Ma di che hanno paura, che tragga ispirazione? Che
lo trasformi in arma impropria? Che ne annodi le 532 pagine e le usi per
calarsi dalla finestra della cella? Che le avveleni una per una e le faccia
avere come gentile omaggio a un boss rivale raccomandandogli un'attenta
lettura?
"Aspettiamo
di conoscere le motivazioni", come si dice quando vorresti tanto prendere
a schiaffoni gli autori di una sentenza ingiusta e invece devi mostrarti
politicamente corretto, ma certo se è vera la notizia che al boss gelese Davide
Emmanuello, detenuto nel carcere di Ascoli Piceno, hanno vietato di leggere
"Il nome della rosa", perché ritenuto "pericoloso", c'è
qualcosa che non quadra rispetto alla pretesa funzione educativa o rieducativa
della detenzione.
Notizia per di
più "corretta" - come il caffè di Gaspare Pisciotta, per restare in
tema - da un'altra proibizione: quella di leggere Il Manifesto. Ora, capisco
che Gela sia la città delle grandi contraddizioni e incoerenze politiche, ma mi
sentirei di escludere il rischio di una folgorazione di Emmanuello sulla via
del comunismo e, per conseguenza, della lotta alla mafia. Rischio che per
la direzione del carcere sembra essere maggiore della possibilità di farlo restare
pervicacemente e ottusamente - cioè con la mente intorpidita dalla malvagità -
un capomafia. In questo Paese a testa in giù, evidentemente, si può consentire
che Totò Riina ordini dal carcere l'uccisione di Nino Di Matteo, perché in
fondo rientra nell'ordine naturale delle cose, ma non che un boss coltivi la
"perversione" di leggere libri e giornali.
"...il
piú sicuro ma piú difficil mezzo di prevenire i delitti si è di perfezionare
l'educazione". E forse sta proprio in quell'aggettivo -
"difficile" - la chiave di lettura: più facile lasciarlo marcire
nella gattabuia della sua ignoranza e della sua cattiveria, lasciarlo prigioniero
dei desideri di vendetta e di rivalsa, tenere la sua mente chiusa in cella,
incatenare il cervello.
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