lunedì 18 maggio 2015

Il comune senso del salario


Si conversava con mia madre su un b&b di una sola stanza che d'estate - un'estate piuttosto lunga, di quasi sei mesi - si trasforma in una specie di stazione dove la gente parte e arriva in continuazione con un guadagno finale di meno di 500 euro al mese (lordi, molti lordi, non avendo calcolato le spese di acqua, luce, gas, eccetera).
La considerazione di mia madre è stata: "Quasi uno stipendio!"
Tralasciando il fatto che se devi spalmare su tutto l'anno quel guadagno i 500 euro diventano 250 - cioè, in termini tecnici da economista bocconiano: un cazzo -, io avrei un concetto diverso di "quasi uno stipendio" e partirei come base d'asta, senza voler fare follie, da un quasi stipendio di mille euro: che vuol dire uno stipendio di circa 1200 euro. Bassino, ma ci puoi campare. Ma se consideri 500 euro un quasi stipendio vuol dire che per te uno stipendio - quindi quella cosa grazie alla quale, pur facendo sacrifici, accendi un mutuo o paghi l'affitto, mandi i figli a scuola, entri in libreria, vai al cinema e ti fai qualche pizza con gli amici - ammonta a circa 600 euro, calcio in culo in più calcio in culo in meno.
Ora il problema è che mia madre questo convincimento non è che se l'è fatto vivendo su un albero e nutrendosi di noci di cocco. Per sua fortuna è una delle poche persone che ancora possano permettersi di comprare (e leggere) tutti i giorni due quotidiani, uno per informarsi e l'altro per sapere chi è morto, e quindi sa perfettamente quanto guadagna la gente. Il problema è che a dettare le regole al mercato sono i call center e tutti quegli imprenditori che hanno gettato i semi di quel frutto assassino chiamato jobs act grazie al quale lo schiavismo è legge e che ci hanno fatto convincere - alterando il comune senso del salario - che 600 euro possano avere la dignità di uno stipendio, che i diritti non sono diritti e che i sindacati non hanno motivo di esistere.
Quando finalmente altereremo il comune senso dell'incazzatura e la smetteremo di limitarci alla rivoluzione su Facebook, sarà sempre troppo tardi.

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