martedì 11 ottobre 2011

Da derubati a ladri, nel dopoguerra berlusconiano

Ladri di biciclette ieri, ladri di biciclette oggi. Economia da dopoguerra, ieri e oggi. Il paragone è immediato e automatico, al punto da apparire banale, ma è l'unico possibile. La sola differenza è che non siamo più in bianco e nero. Forse. O forse no: qualche giorno fa al mercato ho incontrato un omino che sembrava uscito da un film di Ridolini, con il suo visino smunto e latteo forato da due occhietti tondi e neri, un vestito nero di due misure più grande da cui si scorgeva appena il colletto bianco della camicia semivuoto e fluttuante. Era a cavallo della sua bicicletta, una vecchia bici sgarrupata dalle ruote enormi, alte quanto lui, come quelle che si vedono al circo; a cavallo ma non in sella. E non pedalava, ma la spingeva e la trascinava con la punta dei suoi minuscoli piedini. La sensazione era che di tutta la bici gli servisse soltanto il cestellino, altrettanto sgangherato, per metterci dentro un po' di spesa.
Ma era il suo mezzo di locomozione, come quelle tante biciclette - sempre di più, in crescita esponenziale - che da qualche tempo invadono Catania (e molte altre città) e si vede che sono state per anni appese a un chiodo, là in fondo, sulla parete di un garage, di quelle che magari una volta - quando la gente poteva permettersi la casa di villeggiatura o comunque dei periodi di vacanza - si portavano al mare o in campagna e poi venivano rimesse in letargo. Signori anziani, non fighetti radical-ambientalisti con bici da migliaia di euro, persone normali che hanno ritirato fuori le due ruote, le hanno pulite e rimesse in sesto alla meno peggio e hanno cominciato a usarle per la città: consapevoli del loro ruolo esclusivamente "utilitario", come e anche meno della Cinquecento di una volta (non questa di oggi, che costa quanto una Maserati), non uno status-symbol, non un mezzo di abbordaggio. Semplicemente un mezzo per muoversi da un punto all'altro della città, non stressarsi, non spendere soldi di benzina bollo assicurazione meccanico carrozziere gommista multe posteggio. Fenomeno direttamente proporzionale, questo della proliferazione delle biciclette, a quello delle auto abbandonate invece lungo i marciapiedi con l'assicurazione scaduta da un po' e mai più rinnovata. Scelta obbligata, più economica che ecologica. E, in fondo, è l'unico effetto positivo di questo capitalismo selvaggio che sta fagocitando se stesso, nutrendosi degli esseri umani, comprandoli a peso, usandoli come merci e gettandoli via quando non servono più.
Dall'altra parte, l'altra faccia della stessa medaglia: i furti di biciclette. Che la rubi a fare una macchina, a chi la rivendi, a chi li vendi i pezzi di ricambio dopo averle smantellate se la gente non si può più nemmeno permettere un'auto di quarta mano, da ricomporre come un patchwork? E tornano i ladri di biciclette. Negli ultimi mesi a guardare le agenzie di stampa e i siti internet è un'alluvione di notizie simili, al nord come al sud. A San Nicola La Strada, in provincia di Caserta, ad essere derubato è stato un maresciallo dell'esercito che usava la bici per andare a prendere l'autobus e andare al lavoro a Napoli. Gli hanno lasciato solo la catena. A Castellanza, nel varesotto, a restare a piedi sono stati tutti i pendolari: sono scesi dal treno e delle loro bici non c'era traccia. A Palermo un signore è stato derubato delle sue due ruote tre volte nell'ultimo anno: l'ultima volta, due settimane fa, i ladri di biciclette per mettere a segno il colpo hanno segato il tronco di un platano alto quattro metri al quale era legata la catena.
Quanto agli autori dei furti, anche in questo caso si tratta di due facce della stessa medaglia: da un lato il berlusconismo mediatico che ti fa aspirare all'eccesso, dall'altro il berlusconismo di (presunto) governo, quello del liberismo selvaggio che fa pagare la crisi ai più deboli, tagliando stipendi, pensioni e servizi. In Piemonte un gruppo di sei ragazzi rubava le bici ai pendolari ma anche nei negozi, spaccando le vetrine e distruggendo tutto. Poi con il bottino (250.000 euro in alcuni mesi), annegavano la loro balordaggine in vestiti firmati e champagne. A Roma, invece, il ladro era un pensionato di 74 anni - una sorta di Capannelle, per restare in ambito cinematografico -, che con passepartout e tronchese ormai da anni ha fatto del furto di biciclette il suo nuovo lavoro. Del suo vecchio lavoro di barbiere, esercitato per trent'anni, gli restava una pensione di 280 euro al mese. Qualcuno lo ha intervistato e lui ha parlato di necessità e di vergogna: della vergogna sua e di quella che i suoi familiari provano per lui: "Mio figlio non è come me. Lui è una persona perbene, ha studiato tanto e io sono orgoglioso di lui. Fa un lavoro importante, lo so che si vergogna di me e fa anche bene. Ma un padre - almeno per l'educazione che ho ricevuto io - non deve mai chiedere soldi al proprio figlio. È il padre che deve mantenere moglie e figli. Che crede che non mi vergogni per quello che faccio quando penso a lui? Mi sono ridotto a fare l'accattone, il ladro e lui invece è il mio orgoglio, così bravo nel suo lavoro. E poi anche dentro casa le cose non vanno più, una mortificazione continua. Ogni volta che esco a fare un giro e poi torno a casa mia moglie mi guarda con la faccia di disgusto, è tutto un litigio. Ormai lo sa che quando torno vuol dire che m'è andata bene e quando non torno sto al carcere".
Vergogna. Vergogna che dovrebbero provare quelli che hanno ridotto questo Paese in un Paese da dopoguerra, dove vivere di espedienti e di piccoli imbrogli diventa quasi una necessità. Vergogna che dovrebbe provare chi ha fatto credere a quei sei ragazzi piemontesi che la vita sia champagne e giubbotti di marca. Vergogna che dovrebbe provare chi ha tramutato un intero popolo in un esercito di disperati e costretto i derubati a trasformarsi in ladri.

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