più nemmeno permettere un'auto di quarta mano, da ricomporre come un patchwork? E tornano i ladri di biciclette. Negli ultimi mesi a guardare le agenzie di stampa e i siti internet è un'alluvione di notizie simili, al nord come al sud. A San Nicola La Strada, in provincia di Caserta, ad essere derubato è stato un maresciallo dell'esercito che usava la bici per andare a prendere l'autobus e andare al lavoro a Napoli. Gli hanno lasciato solo la catena. A Castellanza, nel varesotto, a restare a piedi sono stati tutti i pendolari: sono scesi dal treno e delle loro bici non c'era traccia. A Palermo un signore è stato derubato delle sue due ruote tre volte nell'ultimo anno: l'ultima volta, due settimane fa, i ladri di biciclette per mettere a segno il colpo hanno segato il tronco di un platano alto quattro metri al quale era legata la catena.
Quanto agli autori dei furti, anche in questo caso si tratta di due facce della stessa medaglia: da un lato il berlusconismo mediatico che ti fa aspirare all'eccesso, dall'altro il berlusconismo di (presunto) governo, quello del liberismo selvaggio che fa pagare la crisi ai più deboli, tagliando stipendi, pensioni e servizi. In Piemonte un gruppo di sei ragazzi rubava le bici ai pendolari ma anche nei negozi, spaccando le vetrine e distruggendo tutto. Poi con il bottino (250.000 euro in alcuni mesi), annegavano la loro balordaggine in vestiti firmati e champagne. A Roma, invece, il ladro era un pensionato di 74 anni - una sorta di Capannelle, per restare in ambito cinematografico -, che con passepartout e tronchese ormai da anni ha fatto del furto di biciclette il suo nuovo lavoro. Del suo vecchio lavoro di barbiere, esercitato per trent'anni, gli restava una pensione di 280 euro al mese. Qualcuno lo ha intervistato e lui ha parlato di necessità e di vergogna: della vergogna sua e di quella che i suoi familiari provano per lui: "Mio figlio non è come me. Lui è una persona perbene, ha studiato tanto e io sono orgoglioso di lui. Fa un lavoro importante, lo so che si vergogna di me e fa anche bene. Ma un padre - almeno per l'educazione che ho ricevuto io - non deve mai chiedere soldi al proprio figlio. È il padre che deve mantenere moglie e figli. Che crede che non mi vergogni per quello che faccio quando penso a lui? Mi sono ridotto a fare l'accattone, il ladro e lui invece è il mio orgoglio, così bravo nel suo lavoro. E poi anche dentro casa le cose non vanno più, una mortificazione continua. Ogni volta che esco a fare un giro e poi torno a casa mia moglie mi guarda con la faccia di disgusto, è tutto un litigio. Ormai lo sa che quando torno vuol dire che m'è andata bene e quando non torno sto al carcere".
Vergogna. Vergogna che dovrebbero provare quelli che hanno ridotto questo Paese in un Paese da dopoguerra, dove vivere di espedienti e di piccoli imbrogli diventa quasi una necessità. Vergogna che dovrebbe provare chi ha fatto credere a quei sei ragazzi piemontesi che la vita sia champagne e giubbotti di marca. Vergogna che dovrebbe provare chi ha tramutato un intero popolo in un esercito di disperati e costretto i derubati a trasformarsi in ladri.
lunedì 10 ottobre 2011
Aumento della produzione e aziende in crisi. C'è qualcosa che non torna
Io di numeri non ne capisco e ancor meno di economia. Se non, forse, di quella domestica: che, quando hai finito di pagare le bollette di luce, acqua, gas telefono, se restano soldi mangi, altrimenti archivi la pratica. Come fanno, ormai, miglia di siciliani e milioni di italiani. E dunque, se non fosse che appartengo appunto alla schiera sempre più numerosa di quelli che - avendo smesso da un pezzo di comprare libri e giornali, andare al cinema, a teatro e in vacanza - quando hanno bisogno del caffè aspettano di essere a casa per prepararsene uno, i miei potrebbero essere definiti discorsi da bar. Perciò qualcuno mi dovrebbe spiegare il nesso che c'è fra due notizie: la prima, fresca di giornata, è che l'Istat ci comunica un "inatteso balzo della produzione industriale in Italia nel mese di agosto", del 4,3%, aggiungendo in toni trionfalistici che si tratta del dato migliore degli ultimi undici anni e che addirittura la produzione di autoveicoli è cresciuta del 31,7%; la seconda - contenuta in un'inchiesta di "A sud'Europa", il settimanale del Centro Pio La Torre - è che in Sicilia nei primi sei mesi del 2011 sono state chiuse ben 20.000 aziende.
Il periodico si concentra particolarmente sulle imprese della provincia di Palermo e l'elenco è agghiacciante, a partire dalla Fiat che già da qualche anno ha mandato a casa migliaia di gente e diminuito gradualmente la produzione (evidentemente secondo l'Istat la Sicilia non è in Italia, altrimenti sarebbe bastato il solo dato di Termini Imerese a mandare a gambe per aria le magnifiche sorti e progressive della balla filogovernativa sull'aumento della produzione di autoveicoli, che comunque non reggerebbe nemmeno sostenendo che Marchionne si sia fermato ad Eboli, invece di andarsene a fare soldi fuori dall'Italia); poi c'è Fincantieri che ha smesso di fare navi e si limita alle riparazioni, che in termini di esseri umani in carne ed ossa vuol dire 220 operai su 500 in cassa integrazione; c'è la Keller che di operai in cassa integrazione ne ha 200 su 200 e che per tutti ha avviato le pratiche per la mobilità (che altro non significa se non licenziamento) con l'obiettivo di chiudere al più presto; c'è Palitalia che produceva pali e pensava di riconvertirsi per produrre pannelli fotovoltaici, ma il governo nazionale ha tagliato gli incentivi e così anche qui il 100% degli operai è in cassa integrazione: 55 su 55; altrettanti quelli della Effedi di Carini messi in mobilità e oltre mille gli operai edili licenziati in meno di un anno.
Già basterebbero questi numeri a far dire che la Sicilia annega nella disoccupazione: tre/quattromila operai solo nella provincia di Palermo, in una terra dove sono ancora tantissime le famiglie monoreddito, vuol dire bambini a rischio cibo, ragazzi che non potranno andare a scuola, giovani che non potranno pagarsi l'università, servi che dovranno decidere se abbandonare la loro terra o elemosinare in un patronato in cambio di voti un lavoro a tre mesi o infine farsi assumere dalla più grande azienda italiana che non si chiama Fiat, ma Mafia SpA. E poi, giusto per limitarci alle due province principali, ci possiamo aggiungere i dati di Catania: soltanto qualche giorno fa la St Microelectronics, che ci si ostina a definire azienda leader nella produzione di componenti elettronici, ha avviato la cassa integrazione per 2.200 dipendenti che, calcolando una famiglia media di tre persone, vuol dire la popolazione di alcuni centri della provincia come Vizzini, Linguaglossa, Mirabella Imbaccari, Calatabiano....un intero paese raso al suolo. Poi ci aggiungiamo Pfizer, Numonix, Sat, Cesame e sono altre migliaia di famiglie che ogni giorno si svegliano sapendo che il loro futuro è già passato. E aggiungiamoci, ancora, il colpevole disinteresse di un governo regionale di destra che negli ultimi anni ha ampliato a dismisura la lista dei propri consulenti e spostato gli uffici di collocamento nelle sedi dell'Mpa, il partito del governatore che prende i voti dai mafiosi, puntellato - in cambio della gestione di qualche patronato dove esercitare la clientela - da una parte sostanziosa di quel Pd che andrebbe denunciato per millantato credito per la sua ostinazione a volersi definire erede del Pci di Pio La Torre.
La denuncia del presidente della Confesercenti siciliana, Giovanni Felice, intervistato proprio da "A sud'Europa", è secca: "...parte dei finanziamenti per la cassa integrazione sono stati dirottati sulla formazione e non sulle aziende in crisi". In pratica quei soldi sono serviti a rendere ancora più profondo quel pozzo senza fondo di clientele che è la formazione, per la gioia dell'assessore Centorrino, entrato nella giunta Lombardo spacciandosi per tecnico, ma con la tessera del Pd in tasca. I lavoratori delle fabbriche ringraziano gli ex compagni. Comunque aspetto ancora che qualcuno mi spieghi perché l'Istat ci racconta la balla dell'aumento della produzione nelle fabbriche italiane, soprattutto quelle dove si fabbricano autoveicoli. E ancora: dopo che le hanno fabbricate, chi se le compra dal momento che con la scusa della crisi stanno impoverendo sempre di più i lavoratori? Ma forse parlavano dei Suv, che Marchionne venderà certamente ai mafiosi e agli evasori fiscali.
Il periodico si concentra particolarmente sulle imprese della provincia di Palermo e l'elenco è agghiacciante, a partire dalla Fiat che già da qualche anno ha mandato a casa migliaia di gente e diminuito gradualmente la produzione (evidentemente secondo l'Istat la Sicilia non è in Italia, altrimenti sarebbe bastato il solo dato di Termini Imerese a mandare a gambe per aria le magnifiche sorti e progressive della balla filogovernativa sull'aumento della produzione di autoveicoli, che comunque non reggerebbe nemmeno sostenendo che Marchionne si sia fermato ad Eboli, invece di andarsene a fare soldi fuori dall'Italia); poi c'è Fincantieri che ha smesso di fare navi e si limita alle riparazioni, che in termini di esseri umani in carne ed ossa vuol dire 220 operai su 500 in cassa integrazione; c'è la Keller che di operai in cassa integrazione ne ha 200 su 200 e che per tutti ha avviato le pratiche per la mobilità (che altro non significa se non licenziamento) con l'obiettivo di chiudere al più presto; c'è Palitalia che produceva pali e pensava di riconvertirsi per produrre pannelli fotovoltaici, ma il governo nazionale ha tagliato gli incentivi e così anche qui il 100% degli operai è in cassa integrazione: 55 su 55; altrettanti quelli della Effedi di Carini messi in mobilità e oltre mille gli operai edili licenziati in meno di un anno.
Già basterebbero questi numeri a far dire che la Sicilia annega nella disoccupazione: tre/quattromila operai solo nella provincia di Palermo, in una terra dove sono ancora tantissime le famiglie monoreddito, vuol dire bambini a rischio cibo, ragazzi che non potranno andare a scuola, giovani che non potranno pagarsi l'università, servi che dovranno decidere se abbandonare la loro terra o elemosinare in un patronato in cambio di voti un lavoro a tre mesi o infine farsi assumere dalla più grande azienda italiana che non si chiama Fiat, ma Mafia SpA. E poi, giusto per limitarci alle due province principali, ci possiamo aggiungere i dati di Catania: soltanto qualche giorno fa la St Microelectronics, che ci si ostina a definire azienda leader nella produzione di componenti elettronici, ha avviato la cassa integrazione per 2.200 dipendenti che, calcolando una famiglia media di tre persone, vuol dire la popolazione di alcuni centri della provincia come Vizzini, Linguaglossa, Mirabella Imbaccari, Calatabiano....un intero paese raso al suolo. Poi ci aggiungiamo Pfizer, Numonix, Sat, Cesame e sono altre migliaia di famiglie che ogni giorno si svegliano sapendo che il loro futuro è già passato. E aggiungiamoci, ancora, il colpevole disinteresse di un governo regionale di destra che negli ultimi anni ha ampliato a dismisura la lista dei propri consulenti e spostato gli uffici di collocamento nelle sedi dell'Mpa, il partito del governatore che prende i voti dai mafiosi, puntellato - in cambio della gestione di qualche patronato dove esercitare la clientela - da una parte sostanziosa di quel Pd che andrebbe denunciato per millantato credito per la sua ostinazione a volersi definire erede del Pci di Pio La Torre.
La denuncia del presidente della Confesercenti siciliana, Giovanni Felice, intervistato proprio da "A sud'Europa", è secca: "...parte dei finanziamenti per la cassa integrazione sono stati dirottati sulla formazione e non sulle aziende in crisi". In pratica quei soldi sono serviti a rendere ancora più profondo quel pozzo senza fondo di clientele che è la formazione, per la gioia dell'assessore Centorrino, entrato nella giunta Lombardo spacciandosi per tecnico, ma con la tessera del Pd in tasca. I lavoratori delle fabbriche ringraziano gli ex compagni. Comunque aspetto ancora che qualcuno mi spieghi perché l'Istat ci racconta la balla dell'aumento della produzione nelle fabbriche italiane, soprattutto quelle dove si fabbricano autoveicoli. E ancora: dopo che le hanno fabbricate, chi se le compra dal momento che con la scusa della crisi stanno impoverendo sempre di più i lavoratori? Ma forse parlavano dei Suv, che Marchionne venderà certamente ai mafiosi e agli evasori fiscali.
venerdì 7 ottobre 2011
Una mano sul viso e una mano sulla coscienza
Ieri sera alla Festa della Federazione della Sinistra a Catania si parlava di governo regionale, di quell'esempio di consociativismo, corruzione e clientelismo che è il governo regionale siciliano a guida Mpa e trazione posteriore Pd. C'erano quelli della FdS, al tavolo dei relatori, ovviamente, c'erano l'IdV e Sel; e c'era il parlamentare del Pd Giovanni Burtone, uno dei pochi e dei primi nel suo partito ad opporsi alla decisione di sostenere un governo guidato da uno che incontra i mafiosi. Si passava di frequente la mano sul viso, Giovanni Burtone, come a voler allontanare qualcosa di fastidioso, un moscerino, una ragnatela, e chissà se fra le tante telefonate che gli sono arrivate mentre era seduto al tavolo dei relatori c'era quella che lo informava della chiusura delle indagini e dunque dell'accusa di abuso d'ufficio mossa al signor Finocchiaro. Cioè, il signor Melchiorre Fidelbo in Finocchiaro, un tempo medico e adesso imprenditore della sanità che, grazie al sostegno della moglie - uomo forte del Pd - al governo di Raffaele Lombardo, circa un anno fa ha ottenuto senza gara l'appalto per l'informatizzazione del Pta (presidio territoriale di assistenza) di Giarre, appalto bandito (e in che altro modo si potrebbe definire?) senza gara - tanto che poi fu annullato - e con una delibera fatta in casa dall'Asp di Catania al tempo guidata da Giuseppe Calaciura, segretario dell'Mpa di Biancavilla, anch'egli indagato insieme al direttore amministrativo dell'Asp, Giovanni Puglisi, ex Udc e ora uomo di Lombardo, e alla responsabile del procedimento, Elisabetta Caponetto, vedova dell'ex vicesindaco Ds di Catania, Paolo Berretta, padre del deputato del Pd (e aspirante candidato sindaco di Catania) Giuseppe Berretta, che infatti quando cominciarono a venir fuori le prime voci sulla porcata di famiglia si premurò di correre in difesa dell'amica senatrice. La stessa che si guarda bene dal candidarsi in Sicilia e preferisce collegi sicuri al nord e che - come ricordato durante il dibattito di ieri -, quando fu candidata dal centrosinistra alla presidenza della Regione contro il candidato del centrodestra Raffaele Lombardo, arraffò i voti, non si abbassò ovviamente (noblesse oblige) a sporcarsi le mani facendo il capo dell'opposizione e poco tempo dopo non provò la minima vergogna ad avallare e sostenere l'annessione del suo partito al governo della mafia. Anzi, arrogante proprio come chi gestisce il potere per il potere, rispose stizzita a quanti la contestavano proprio nel giorno dell'inaugurazione di quel Pta di Giarre che stava regalando un appalto milionario a suo marito. Le gridavano "vergogna" e lei rispose sprezzante: "Vergogna di che?". Forse oggi che la chiusura delle indagini assegna a suo marito, amministratore unico della Solsamb (beneficiaria di quell'appalto), il ruolo di "determinatore - secondo quanto scrive la Procura di Catania - o comunque di istigatore della condotta del Calaciura, del Puglisi e della Caponetto, predisponendo l'atto di convenzione allegato alla delibera" e "proponendo la stipula all'Asp di Catania", quindi oggi che i magistrati lo indicano come una sorta di manovratore occulto e di traffichino, forse la senatrice Finocchiaro un po' di vergogna potrebbe provarla. Perché anche ammesso che lei non c'entri niente con quest'appalto (ma è un po' difficile crederlo, dal momento che le foto la raffigurano sorridente all'inaugurazione del Pta di Giarre insieme all'assessore alla Sanità, Massimo Russo, gran riformatore di clientele), e soprattutto se lei non dovesse entrarci niente (come sopra), e ferma restando la presunzione d'innocenza fino all'ultimo grado di giudizio, un po' di vergogna per quello che avrebbe fatto suo marito dovrebbe provarla. Ma dovrebbe provarne molta di più per avere consegnato la Sicilia alla mafia e per avere beffato e truffato gli elettori di sinistra. E magari, se avesse un po' di dignità, dovrebbe fare come fanno quelli che la dignità non l'hanno perduta e che, pur non essendo "colpevoli", si vergognano delle malefatte degli altri: dovrebbe fare come Giovanni Burtone e passarsi la mano sul viso per togliere la vergogna. E possibilmente, anche, passarsi una mano sulla coscienza e dimettersi dal suo "prestigioso incarico".
lunedì 3 ottobre 2011
Comunisti in festa a Catania
Quando i manifesti erano quasi pronti, Pierpaolo ha detto: "Li portano qui, da noi". E Marco gli ha risposto: "Cos'hai detto? Ripeti!". Glielo ha fatto ripetere tre volte quel "da noi", non ci poteva credere.
Quanta fatica abbiamo fatto: anni di diffidenze, di rancori, di malintesi. Come quando in una famiglia c'è un non detto, magari una cosa piccola, un sassolino che si trasforma in una montagna a furia di non parlarne. Poi un giorno ci si incontra e si scopre che ci si vuole bene.
E adesso i manifesti li portano "da noi". "Da noi" è la (ormai ex) sede di Catania dei Comunisti italiani, al 17 di via Paternò (un indirizzo a cui voglio particolarmente bene perché lì, circa quarant'anni fa, c'era la sede del Movimento studentesco), che adesso è la casa di tutti i comunisti. Insomma, siamo andati a vivere insieme! E i manifesti sono quelli della festa, la I Festa regionale della Federazione della Sinistra, dei comunisti che fanno le cose insieme perché ci sono cose importanti che li uniscono - la difesa del lavoro, la lotta alla mafia, la legalità, i diritti -, cose troppo importanti che dovrebbero essere il fondamento di un Paese democratico e civile e che in questo Paese siamo rimasti in pochi a difendere.
Non lo facciamo solo per noi: lo facciamo perché questo Paese non merita un governo di faccendieri, corruttori, mafiosi, puttanieri, servi; lo facciamo perché la Sicilia non merita un governo guidato da un presidente che frequenta i boss, che nega il diritto alla salute chiudendo gli ospedali e quello al lavoro trasformando i cittadini in questuanti da vessare e sottomere e inserire nel libro delle clientele, e non merita il tradimento di un presunto partito di opposizione che ha svenduto i siciliani per guadagnare anch'esso qualche briciola di potere e un po' di clientele da gestire; lo facciamo perché la nostra città - Catania - merita di più di un sindaco incapace di risanare il bilancio e che sperpera il denaro pubblico in consulenze, che sa solo tartassare i cittadini con multe e tasse alle quali non corrispondono servizi, che ha ridotto il centro storico in un letamaio e annuncia piani per il traffico nei quali non c'è posto per i bambini, per gli anziani, per i ciclisti, per i pedoni, insomma per la vita.
Da domani comincia la festa e i comunisti ci saranno senza aggettivi e senza distinguo: soltanto con la voglia di fare le cose insieme, per noi e per tutti gli altri. Spero di farvi un resoconto giornaliero non solo dei dibattiti, ma soprattutto delle sensazioni e delle emozioni. Ammesso che io riesca a non farmi travolgere totalmente dall'entusiasmo di un progetto in cui credo fermamente e in quel caso è probabile che io mi dimentichi persino di scrivere (che per me, come sanno quelli che mi conoscono, è come respirare). Sì, lo so, sono un'inguaribile romantica anche un po' démodée, ma ci credo.
E siccome sono romantica, démodée, passionale e incazzosa, vi avverto: non mi deludete, compagni, non mettetevi a fare i gruppettari ché non è più tempo, fatemi vedere che ci credete anche voi e che siete consapevoli della grande responsabilità che abbiamo verso il nostro Paese e la nostra gente, soprattutto quei tanti comunisti senza tessera che se ne sono andati perché delusi dalle nostri divisioni passate. Perché appena vedo due che accennano a litigare, giuro che li prendo a pugni!
sabato 1 ottobre 2011
Malati di tumore, fonte di profitto
Il ddl sulle intercettazioni è già in calendario alla Camera per la settimana prossima, il Ministro della Giustizia dice che bisogna "fare in fretta", il governo non esclude di porre ancora una volta la questione di fiducia per portare subito a casa il risultato, Casini parla a nome del terzo polo e dice che si può fare...le intercettazioni fra qualche giorno potrebbero essere vietate per legge, le indagini potrebbero essere vietate per legge, la legge stessa potrebbe essere vietata per legge. Un regalo a faccendieri, mafiosi, corruttori, assassini.
Come quegli assassini - certo, se le accuse verranno confermate -, i responsabili della casa di cura Latteri di Palermo, una clinica privata di quel migliaio (pari a quelle di tutto il resto d'Italia) convenzionate con la Regione e principale serbatoio di voto clientelare, dove ai malati di tumore per risparmiare non veniva somministrata l'albumina, un disintossicante che di solito si dà a chi si sottopone alla chemioterapia.
I Nas, che da oltre tre anni indagano sulla gestione di tre cliniche palermitane (oltre la Latteri, anche la Maddalena e la Noto-Pasqualino), lo hanno scoperto proprio grazie a un'intercettazione. A parlare al telefono sono prima un paziente e la dottoressa Maria Rosaria Valerio: l'uomo dice di essere rosso in viso e negli occhi e chiede perché non gli sia stato fatto il Tad, la professionista cerca di metterci una pezza, dice che "non succede niente", poi però chiama un collega e lo sollecita a "parlare con... perché oggi si sono sentiti male tutti. Così non si può vivere anche per una questione di coscienza". Alla fine ci parla lei con. Cioè con la Latteri: "Glielo devi fare, il paziente vomita, si disidrata". La risposta provoca il vomito come la mancata somministrazione di albumina: "Allora - non hai capito che la prassi che fai tu costa alla clinica 250 euro e quello ce ne dà 100?". Quello sarebbe l'assessore alla Sanità, Massimo Russo, la cui riforma epocale "adotta sistemi rigidi sulla sanità pubblica - denuncia Renato Costa, segretario regionale della Cgil medici - ma non riscontro la stessa solerzia sul fronte del privato: stando alla recente relazione della Corte dei conti, i costi del settore aumentano e gravano sulle casse pubbliche". Secondo Costa, "Nel privato non ci sono stati tagli, sul pubblico sì". Non solo: per Costa nel privato non ci sarebbero controlli: lì "un medico di guardia può coprire cinque reparti. Questo negli ospedali pubblici, pur tartassati dalla riforma, non può avvenire".
Grazie alle intercettazioni, oltre alla speculazione sulla pelle di malati gravissimi gli inquirenti hanno scoperto che la truffa all'azienda sanitaria è di circa un milione e duecentomila euro, che un paio di medici facevano il solito giochetto di dirottare i pazienti verso le cliniche con la scusa che negli ospedali non c'era posto e persino che c'era un finto internista mai laureato.
Nessun controllo, appunto, come dice Renato Costa. E intanto cade dal pero l'assessore Russo (come qualche giorno fa, quando scoprì per caso che all'Asp di Siracusa avevano assegnato una consulenza al marito dell'assessore agli Enti locali, Caterina Chinnici, senza pubblicizzare l'affidamento dell'incarico e dunque contravvenendo alla legge sulla trasparenza), assicurando che il suo assessorato sta seguendo da vicino la vicenda che, naturalmente, rientra in "quel tipo di sistema che abbiamo ereditato" - quello del fratello di latte di Raffaele Lombardo, Totò Cuffaro - e, giusto per non farci mancare niente, fa pure la vittima e si dichiara (come da copione) "scomodo", come se questo fosse un complotto ai suoi danni perché "a molti non piace il mio concreto agire per fare rispettare le regole che ovviamente valgono per tutti, per il pubblico e per il privato".
Esilarante poi, se non fosse da prenderli a pugni, dal momento che negano l'evidenza, la difesa dei responsabili della clinica Latteri: "quanto riportato in merito alla mancata o ridotta somministrazione di farmaci ai degenti è destituito di ogni fondamento e frutto di un'arbitraria e fuorviante ricostruzione dei fatti". Destituito di ogni fondamento? A differenza di un pentito, che si può intimidire, minacciare, fare fuori, l'intercettazione (finché questo governo non l'ammazza) è lì e dice esattamente quelle cose: che chi se ne fotte dei malati, bisogna solo pensare al profitto. E possibilmente ai pacchetti di voti da procurare per farsi rinnovare le convenzioni.
Come quegli assassini - certo, se le accuse verranno confermate -, i responsabili della casa di cura Latteri di Palermo, una clinica privata di quel migliaio (pari a quelle di tutto il resto d'Italia) convenzionate con la Regione e principale serbatoio di voto clientelare, dove ai malati di tumore per risparmiare non veniva somministrata l'albumina, un disintossicante che di solito si dà a chi si sottopone alla chemioterapia.
I Nas, che da oltre tre anni indagano sulla gestione di tre cliniche palermitane (oltre la Latteri, anche la Maddalena e la Noto-Pasqualino), lo hanno scoperto proprio grazie a un'intercettazione. A parlare al telefono sono prima un paziente e la dottoressa Maria Rosaria Valerio: l'uomo dice di essere rosso in viso e negli occhi e chiede perché non gli sia stato fatto il Tad, la professionista cerca di metterci una pezza, dice che "non succede niente", poi però chiama un collega e lo sollecita a "parlare con... perché oggi si sono sentiti male tutti. Così non si può vivere anche per una questione di coscienza". Alla fine ci parla lei con. Cioè con la Latteri: "Glielo devi fare, il paziente vomita, si disidrata". La risposta provoca il vomito come la mancata somministrazione di albumina: "Allora - non hai capito che la prassi che fai tu costa alla clinica 250 euro e quello ce ne dà 100?". Quello sarebbe l'assessore alla Sanità, Massimo Russo, la cui riforma epocale "adotta sistemi rigidi sulla sanità pubblica - denuncia Renato Costa, segretario regionale della Cgil medici - ma non riscontro la stessa solerzia sul fronte del privato: stando alla recente relazione della Corte dei conti, i costi del settore aumentano e gravano sulle casse pubbliche". Secondo Costa, "Nel privato non ci sono stati tagli, sul pubblico sì". Non solo: per Costa nel privato non ci sarebbero controlli: lì "un medico di guardia può coprire cinque reparti. Questo negli ospedali pubblici, pur tartassati dalla riforma, non può avvenire".
Grazie alle intercettazioni, oltre alla speculazione sulla pelle di malati gravissimi gli inquirenti hanno scoperto che la truffa all'azienda sanitaria è di circa un milione e duecentomila euro, che un paio di medici facevano il solito giochetto di dirottare i pazienti verso le cliniche con la scusa che negli ospedali non c'era posto e persino che c'era un finto internista mai laureato.
Nessun controllo, appunto, come dice Renato Costa. E intanto cade dal pero l'assessore Russo (come qualche giorno fa, quando scoprì per caso che all'Asp di Siracusa avevano assegnato una consulenza al marito dell'assessore agli Enti locali, Caterina Chinnici, senza pubblicizzare l'affidamento dell'incarico e dunque contravvenendo alla legge sulla trasparenza), assicurando che il suo assessorato sta seguendo da vicino la vicenda che, naturalmente, rientra in "quel tipo di sistema che abbiamo ereditato" - quello del fratello di latte di Raffaele Lombardo, Totò Cuffaro - e, giusto per non farci mancare niente, fa pure la vittima e si dichiara (come da copione) "scomodo", come se questo fosse un complotto ai suoi danni perché "a molti non piace il mio concreto agire per fare rispettare le regole che ovviamente valgono per tutti, per il pubblico e per il privato".
Esilarante poi, se non fosse da prenderli a pugni, dal momento che negano l'evidenza, la difesa dei responsabili della clinica Latteri: "quanto riportato in merito alla mancata o ridotta somministrazione di farmaci ai degenti è destituito di ogni fondamento e frutto di un'arbitraria e fuorviante ricostruzione dei fatti". Destituito di ogni fondamento? A differenza di un pentito, che si può intimidire, minacciare, fare fuori, l'intercettazione (finché questo governo non l'ammazza) è lì e dice esattamente quelle cose: che chi se ne fotte dei malati, bisogna solo pensare al profitto. E possibilmente ai pacchetti di voti da procurare per farsi rinnovare le convenzioni.
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