lunedì 25 ottobre 2010

Trenitalia e la Sicilia: il delitto perfetto

Un giorno mi era venuta voglia di andare a Mazara del Vallo. Così, tanto per. Noi siciliani (persino una stanziale, come me) conosciamo quasi tutto delle località estere, ma la nostra terra non la visitiamo mai. “Quanto saranno? – mi sono detta - Trecento chilometri, forse meno”. Macchina troppo vecchia, però. E poi costerebbe un botto di benzina. Così, avevo pensato di prendere il treno. In nord Italia (o, forse, dovrei dire in Italia, e non solo per la farneticante secessione padana ma per quella reale e concreta già da tempo messa in atto da Trenitalia) la gente lo fa sempre quando si tratta di poche centinaia di chilometri: prendono il treno e risparmiano in benzina, in pedaggi autostradali e in stress. Sono andata sul sito delle ferrovie per vedere gli orari. Ebbene, sapete quanto ci sta il treno per andare da Catania a Mazara del Vallo? Dodici ore, più che da Catania a Firenze! Anzi, dovrei dire: quanto ci stava. Già, perché non c’è più, sparito. Sul sito non si trova più: “nessuna soluzione trovata”.
E comunque, a quel punto, siccome vuoi farti del male, continui la ricerca: Catania-Trapani, 10 ore; Palermo-Catania (come dire, da capitale a capitale) 6 ore e cocci; Palermo-Siracusa, da 6 ore a 7 ore e mezza, sempre se non prendi quello che – presumo - fa la circumnavigazione del globo terraqueo e allora di ore ne impieghi 11 e 47 minuti, cioè quasi 12; Messina-Noto, cioè dalla presunta capitale del Ponte con annesse magnifiche sorti e progressive (tre chilometri da attraversare in un battito di ciglio, ma a cui aggiungerne almeno 40 dal pilone alla città) alla capitale del barocco, fra quattro ore e mezza e cinque ore e mezza; sei ore e mezza per Ragusa, altrettante per Agrigento… Dev’essere questa quella cosa che chiamano “lunga percorrenza”. Ed è meglio non continuare nella ricerca.
Anche perché, sia che si tratti di trasporto merci o passeggeri - che poi vuol dire lavoro, lavoro e ancora lavoro che non c’è o è a rischio, per i ferrovieri, per i pendolari, per chi vive di turismo, di agricoltura o di artigianato - la situazione delle ferrovie in Sicilia è disastrosa e tale da far pensare di essere andati indietro ben oltre quei primi decenni dell’unità d’Italia a cui risalgono le tratte isolane. Basterebbe guardare soltanto a quanti chilometri sull’intera rete ferroviaria siciliana sono a doppio binario: solo 169, mentre gli altri 1209 – pari all’88% dell’intera rete – sono a binario unico.
Basterebbe, ma non basta: perché i sindacati da tempo hanno lanciato l’allarme su un disimpegno di Trenitalia nei confronti della Sicilia e ora puntualmente i nodi vengono al pettine. L’estate scorsa, per esempio, la Fit Cisl ha fatto sapere di ritardi cronici – fino a quasi un’ora e mezza – dei treni in partenza da Palermo e questo perché manca il personale di manovra e pure quello preposto alla manutenzione, tanto da parlare di stato di abbandono delle officine. E già un anno fa i macchinisti del Comitato Lavoratori Cargo Trenitalia avevano denunciato la “progressiva dismissione” degli scali di Palermo-Brancaccio, Alcamo, Canicattì e Fiumetorto, aggiungendo: “Temiamo che nel futuro i treni merci si fermeranno a Villa San Giovanni, tagliando fuori la Sicilia dal resto del territorio nazionale. In questa ipotesi, il danno per l’economia e l’ambiente siciliano sarebbe disastroso e incalcolabile”. Allarme d’altra parte ripreso e rilanciato dalla Filt-Cgil che negli stessi giorni confermava la chiusura dei “servizi merci a carro singolo, diffuso e combinato” e la “conseguente dismissione degli scali” i cui “effetti diretti e i riflessi metteranno in dubbio la tenuta produttiva di tutto il sistema”. La Filt avanzava quindi l’ipotesi di un “definitivo scollegamento del nostro sistema da quello nazionale ed europeo in un arco di tempo che stimiamo di 2-3 anni”, chiarendo quindi le proporzioni del fenomeno: “Dai 330 addetti attuali, a fine 2010 si arriverà probabilmente a 130”.
Solo un’ipotesi allarmistica? Non si direbbe. Quest’estate la faccenda ha cominciato ad esplodere. A un certo punto, nel giugno scorso, si è saputo che da oltre un mese nella stazione catanese di Acquicella porto i treni merci non arrivavano più e che vagoni carichi di legname erano fermi a Marcianise, in Campania, senza una ragione ma con conseguenze devastanti per una fra le più antiche industrie catanesi per la lavorazione e la trasformazione del legno, la cui sede si trova proprio in prossimità di quello scalo e che in quel momento aveva riserve soltanto per sei mesi.
Negli stessi giorni, la Cna di Vittoria denunciava lo stesso rischio di fine attività per le segherie di marmo perché Trenitalia (che si difendeva, dicendo di non avere competenza) aveva chiuso o stava per chiudere gradualmente tutte le stazioni – Comiso, Gela, Catania Bicocca – dove fino a quel momento erano arrivati i blocchi di granito. Altro che corridoio 1 dalla Scandinavia al bacino del Mediterraneo e altro che Ponte sullo Stretto! In quell’occasione Giorgio Stracquadanio, responsabile organizzativo della Cna, faceva rilevare come sostituire il trasporto su ferro con quello gommato sarà impossibile a causa dei costi e dello stato delle strade siciliane e che questo avrebbe provocato l’isolamento definitivo dal resto d’Europa delle province della Sicilia sud-orientale.
E di disimpegno evidente di Trenitalia, da almeno due anni, parla Franco Spanò, segretario regionale della Filt-Cgil, che – ricordando le ultime decisioni della società, in base alle quali proprio in questi mesi viene attuata la riduzione di vagoni e posti passeggeri e dei treni a lunga percorrenza – fa rilevare come il cosiddetto “servizio universale” sarà “sostanzialmente soppresso”: e già, per esempio, i treni che vanno da Siracusa a Roma sono rimasti soltanto due e da un po’ sono stati ridotti anche quelli da Agrigento e da Palermo. Per di più, vengono meno anche quei servizi che dovrebbero rendere dignitoso l’andare in treno, come la pulizia dei vagoni, il controllo di qualità delle vetture, la manutenzione. I danni maggiori ancora si devono vedere, ma già comincia a farne le spese più di altre città Messina, dove fra l’altro resterà soltanto una nave traghetto (con ulteriore perdita di posti di lavoro) perché i treni italiani si fermeranno in Calabria.
Per il sindacalista, sul versante dei treni a lunga percorrenza è evidente la responsabilità del governo nazionale che ha già ridotto negli anni i finanziamenti statali per il trasporto pubblico e nella finanziaria 2011 ha previsto tagli ulteriori. Come se non bastasse, dall’ultima delibera del Cipe sono scomparsi i raddoppi delle tratte Messina-Catania e Messina-Palermo. E sul versante dei trasporti regionali, Spanò definisce “importanti” le responsabilità del governo siciliano per non avere ancora firmato con le Ferrovie il nuovo contratto di servizio, cioè il documento in cui Trenitalia e la regione (che ha competenza sul trasporto pubblico locale) stabiliscono quali servizi saranno erogati, quali saranno i loro costi, dove sarà necessario apportare modifiche, tutto tenendo conto delle esigenze della clientela. Che, in realtà, non sembrano interessare granché né Trenitalia né il governo regionale siciliano, se è vero che migliaia di pendolari salgono quotidianamente su treni in ritardo, con pochi posti, sporchi, con nessuna garanzia di qualità e dunque di sicurezza: è quello che il segretario della Filt chiama “atteggiamento di chi disprezza anche l’utenza più fidelizzata”. “Disagi incomprensibili e insostenibili”, per Spanò, e “scelte scellerate” quelle di sopprimere i treni “fregandosene delle utenze” quasi a volerle indurre a usare la strada – con i suoi costi elevati in termini di carburanti e pedaggi autostradali – e penalizzando il mezzo più ecologico e a minor impatto ambientale. Scelte, quelle di Trenitalia, che - oltre a produrre in breve tempo la perdita di circa 500 posti di lavoro (fra ferrovieri e dipendenti di ditte affidatarie di appalti e subappalti) – secondo Spanò vanno “nella direzione opposta” ai tanti proclami sul Ponte, svelandone l’inutilità dal momento che proprio una parte della megaopera dovrebbe essere destinata al passaggio dei treni. Forse gli faranno fare avanti e indietro per fare divertire i bambini.
A completare l’architettura di quello che appare come il disegno per un delitto perfetto, c’è infine la questione dei binari bomba. Palmiro Prisutto, il parroco di Brucoli in prima linea sui temi ambientali, lo denuncia da anni ed è tornato a farlo dopo la sciagura di Viareggio del giugno 2009, quando l’esplosione di un treno merci che trasportava gas provocò decine di morti e di feriti e costrinse un migliaio di persone ad andare via dalle loro case. Nella tratta da Augusta a Siracusa, il rischio è quotidiano da più di trent’anni e i passeggeri – secondo Prisutto – vengono mandati “deliberatamente incontro al pericolo”: perché per ben 15 chilometri la ferrovia passa all’interno degli stabilimenti del Petrolchimico, in mezzo a quelle fabbriche nelle quali in passato si sono verificati più volte incidenti. E con un rischio in più: che ad esplodere siano anche le autobotti che ogni giorno a decine passano nel centro abitato di Priolo per portare il loro carico ad alto rischio al deposito che si trova proprio fra la stazione ferroviaria e alcune abitazioni.
Giusto per farsi un’idea di quanta gente potrebbe essere coinvolta soltanto fra gli utenti delle Ferrovie, è sufficiente ancora una volta andare a guardare orari e percorsi: fra regionali e a lunga percorrenza i treni che vanno a Siracusa da Messina o Catania fra le 6 del mattino e le nove di sera sono almeno una quindicina. Anzi, di nuovo, dovrei dire: “andavano” ed “erano”, perché nel frattempo un po’ di convogli a lunga percorrenza li hanno soppressi. Così, semmai, a saltare in aria saranno solo i siciliani.

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