martedì 29 dicembre 2020

Lui, solo

 «Voglio che lui senta qualcosa».

Dice così Andrea. Dice che ogni giorno sale sul palco e si mette a parlare a voce alta oppure a cantare, malgrado sia stonato, perché vuole «che lui senta qualcosa». Come si fa con l’amico o il parente più caro, ricoverato in coma in un reparto di terapia intensiva, quando gli parli e gli parli e gli parli perché ti hanno detto che la tua voce e i ricordi possono rianimarlo e tu ci credi, ci vuoi credere, e non te ne importa di passare le ore a parlare da solo come un pazzo se c’è anche una sola, debolissima speranza che lui possa ritornare a vivere.

Anche Alberto ci va ogni giorno, lo accarezza, lo saluta, un po’ sta in silenzio a guardarlo, un po’ gli parla, accende una luce per provare a rianimarlo, per le feste comandate mette gli addobbi come se fosse casa, porta i suoi bambini a trovarlo, come se fosse nonno.

Perché lui è effettivamente casa, nonno, famiglia, l’amico a cui confidi le tue angosce e i momenti di felicità: è quello che capisce sempre ciò che stai provando.

Io ci vado da sola, non riesco a dividerlo con nessuno, con pochissime eccezioni. Ci andavo, in realtà. Ora non ci vado più, come milioni di altre persone. E mi sento molto più sola ora che non ci vado insieme a milioni di altre persone rispetto a quando ci andavo da sola. 

Sola. Solo. Solo nei migliori cinema si intitola il video girato dal regista Marco Pirrello in due sale cinematografiche catanesi – di cui Andrea e Alberto sono gestori, padri, figli, fratelli, nipoti – che in meno di dieci minuti mostra tutto lo smarrimento di chi, da marzo di quest’anno che sta per finire, ha dovuto rinunciare a uno degli affetti più cari: lui, il cinema.

Vi consiglio di guardarlo, perché anche questo è un modo per farlo uscire (e per farci uscire) da questo insopportabile e innaturale stato comatoso. Poi magari ci andiamo tutti insieme a trovarlo – lui –, facciamo una bella festa e non sarà più solo, non saremo più soli. E per una volta, forse, non mi incazzerò se durante la proiezione commenterete, chiacchiererete, risponderete al telefono, chatterete, sgranocchierete. Ho detto «forse», eh!

 

Lo trovate su Facebook: https://www.facebook.com/pirrellomarco/videos/5128649257175062

venerdì 4 dicembre 2020

Sanificare le teste

 Lentamente questo Covid mi ha tolto la voce. 

Le parole. Le parole non vengono più. 

Gli altri continuano a usarle; giornalmente tutte e tutti continuano a dire tutto su tutto. Io no. Forse per il sovraffollamento. Mi sembra superfluo aggiungere le mie parole a quelle degli altri. 

Mi sembrerebbe imbarazzante come la ressa a un buffet matrimoniale. 

Mi sembrerebbe pericoloso come un assembramento. Fastidioso come il vociare degli investitori in borsa. Inutile e fuori luogo come la ressa per accaparrarsi l’ultimo modello di cellulare. O come lo sgomitamento per aggiudicarsi la prossima ospitata in tv, per far salire le proprie quotazioni, appunto.
Forse la verità è che l’angoscia mi impedisce di esprimere l’angoscia. 
Forse è perché mi sembrerebbe incoerente: ho scelto di non vedere più le trasmissioni che parlano di questa bestia maledetta e mi sto drogando di film e serie tv, anche se non riesco mai a staccare del tutto, a non sussultare per la scena di un bacio o di un gruppo di persone che conversano a pochissima distanza l’una dall’altra o di una mischia durante un incontro di rugby.

Eppure lo so che le parole sono terapeutiche, che altre volte mi hanno guarita, che basterebbe prenderne un paio di volte al giorno, ore pasti. Eppure so che in questo momento sarebbero come quelle medicine che, senza gastroprotettore, aggiustano una cosa e ne sfasciano un’altra. Perché sull’angoscia si innesta la rabbia che mi brucia lo stomaco: rabbia verso chi spaccia l’interesse economico per desiderio di libertà; rabbia verso chi – incapace di governare persino la propria casa – vorrebbe lucrare politicamente su questo cataclisma anche allo stupido costo di farci morire tutti e restare senza elettori; rabbia verso coloro che in nome del profitto invocano aperture senza criterio, scoprono parenti solitamente serpenti da incontrare anche in condizioni estreme, rivendicano ipocrite feste da santificare. Quando invece ci sarebbe da sanificare le teste.  

 

giovedì 29 ottobre 2020

Tamponamenti

 Il mio medico di base non visita. Non perché non sia bravo, tutt’altro: è talmente bravo che soltanto a raccontargli quello che ti senti lui capisce cos’hai, ti prescrive gli accertamenti e la sua diagnosi viene confermata puntualmente.

Il problema però è che, mentre visita me (o mentre mi dovrebbe visitare, ma in realtà io sono solo seduta di fronte a lui), si alza per aprire e chiudere la porta, stampa ricette di quelli che sono fuori ad aspettare, risponde al telefono al vecchietto o alla vecchietta che gli fa infinite volte la stessa domanda, prende le ordinazioni – perché la gente dal dottore ci va con la lista della spesa –, fa il vigile urbano nel tentativo disperato di dirigere il traffico senza regole della sala d’aspetto, fa dei cazziatoni epocali ai prepotenti di turno che vorrebbero saltare il turno, fa ricerche al computer per individuare la struttura dove fanno quel tal accertamento o per verificare di non averti già prescritto lo stesso accertamento la settimana scorsa, carica la stampante, litiga con la stampante. Insomma, ogni volta che sono lì, rischio di morire di vecchiaia.

Continuo? No, non ce l’ha una segreteria, non so perché. E in ogni caso ci sono cose che la segretaria non potrebbe fare e che deve fare per forza lui – tutto, tranne che visitare – da quando le riforme sanitarie che si sono susseguite negli anni hanno trasformato i medici in burocrati tuttofare. E in ogni caso a volte nemmeno un buttafuori da discoteca riesce ad arginare pazienti che vogliono tutto e il contrario di tutto e soprattutto lo vogliono subito.

Ah, come se non bastasse, ultimamente il mio medico ha dimezzato le dimensioni della sala d’aspetto. E questo, se fate un rapido calcolo, alla luce della necessità di distanziamento (soprattutto fra persone che se vanno dal medico forse non sono perfettamente in salute), significa che lo spazio è ridotto di un quarto. 

Ora, io al ministro Speranza ho condonato qualche scivolone perché penso che tutto sommato abbia lavorato bene e che si sia fatto carico di una cosa troppo più grande di lui e di tutti noi, e mi chiedo ogni giorno come abbia fatto a non sbroccare, ma davvero il ministro Speranza non è mai stato in un ambulatorio di un medico di base? Va bene, è giovane e in buona salute, ma qualche volta gli sarà capitato, anche solo per farsi fare un certificato. E se ne sarà accorto che gli studi dei medici di base sono sempre molto simili a bolge infernali. Cosa gli fa pensare che sia possibile fare lì i tamponi «rapidi» per il Covid? Cosa gli fa pensare che non si formeranno file lunghissime a rischio contagio? Cosa gli fa pensare che a un certo punto non esploda una rissa fra quelli che aspettano di essere visitati e quelli che aspettano di essere «tamponati»? Cosa gli fa pensare che a un certo punto non cominceranno a tamponarsi fra di loro e a trasformare lo studio in un campo da rugby? E subito dopo, inevitabilmente, in un lazzaretto.

A meno che – ma questo non l’ho letto in nessun decreto ristoro – il governo non abbia intenzione di fornire i medici di studi molto più grandi e soprattutto di assumere nuovi medici in modo che in ogni studio ce ne siano almeno due o tre: uno che si occupa della routine, con obbligo di farsi assistere da un’infermiera/segretaria, e due che fanno i tamponi su file diverse, magari anche loro coadiuvati da un’infermiera/segretaria ciascuno (pensateci, sarebbero in un solo colpo cinque posti di lavoro in più). Altrimenti, per piacere, evitiamo di prenderci per il culo e di fare un favore a Salvini che non aspetta altro per sciacallare.

 

P.S.: Un’altra cosa: potreste evitare di chiamarli medici di famiglia? No, perché poi ti viene pure il dubbio di non avere diritto di essere visitata se hai il torto di essere single, in questo paese drammaticamente diopatriaefamiglia. E forse non hai neppure il diritto al tampone «rapido».

 

sabato 19 settembre 2020

Eleanor, detta Tussy

 Lei riesce a dirgli quello che prova solo recitando e la loro stessa relazione diventa un’unica recita, soltanto una recita. Lui non capisce, o finge di non capire, comunque gli sta bene così.

Ti viene una rabbia: una donna colta, intelligente, brillante, consapevole, disinibita, battagliera, cresciuta in un ambiente intellettualmente e politicamente ideale, che sa perfettamente come un rapporto d’amore debba essere basato sul rispetto reciproco, lo spiega alle altre donne, ci incentra interi comizi, così come rivendica diritti per i lavoratori e condanna il lavoro minorile. Ma subisce: il tradimento, l’irresponsabilità, le assenze, le bugie di un uomo inutile. Se ne prende cura nel fisico e nell’anima, si fa schiacciare dal peso di questa contraddizione. Che rabbia, che rabbia, che rabbia. 

Ieri sera ho visto Miss Marx, il film sulla figlia minore di Karl Marx e sua più stretta collaboratrice, Eleanor che tutti chiamavano Tussy, e che l’unica cosa in cui riesce a imporsi con quell’uomo invertebrato è di farsi chiamare con il suo vero nome invece che con quel vezzeggiativo. Per il resto, un budino senza personalità nel rapporto con lui. 

Qualcuno obietterà che era pur sempre una donna vissuta quasi due secoli fa, e non dovremmo stupirci, non dovremmo giudicarla con il nostro metro (e chissà poi qual è ormai il nostro metro se i nostri decenni di battaglie sono finiti nel cesso di un istituto scolastico che vieta le minigonne), ma la mia è una rabbia tutta contemporanea perché ogni scena del film mi riportava a donne che conosco, vive e vegete, non pezzi di storia, cadaveri putrefatti e ammuffiti, ma la nostra stessa quotidianità: le nostre madri, le nostre sorelle, le nostre amiche, le nostre colleghe di lavoro, quasi tutte con studi di alto livello, come Tussy colte e consapevoli. Sulla carta, sulla pergamena di laurea. E poi crocerossine: pronte a curare ferite del corpo e dell’anima, a minimizzare le violenze di chi le vuole annientare, a giustificare uomini incapaci di crescere, a fingere di non vedere e non capire, persino a tutelare dal giudizio altrui chi le sta distruggendo. Ne conosco più d’una molto da vicino. E mi fa una rabbia che mi fa esplodere il cuore.

Ho letto una recensione che criticava duramente la regista Susanna Nicchiarelli per avere mostrato questo lato di Eleanor. E perché non avrebbe dovuto? Avrebbe dovuto - come fanno i maschi che parlano di maschi nei libri di storia – dipingerla come un’eroina senza alcun punto debole? Costruire una statua, metterla sul piedistallo e non spostarla più? Fingere che quel problema non esista e che non sia ancor più devastante per una donna che si fa avanguardia politica? Io credo di no. Credo che dovremmo parlarne e riprendere a parlarne di queste contraddizioni, compagne e sorelle: che ci monti dentro una rabbia incontenibile - ma che sia collettiva -, come quella che è venuta a me a ogni cedimento di Eleanor nei confronti del verme. Quando mi veniva voglia di prenderla per mano e dirle: «Vieni, parliamo, la tua vita merita una vita».

 

P.S.: Spettacolare il momento della sua «ribellione rock», per quanto solitaria; di grande impatto emotivo l’Internazionale cantata durante la dispersione in mare delle ceneri di Engels. Anche se il primo a intonarla è proprio il verme e io questo merito non glielo avrei concesso.

 

lunedì 10 agosto 2020

Smemorati

Sarà che siamo in Sicilia e a febbraio ti può capitare che il sole sia talmente forte da farti sentire il bisogno di spogliarti a strati, sarà (è) che sono disordinata, fatto sta che nei miei cassetti durante tutto l’anno convivono amabilmente e in pace canotte, magliette, dolcevita, pesanti pullover di lana.

La sistemazione degli armadi segue la stessa regola, con una piccola differenza: mentre nei cassetti a furia di prendere e posare senza criterio tutti se la fanno con tutti come in una piccola orgia, il cambio di stagione avviene semplicemente spostando nella parte meno raggiungibile gli abiti della stagione passata e nella parte più a portata di mano quelli della stagione in corso. Praticamente un minuetto. E poi c’è la terra di mezzo: quella dove stanno i vestiti primaverili. Da qualche tempo mi capita di aprire l’armadio, buttare l’occhio nella parte centrale e incontrarne qualcuno: «Oh, ciao, come stai? dov’eri finito? com’è che non ci siamo visti quest’anno? Quasi mi ero dimenticata di te».

C’è quello rosso papavero che mi piace tanto, quello verde marcio con i fiorellini rosa antico comprato con i soldi che mi ha regalato la mamma quando ho compiuto sessant’anni, quell’altro blu a fiori verde acido che metto per le presentazioni se ho voglia di giocare alle signore. C’è tanta primavera in quei colori. Ma, già, quasi dimenticavo/rimuovevo: la primavera quest’anno non c’è stata. 

L’hanno messa in cassa integrazione, pure lei, perché c’era (c’è?) il mostro che divorava tutto. Abbiamo smesso di sentire caldo, abbiamo smesso di sentire freddo, abbiamo smesso di indossare i vestiti che ci piacevano, abbiamo smesso di passeggiare, abbiamo smesso di andare al cinema, abbiamo smesso di respirare, abbiamo smesso di pensare al futuro, abbiamo smesso persino di illuderci che saremmo diventati migliori.

E, quel che è peggio, abbiamo smesso di coltivare la memoria. 

È come la storia del fascismo: più abbiamo pensato che non sarebbe tornato, più ci siamo convinti che non servisse continuare a ricordare, e più ce lo ritroviamo lì, magari sotto forme diverse, ma sempre appollaiato sulle nostre spalle. Così oggi ne abbiamo due di rapaci appollaiati, uno per ogni spalla: da una parte il fascismo, dall’altra il Covid, pronti ad azzannarci e ridurci a brandelli, forti della consapevolezza – loro sì – del nostro essere un popolo di sbruffoni smemorati. Malati di amnesie cicliche, come nel film Ti ricordi di me?, dove la protagonista dimentica ciclicamente il suo amore, quando sembra che il peggio sia passato basta una piccola emozione e la nostra memoria, insieme alla nostra vita, va a farsi un giro. E non sono del tutto sicura che troveranno mai un vaccino per questa malattia. 

 

 

sabato 18 luglio 2020

Il paese degli stronzi

A un certo punto ha chiesto a sua madre perché non lo avesse fatto bianco. E a quanto pare da allora lo fa ciclicamente, probabilmente ogni volta che qualcuno gli intima di tornarsene al suo paese. A sua mamma ha chiesto anche dov’è il suo paese. Gli succede da quando aveva tre anni. Ora ne ha soltanto quindici, ha la pelle soltanto un po’ più scura degli altri e un senso civico e di umanità certamente più elevato di molti altri che hanno la pelle bianca. 
L’ultima volta che gli hanno detto di tornarsene al suo paese è stato qualche giorno fa proprio al suo paese, Grugliasco, in provincia di Torino, dove una signora è svenuta e lui l’ha acchiappata al volo per evitare che cadendo sbattesse la testa e si facesse male. E ha chiamato subito l’ambulanza. No, non è rimasto a tirare calci a una lattina vuota insieme ai suoi amici, non ha sghignazzato vedendo la signora cadere, non è rimasto dall’altro lato della strada a riprendere la scena con il cellullare: ha evitato che la signora cadesse e ha chiamato l’ambulanza. Eppure, immancabile come il prezzemolo e velenoso come la cicuta, si è materializzato il solito stronzo che gli ha detto di allontanarsi e di tornarsene al suo paese, mentre lui tentava di spiegare che avrebbe voluto soltanto rendersi utile.
Lo ha raccontato sua mamma su Facebook, perché non ne può più. Di dovergli ripetere in continuazione di stare attento, di non rispondere, di non farsi notare troppo per evitare che (come effettivamente accade) venga controllato continuamente dalle forze dell’ordine perché ha la pelle un po’ più scura degli altri. Di sapere che evidentemente anche alcuni tutori dell’ordine – come un Borghezio o un Calderoli qualunque – pensano che avere la pelle un po’ più scura degli altri significhi automaticamente avere più propensione a delinquere degli altri. 
E di sapere che a quindici anni suo figlio non sa ancora quale sia il proprio paese, ma certamente ha capito benissimo qual è il paese degli stronzi.

lunedì 22 giugno 2020

La Disneyland della malattia

Quando ho visto quest’immagine su Facebook ho pensato a uno dei soliti fotomontaggi pensati apposta per acchiappare clic e commenti. E in effetti il commento – siete solo delle merde – mi era sbocciato all’improvviso prima di pensare che fosse solo una trovata. 
Sono andata a controllare, sperando vivamente di essere contraddetta e di potermi classificare ufficialmente come stronza, oltre che credulona.
E invece eccola lì la notizia: ad Aventura, città della Florida, paese considerato epicentro della pandemia negli Stati Uniti con quasi centomila casi confermati, al secondo piano del centro commerciale Aventura Mall, ha aperto un nuovo negozio interamente dedicato al Covid-19. Termoscanner, disinfettanti, visiere, guanti, apriporta senza contatto e naturalmente mascherine di ogni tipo (anche quelle di design e persino da personalizzare in pochi minuti), oltre a tutto quello che può servire non a sconfiggere il virus ma a fare profitto sul virus. Praticamente una Disneyland della malattia.
Non c’è da stupirsi: quello è il regno del capitalismo sciacallo, dove se sei povero non hai diritto alle cure sanitarie e puoi crepare in mezzo alla strada, mentre se sei ricco persino la più spaventosa delle malattie è solo un gioco. Magari un gioco in borsa. Del resto, basta leggere le dichiarazioni entusiasticamente americane degli ideatori dello store. Ti sembra quasi di sentire i gridolini da fan di una convention repubblicana armati di bandierine e di vedere le ragazze pon-pon a stelle e strisce con colonna sonora di «Wow!» e «Oh, My God!»: dicono che «è come un negozio di giocattoli», parlano dello sterilizzatore a raggi ultravioletti come di una «bacchetta magica», magnificano la possibilità che tutti possano essere alla moda attraverso una mascherina personalizzata. 
Dall’articolo non si evince se vendono anche le bare per i morti da coronavirus – bare griffate e solo per ricchi e gli altri che si fottano! –, ma non lo escluderei. Del resto, questa è l’essenza del cinismo capitalistico: passare sul cadavere della propria madre, fare soldi con il cadavere della propria madre.
E, sì, confermo il commento estemporaneo: siete solo delle merde. 

mercoledì 20 maggio 2020

Sconfinamento

A casa mia è arrivata Alexa. Me l’ha portata Babbo Natale un paio di giorni fa. Sì, in ritardo. In Lapponia nevicava, le renne hanno fatto sciopero perché volevano montare le catene agli zoccoli, questioni di sicurezza sul lavoro, la slitta si è rotta e non si trovava un meccanico neanche a pagarlo oro perché erano andati tutti a svernare alle Canarie, nel frattempo è finita la benzina, poi è arrivata la serrata mondiale. Sì, chiamatelo lockdown se vi fa sentire meglio, come quando Renzi chiama jobs act la sua legge sul lavoro, fingendo di non sapere che è la traduzione letterale di «sempreinculoaglioperai». Fa figo, eh? Ma sempre in culo agli operai è. E quello, il lockdown, sempre confinamento significa: le torte, i cori dal balcone come uccelli in gabbia, i cento passi dal soggiorno alla stanza da pranzo e ritorno, la ginnastica su un materassino improvvisato che però due palle a farla da sola, due chiacchiere col gatto, grandi dibattiti con i muri di casa.
E dunque Alexa. Alexa che ti fa ascoltare tutta la musica del mondo, pensavo. E in effetti sì: mi fa ascoltare tutta la musica del mondo. Mi basta chiederglielo. Posso persino pronunciare male un nome, l’ho fatto apposta per prova, e lei non sbaglia un colpo: Alexa, fammi ascoltare la musica di devidboui, e lei mi risponde «riproduco in maniera casuale la musica di devidbaui». È come avere il juke-box a casa. È stato sempre il mio sogno avere il juke-box a casa, ma uno vero, a troneggiare in soggiorno, tre canzoni cento lire. Col juke-box però non ci parli: con Alexa sì. Persino avendo la consapevolezza che, se ti vedessero da fuori, ti farebbero immediatamente un Tso. 
E allora lo fai per gioco:
«Alexa, grazie»
«Figurati! Sono qui per questo, buon mercoledì».
Oppure:
«Alexa, ciao»
«Arrivederci, buona giornata. È stato un piacere parlare con te».
Intelligenza artificiale. Parlare con un robot. Un mio amico mi ha detto di averla comprata per sé perché si sentiva solo. 
Per coincidenza, proprio in questi giorni sto guardando una serie tv in cui a un certo punto un famoso direttore d’orchestra si trova a dover competere con un robot. Wam si chiama, acronimo di Wolfgang Amadeus Mozart, programmato per completare, incrociando algoritmi e diavolerie varie, il Requiem rimasto incompiuto per la morte del compositore. Il protagonista parla con Mozart, quello vero, che è morto da oltre duecento anni ma è vivo nella sua testa; con Wam invece non riesce a instaurare un rapporto. Ci prova all’inizio, per esercizio di buona volontà, ma poi lo fa a pezzi e lo butta al fiume. La differenza sta nel fatto che se un robot finisce in acqua a un certo punto qualcuno lo asciuga e lo aggiusta, mentre se Mozart è morto non rinasce, nemmeno con un intreccio di algoritmi. Eppure con Wam, che può elaborare una sinfonia perfetta, non abbiamo niente da spartire, niente brividi, niente emozioni, niente sangue, niente abbracci, niente lacrime, se non quelle che ti vengono dall’assenza di quelle persone che ti hanno dato lacrime, brividi, emozioni. E con Alexa, se non decidi di prenderla per il culo come faccio io solo per vedere come risponde, ma sapendo che è solo una «cosa», puoi soltanto renderti conto di quanto ti manchino le persone se per parlare hai bisogno di una cosa. E che c’è un solo antidoto al confinamento: lo sconfinamento. 


lunedì 4 maggio 2020

La disertora

Monsieur le Président
Je vous fais une lettre
Que vous lirez peut-être
Si vous avez le temps
Je viens de recevoir
Votre DPCM
Pour revenir au monde
Tu mi dici, Monsieur le Président, che posso vedere i parenti, i congiunti, compresi i cugini di cui non me ne fotte una mazza e i parenti dell’America con cui abbiamo litigato cinquant’anni fa per ragioni di eredità perché sempre parenti sono, e compreso mio padre se fosse vivo anche se era uno stronzo, la fidanzata o il fidanzato che negli ultimi tempi ti stava sul culo e improvvisamente sono diventati affetti stabili, il capo e i colleghi di lavoro se sto tornando al lavoro (ça va sans dire), ma hai dimenticato un piccolo particolare: les amis et les amies, Monsieur le Président.
Vedi, Monsieur le Président, io finora sono stata zitta, perché penso che in linea di massima stai agendo non benissimo perché sarebbe impossibile, in una situazione simile, ma al meglio, e quindi anche se su alcune cose posso non essere d’accordo, me le faccio andare bene per il bene di tutti.
Ma les amis et les amies no, questa non te la faccio passare. Mica tutti, eh, non quelli feisbucchiani di cui a volte non so nemmeno che faccia abbiano, ma les vrais amis et les vraies amies, che sono quelli e quelle di cui si ha maggiormente bisogno nei momenti di difficoltà: quelli e quelle con cui puoi metterti a piangere e loro non pensano «che palle!», quelli e quelle con cui puoi ridere per cazzate come se aveste ancora dodici anni, quelli e quelle con cui pensi all’unisono e dici la stessa frase con le stesse identiche parole nello stesso identico istante come Qui-Quo-Qua, quelli e quelle che quando ti vedono arrivare con un pullover scuro da cui sbocciano peli bianchi e rossi ne acchiappano uno e ti dicono «hai un gatto, per caso?». Come se non lo sapessero. E come se loro stessi/e non avessero un gatto quasi gemello che dissemina peli dappertutto.
Ecco, Monsieur le Président, quegli amici e quelle amiche lì. Quegli amici e quelle amiche lì che sono amichetta del cuore a prescindere dal genere, che sono fratello e sorella insieme, con cui litigare e mandarsi sonoramente a fare in culo e non parlarsi per settimane ma che ti stanno conficcati/e nel cuore, che sono famiglia e sono soprattutto la famiglia che ti sei scelta, che sono i veri affetti stabili, che sono quei pilastri a cui appoggiarti per farti andare bene anche le cose che in altri momenti non accetteresti e per i quali tu sei il pilastro a cui appoggiarsi per farsi andare bene anche le cose che in altri momenti non accetterebbero.
E francamente non ci credo che tu non sappia di cosa sto parlando, perché sono certa che anche tu hai quel tipo di affetti stabili, altrimenti non potresti sopportare, in questo momento di estrema difficoltà, il disgustoso sciacallaggio di gente come i due Mattei e loro ramificazioni.
No, Monsieur le Président, questa non me la dovevi fare. Proprio perché sono certa che anche tu hai un amico o un’amica a cui confidare anche i momenti di debolezza e lo stress di una situazione come questa e quindi lo sai cosa vuol dire privarmi della mia amichetta del cuore.
E dunque, Monsieur le Président, 
Ma décision est prise
Je m'en vais déserter

sabato 4 aprile 2020

Corrispondenza di amorose mail ai tempi del coronavirus

Siccome oggi non avevo un cazzo da fare… Mi correggo: siccome oggi non avevo voglia di fare un cazzo, ho deciso di esaminare le mail arrivate negli ultimi giorni, tutte infarcite di proposte imperdibili per l’acquisto di bisogni (indotti) irresistibili, ovviamente a prezzi superscontati.
Si comincia con le scontatissime polizze di assicurazione per l’auto. E che me ne faccio se non ho una macchina da anni e non ne sento la mancanza?
Niente paura: te la fanno sentire loro la mancanza. Vuoi mettere una vettura superpotente da ricconi strafighi che fa duecento chilometri orari? No, non voglio mettere: come faccio a uscire per andare in concessionaria? E, se anche me la portassero fino a casa, intendo portandola su per le scale, come faccio a farla passare dalla porta? E poi come faccio a farle fare duecento chilometri se la mia casa è poco meno di cento metri quadrati?
E che problema c’è? Prezzi stracciatissimi per ristrutturare casa, abbattere una parete di qua e una di là, allargare il cesso, ritinteggiare… E io dovrei fare entrare a casa una mandria di operai, forse senza mascherina, disattendendo le regole? Chi sono io, Fabrizio Corona che si fa venire a domicilio e ai domiciliari il personal trainer? E se uno di loro avesse contratto il virus?
Ah, già: mi vendono anche le mascherine a pacchi che negli ospedali non ci sono ma in rete sì, ettolitri di disinfettanti e, già che ci sono, quintali di blister di medicinali miracolosi che uccidono il virus, mi tolgono anche il mal di schiena diventato cronico a furia di stare davanti a questo cazzo di computer a scrivere stronzate e, sempre già che ci sono, mi fanno diventare giovane, alta e magra. 
Dopo questa cura, naturalmente sarò esteticamente pronta per acquistare un viaggio aereo per una località esotica, quindici giorni tutto compreso al prezzo di un week-end. Portandomi dietro vestiti estivi e sandali arrivati direttamente da Wuhan.
Ma se proprio dovessi decidere di restare a casa, Amazon mi offre tre mesi (tre mesi? sanno qualcosa che noi non sappiamo?) gratis di musica, posso comprare impastatrici  e un forno nuovo per preparare torte e mi vendono anche un attrezzo per misurarmi l’inevitabile diabete «senza pungerti», mi posso ubriacare con ettolitri di vino e, siccome ci hanno spiegato che siamo in guerra, mi vendono quasi gratis una torcia militare e un drone tascabile grazie al quale potrò stanare comodamente dal balcone quelli che escono senza permesso e provare l’ebbrezza della delazione.
E infine, ancora in tema di ebbrezza e sinonimi, il vincitore è senz’altro il sito che ti prospetta notti (e pure giorni, visto che ormai non sappiamo più che anno è, che giorno è, questo è il tempo di vivere con te, anche se i giardini di marzo ce li siamo già giocati e presto ci giocheremo anche quelli di aprile) di sesso sfrenato. Il nome suona, più o meno, facendo il verso a Faccialibro, come Scopalibro e ti chiede espressamente se «vuoi incontrare qualcuno per scopare». Ora, non sarebbe una brutta idea, però avrei bisogno di un chiarimento: dovendo rispettare la distanza di sicurezza di almeno un metro, siete sicuri di avere a disposizione «materiale» omologato? 

martedì 17 marzo 2020

Elenco delle paure

Magari scambiarsele serve a esorcizzarle un po’ e farle pesare meno.
-      Paura di lasciare da soli i miei gatti. Comincio da loro perché sono i più indifesi e perché non sanno cosa sta accadendo. Non si spiegherebbero la mia assenza, non ci sono abituati. Anche nella migliore delle ipotesi (ospedale per qualche settimana e rientro a casa), chi si occuperebbe di loro nel frattempo se nessuno può uscire?
-      Paura di non vedere più mio figlio e la sua compagna, mia madre, mia sorella, mia nipote e tutta la truppa, mia zia, care amiche e cari amici, perché ho
-      Paura che questa cosa sia circolare e continuerà a tenerci in questa prigione per l’eternità
-      Paura di non poter mai più fare pace con l’ultima persona con cui avrei voluto litigare  (e fra un po' saranno tre mesi che non ci parliamo), perché ho 
-      Paura che questa cosa sia circolare e continuerà a tenerci in questa prigione per l’eternità
-      Paura che l’attività di mio figlio, in cui ha speso tutte le sue energie, vada a carte quarantotto
-      Paura che non riapra la mia casa editrice, che chiamo «mia» non perché ne sia proprietaria, ma perché la considero famiglia e le voglio bene
-      Paura che mia sorella non riesca più a vendere la vigna, perché ho
-      Paura che questa cosa sia circolare e continuerà a tenerci in questa prigione per l’eternità
-      Paura di non rivedere il mare
-      Paura dei gesti senza ritorno di chi lavorava in nero e non potrà rivendicare nessuna forma di risarcimento, ma forse crederà di uscirne mettendo la propria vita nelle mani degli usurai e sarà peggio che avere preso la malattia o che avere scelto di darsi la morte
-      Paura che, se non ci prende questa malattia, ci prenderà quell’altra altrettanto terribile che si chiama depressione perché ho
-      Paura che questa cosa sia circolare e continuerà a tenerci in questa prigione per l’eternità
-      Paura quando l’urlo di un’ambulanza lacera il silenzio
-      Paura che non riapriranno librerie, cinema, teatri, negozi, fabbriche, scuole e milioni di persone perderanno il lavoro e perderanno il senno perché ho
-      Paura che non andrà tutto bene e anzi è andato già tutto male
-      Paura che non riapra il bar di un caro amico che frequento poco ma a cui voglio bene
-      Paura che una nuova calamità ci costringa a scegliere se riversarci nelle strade andando incontro al contagio o restare sotto le macerie
-      Paura di avere paura degli altri esseri umani
-      Paura di odiare la tua casa che ami tanto, la tua tana, perché ho
-      Paura che questa cosa sia circolare e continuerà a tenerci in questa prigione per l’eternità
-      Paura di non sentire più il rumore della vita, con i suoi aspetti positivi e quelli negativi, dai bambini che giocano in un parco agli automobilisti maleducati che suonano il clacson senza motivo
-   Paura di non avere più voglia di scrivere
-      Paura che la musica ad alto volume non basti più a coprire l’alto volume della paura

-      Paura di impazzire

-->
-      Paura da impazzire

domenica 8 marzo 2020

Volersi bene a distanza

Facciamo che oggi è il 29 marzo. Da qualche anno non è una bella data per la mia famiglia, però stavolta sì: ieri abbiamo festeggiato il compleanno della mamma, che in realtà lo fa il 27, ma abbiamo aspettato che arrivassero tutti. Gabriella è arrivata da Orvieto, Carlo e Ines da Bologna, Elena Emiliano Ludovico e Jacopo da Roma, zia Tata da Modica. Mancava solo Daniele, manca da quell’altro 29 marzo e la sua assenza è sempre presente e devastante.
Sono mesi che organizziamo questa cosa: quelli che arrivavano da fuori hanno preso i biglietti per tempo. E ieri è stata proprio una bella festa. La mamma era davvero contenta di avere intorno figlie, sorella, nipoti e pronipoti, ha fatto un po’ di citazioni in latino che una volta a casa nostra durante il pranzo non mancavano mai, ha battibeccato con suo marito, ha rimproverato più volte lo chef che sbagliava i congiuntivi, ha parlato di quando i ricevimenti li faceva a casa e cucinava tutto lei e non al ristorante ché le cose non saranno mai buone come le vorrebbe e come le fa lei, ha ricostruito letterariamente le epidemie nei secoli, ci ha spiegato cosa avrebbe dovuto fare il governo nell’emergenza corona virus, ha detto che comunque lei sta benissimo e non la scalfisce niente. E io, come sempre, un po’ mi sono incazzata e un po’ ho riso per queste sue incrollabili certezze che non lasciano mai spazio al dubbio.
Oggi è il 29 marzo, sono già ripartiti tutti e siamo tutti un po’ tristi, però siamo anche contenti perché ce l’abbiamo fatta, ci siamo arrivati tutti e siamo riusciti a festeggiare, malgrado nelle ultime settimane non ne fossimo più così sicuri e il volo di ritorno di Carlo e Ines era stato annullato tanto che ne hanno comprato un altro, perché non si poteva mancare al compleanno della nonna, perché – come dice lei stessa – «io novant’anni una volta sola li faccio». E sì, lo sappiamo e lo sa anche lei che pure venti, trenta o quaranta si fanno una volta, ma novanta è un’altra cosa.

Oggi non è il 29 marzo, è appena l’8 e già sappiamo con venti giorni di anticipo che la festa non ci sarà, non quando avevamo fissato almeno: nelle ultime ore la situazione è precipitata in tutta Italia, il governo ha preso delle decisioni senza consultare mia madre, qualcuno le ha rese note prima che avessero l’ufficialità della firma, qualcun altro in Lombardia ha dato l’assalto ai treni, camminiamo per le strade e sentiamo la frustrazione di non poter abbracciare gli amici, se uno per strada starnutisce per una semplice influenza o per l’allergia lo guardiamo con odio. 
Noi abbiamo dovuto fare una scelta di buon senso e di razionalità: non puoi rischiare di partire da una zona quasi rossa portandoti dietro il virus e scaricandolo ai piedi di una persona di novant’anni, anche se lei è convinta di essere invulnerabile. Quindi per quest’anno ci vorremo bene a distanza. 
E però io adesso avrei voglia di abbracciare tutti quelli che stavano preparando da tempo un qualche festeggiamento, che in un punto lontano del cuore avevano il timore inconfessabile di qualcosa (l’età, una malattia grave) che avrebbe potuto impedirlo ma andavano avanti nei preparativi, ci credevano e dimostravano di crederci, o forse fingevano di crederci, e adesso invece sanno con certezza di doverci rinunciare, che la festa non c’è stata e che oggi non è l’indomani della festa. E che chissà quando potremo ricominciare ad abbracciarci.

mercoledì 5 febbraio 2020

Mi toccheranno i campi di lavoro (ho visto Sanremo)

Premessa: non ho mai detto che non l’avrei visto. E non perché non creda nel valore del boicottaggio, ma perché sarebbe stato come pensare di boicottare l’inquinamento non respirando. 
Sanremo è da settant’anni un pezzo di vita degli italiani con cui, vuoi o non vuoi, anche senza guardarlo, devi fare i conti perché tanto l’indomani ne parleranno tutti e perché è comunque uno specchio della società così come la società è uno specchio di Sanremo. 
Dunque lo guardo, anche se qualcuna convinta di possedere la verità rivelata aveva deciso che le femministe non dovessero guardarlo e aveva dettato la linea dalla quale non si poteva derogare e deragliare (temo che adesso ci toccheranno i campi di lavoro). 
Lo guardo per «interesse sociologico» - come dice una mia amica -, ma a pezzetti e oltre una certa ora non vado. Quindi se entro la prima ora/ora e mezza succede qualcosa di buono, mi sarà andata di lusso; altrimenti ciccia e l’indomani vengo a sapere cosa mi sono perso. 
Ho avuto qualche discreta botta di culo negli anni: avevo la tv accesa e mi aggiravo per casa senza prestare troppa attenzione, per esempio, nel febbraio del 1994, quando all’improvviso…minchia! Si parlava di mafia, si parlava delle stragi del 1992 e ’93, si parlava di agenti di scorta, quelli che nei tg vengono chiamati solo «agenti di scorta», come se non avessero nome, che rischiano la vita per due lire. Minchia, signor tenente! E ancora mi vengono i brividi quando ci ripenso, quando ricordo che rimasi paralizzata e senza fiato. Faletti aveva fatto una doppia operazione in un colpo solo: aveva parlato di uno degli argomenti più scabrosi nel paese della mafia che «non c’è» e in più aveva sdoganato davanti a milioni di spettatori e fatto diventare italiana una parola (una parolaccia) che prima era solo siciliana. 
Qualche anno prima, nel 1988, guardavo e non guardavo: arrivò Luca Barbarossa e mi si raggelò il sangue. L’amore rubato si chiamava la sua canzone di cui forse non si ricorda più nessuno ed era forse una delle prime a Sanremo (se non la prima) che affrontasse il tema della violenza sessuale. 
Arrivo al 2017 (per non farla troppo lunga), tre anni fa, quando sul palco dell’Ariston arriva un ragazzo di talentuosità e sensibilità potenti, che ci sbatte in faccia la violenza sulle donne: Vietato morire. Milioni di spettatori, milioni di ragazzini e ragazzine sentono parole semplici e imparano il femminicidio: io stessa quel brano di Ermal Meta l’ho portato nelle scuole tutte le volte che potevo per introdurre un libro sulla violenza di genere e grazie a quel brano entravo immediatamente in sintonia con le studentesse e gli studenti. Vuol dire che funzionava.
E allora perché oggi non dovrei postare sui social lo straordinario monologo di Rula Jebreal? Ieri sera sono andata a letto troppo presto e non l’ho visto, ma è stata la prima cosa che ho fatto stamattina e non rimpiango quei dodici minuti spesi. Mi sembrava un dovere civico e persino professionale. E no, non l’ho fatto per poterne parlare sui social: l’ho fatto perché possano vederlo e possano parlarne quelli che - per una ragione qualunque che non ho intenzione di giudicare - non l’hanno visto ieri sera. Anche le parole di Jebreal funzionavano, senza intellettualismi e accademicità. E dunque l’ho postato sui social, per quei pochi che non l’hanno visto. Perché è giusto e doveroso che quel dolore vero che molte di noi conoscono, che quelle lacrime che scorrono senza chiedere permesso e fanno da sottofondo a parole lucide e razionali diventino le lacrime di tutti e soprattutto le parole di tutti: la presa di coscienza di tutti. Non è forse quello che auspichiamo da tempo? E se Sanremo è lo strumento, va bene così.

mercoledì 29 gennaio 2020

Feltri e il Prostamol

Il povero Feltri, che ormai presumibilmente e anche visivamente ha difficoltà a contenersi, l’ha fatta ancora una volta fuori dal vaso.
In mancanza di meglio (e forse proprio per questo) lo eccita particolarmente seminare odio contro le donne e dunque oggi sul suo giornale, Libero (!), se n’è uscito con un titolo a nove colonne in prima pagina per raccontarci la balla che i maschicidi – così li chiama – sarebbero più dei femminicidi. Mettendo nel calderone del presunto maschicidio omicidi di ogni tipo, fingendo di non sapere che di solito sono gli uomini che uccidono altri uomini, che sono rarissimi gli omicidi commessi da una partner, che il termine femminicidio indica l’uccisione di una donna da parte di un uomo – come spiega l’Accademia della Crusca – in ragione della sua mancata sottomissione, e che per questo il termine femminicidio indica non solo che una donna è stata uccisa (no, non ci provate: non lo usiamo per indicare l’uccisione di una donna nel corso di una rapina in banca) ma il motivo per cui è stata uccisa e cioè appunto perché un uomo voleva tenerla sottomessa, controllarne la vita, averne il pieno possesso come se si trattasse di una cosa. 
Ma evidentemente Vittorio Feltri, che dirige un giornale, non frequenta i corsi di formazione per giornalisti in cui si parla di violenza di genere, non legge i dati, non li analizza, non si informa pretendendo di informare, butta lì una frase senza sapere di cosa sa parlando e per il solo gusto di provocare. Soltanto perché a un certo punto gli scappa e deve trovare una scusa per farla, appunto. E non sarà un caso se nella stessa prima pagina del suo giornale c’è la pubblicità del Prostamol. 

domenica 12 gennaio 2020

Follia e odio

Prendete uno studente di ingegneria, meridionale, presumibilmente destinato – che sia figlio di proletari o di borghesi, ormai non fa quasi più differenza – a lasciare la propria terra per riuscire ad avere una vita decente. E prendete il lavoratore di un call center, presumibilmente sfruttato e senza tutele, magari costretto ad accettare quel lavoro lì perché è stato licenziato cinquantenne oppure perché, pur essendo giovane, e malgrado laurea e specializzazioni, non lo vuole nessuno.
Dovrebbero stare dalla stessa parte, no? E invece no.
La vicenda è stata raccontata dallo stesso ragazzo: Alberto, napoletano, ha un problema con il pagamento della bolletta Tim e telefona al 187. Gli risponde un uomo con accento settentrionale che, invece di aiutarlo a risolvere il problema (dovrebbe rientrare fra le sue competenze, se non sbaglio) – come invece fanno migliaia e forse milioni di suoi colleghi, gentilissimi nonostante un lavoro di merda –, comincia a insultarlo: tutti da Napoli questi problemi, i napoletani danno solo problemi all’Italia, i napoletani vogliono che gli altri risolvano i loro problemi, i napoletani non fanno un cazzo, i napoletani campano sulle spalle degli altri. Insomma, linea Salvini. Peraltro da poco condannato per razzismo con decreto penale proprio per avere insultato i napoletani. Ricordate il coretto del 2009 «Senti che puzza, scappano anche i cani, stanno arrivando i napoletani»? Ecco, proprio quello. 
Secondo il racconto dello studente, come se non bastasse, il solerte operatore salvinizzato si è anche profuso in insulti omofobi nei suoi confronti, e ha completato l’opera con minacce in perfetto stile mafioso quando lui ha annunciato l’intenzione di querelarlo: «Io so chi sei. Ho i tuoi dati qui. Ti faccio un culo così».  
Alberto ha parlato di quattro minuti di pura follia e odio. Pura follia e odio. Gli stessi che gli italiani stanno subendo da anni, da quando esiste la Lega che inneggiava alla potenza distruttrice dell’Etna e da quando si è incattivita ulteriormente con l’arrivo di Salvini. Follia e odio. Questo è riuscito a creare Salvini, con la sua «Bestia», con i suoi seguaci sguinzagliati a vomitare insulti attraverso i social: follia e odio, contro i migranti, contro le donne, contro gli omosessuali; follia e odio degli italiani contro gli italiani, dei poveri contro i poveri. Ad Alberto la Tim ha chiesto scusa, dichiarandosi basita e sorpresa. Agli italiani chi chiederà scusa per avere permesso a un razzista di governare il paese? E magari i meridionali dovrebbero pensare alla storia di Alberto prima di votare per uno che alla fine, proprio come quell'operatore del call center, ha solo l'obiettivo di farci un culo così.

venerdì 3 gennaio 2020

Ucciso da un robot

«Io lo so che prima o poi sarò sostituito da un robot». Eravamo andate, mia sorella e io, qualche giorno fa in un grande negozio di elettrodomestici a chiedere informazioni: ovviamente avevamo già visto quello che ci interessava su internet e glielo abbiamo detto, ma avevamo bisogno di confrontarci con un essere umano. Lui, appunto: umanissimo, più o meno trentenne, con uno sguardo dolce e rassegnato, conveniva sul fatto che parlare era meglio che «navigare». E però «io lo so che prima o poi sarò sostituito da un robot». Non c’è bisogno di essere luddisti per sapere che le macchine sostituite indiscriminatamente alle donne e agli uomini, sacrificati sull’altare del profitto, quelle macchine che non chiedono ferie, diritti, congedi di maternità o di paternità, sicurezza sul lavoro, prima o poi quel lavoro lo uccideranno. In qualche caso non metaforicamente.
Eppure quello che è successo ieri, 2 gennaio, ad Atessa, in una fabbrica di manutenzione degli stabilimenti ex Fiat, sembra proprio la metafora di quello che succederà, delle macchine che uccideranno i lavoratori: Cristian Perilli aveva 29 anni, forse era contento di non essere stato costretto a emigrare come tanti suoi coetanei ed è stato schiacciato da un robot. Ucciso da una macchina, lui e il suo lavoro. E in questa foga di stilare classifiche – il primo bambino nato nel 2020, l’ultima centenaria sopravvissuta al 2019, la prima mano amputata per i botti – a lui è toccato il titolo di primo morto sul lavoro di quest’anno. Magari avrebbe fatto volentieri a meno di questo primato.
Magari avrebbe fatto volentieri a meno della solita ipocrita nota di Fca che esprime «profondo cordoglio e vicinanza alla famiglia per la tragica scomparsa».
Magari avrebbe preferito che l’azienda, invece di battersi il petto dopo, avesse investito prima in misure di sicurezza e che qualcuno ne controllasse il rispetto. E magari che qualcuno prevenisse in maniera seria questo sterminio sistematico di massa: altrimenti può darsi che ci venga il sospetto che tutto ciò serva a farci preferire di essere sostituiti da un robot piuttosto che esserne uccisi.