Sarà che siamo in Sicilia e a febbraio ti può capitare che il sole sia talmente forte da farti sentire il bisogno di spogliarti a strati, sarà (è) che sono disordinata, fatto sta che nei miei cassetti durante tutto l’anno convivono amabilmente e in pace canotte, magliette, dolcevita, pesanti pullover di lana.
La sistemazione degli armadi segue la stessa regola, con una piccola differenza: mentre nei cassetti a furia di prendere e posare senza criterio tutti se la fanno con tutti come in una piccola orgia, il cambio di stagione avviene semplicemente spostando nella parte meno raggiungibile gli abiti della stagione passata e nella parte più a portata di mano quelli della stagione in corso. Praticamente un minuetto. E poi c’è la terra di mezzo: quella dove stanno i vestiti primaverili. Da qualche tempo mi capita di aprire l’armadio, buttare l’occhio nella parte centrale e incontrarne qualcuno: «Oh, ciao, come stai? dov’eri finito? com’è che non ci siamo visti quest’anno? Quasi mi ero dimenticata di te».
C’è quello rosso papavero che mi piace tanto, quello verde marcio con i fiorellini rosa antico comprato con i soldi che mi ha regalato la mamma quando ho compiuto sessant’anni, quell’altro blu a fiori verde acido che metto per le presentazioni se ho voglia di giocare alle signore. C’è tanta primavera in quei colori. Ma, già, quasi dimenticavo/rimuovevo: la primavera quest’anno non c’è stata.
L’hanno messa in cassa integrazione, pure lei, perché c’era (c’è?) il mostro che divorava tutto. Abbiamo smesso di sentire caldo, abbiamo smesso di sentire freddo, abbiamo smesso di indossare i vestiti che ci piacevano, abbiamo smesso di passeggiare, abbiamo smesso di andare al cinema, abbiamo smesso di respirare, abbiamo smesso di pensare al futuro, abbiamo smesso persino di illuderci che saremmo diventati migliori.
E, quel che è peggio, abbiamo smesso di coltivare la memoria.
È come la storia del fascismo: più abbiamo pensato che non sarebbe tornato, più ci siamo convinti che non servisse continuare a ricordare, e più ce lo ritroviamo lì, magari sotto forme diverse, ma sempre appollaiato sulle nostre spalle. Così oggi ne abbiamo due di rapaci appollaiati, uno per ogni spalla: da una parte il fascismo, dall’altra il Covid, pronti ad azzannarci e ridurci a brandelli, forti della consapevolezza – loro sì – del nostro essere un popolo di sbruffoni smemorati. Malati di amnesie cicliche, come nel film Ti ricordi di me?, dove la protagonista dimentica ciclicamente il suo amore, quando sembra che il peggio sia passato basta una piccola emozione e la nostra memoria, insieme alla nostra vita, va a farsi un giro. E non sono del tutto sicura che troveranno mai un vaccino per questa malattia.
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