Trentanove anni. A trentanove anni con una laurea in tasca
una volta eri “sistemato”, come si diceva un tempo: lavoro, famiglia, bambini,
casa, elettrodomestici, feste con gli amici, ferie. Non parlo della generazione
di mia madre, ché per loro era quasi un automatismo conoscere la data della
seduta di laurea e fissare quella del matrimonio subito dopo: parlo della mia
generazione, che pure aveva avuto bisogno della famosa “285” - la legge sulla
disoccupazione giovanile che di anni ne ha appena compiuti quaranta – ma almeno
così in tanti, miei coetanei o appena più grandi, hanno avuto una vita
lavorativa e avranno una pensione.
L’ho letta e riletta non so quante volte quella lettera di
Massimo, Massimo Piermattei, nato otto mesi dopo quella legge varata quando
Ministra del Lavoro era Tina Anselmi: Massimo Piermattei, storico dell’integrazione
europea. Anzi, “ex” storico dell’integrazione europea, come si definisce lui: perché
a un certo punto ha dovuto decidere di buttare nel cesso pubblicazioni e
competenze, mollare il suo lavoro di ricercatore universitario, ore e ore di
studio, la responsabilità di interrogare i ragazzi al posto del docente
titolare, anni da precario nella speranza che prima o poi quel contratto
sarebbe stato confermato definitivamente, e si è messo a vendere ricambi
d’auto. Perché lui non è figlio di nessun barone e il posto non glielo tengono
in caldo da quando ha emesso il primo vagito e perché lui e quelli come lui per
ministri piagnoni con il posto fisso all’Università o per ministri giocatori di
calcetto con il posto fisso nelle stanze del consociativismo è solo una rottura
di coglioni che se se ne va è meglio.
E lui se n’è andato infatti. Ma non – e questa è una delle
cose che più mi hanno colpito della sua lettera – per andare a lavorare in
un’università all’estero dove certamente sarebbe stato più apprezzato: è andato
a fare un lavoro per il quale non servono pubblicazioni e partecipazioni a seminari.
Massimo, nella sua lettera (pubblicata su Repubblica) che definisce “terapeutica”
ma è acido muriatico per chi la legge, parla giustamente della retorica
dell’andare all’estero che non prende in considerazione il fatto che uno non
sempre può e anche che possa non volere. Se n’è andato Massimo; se n’è andato
dall’Università ma non dall’Italia. Con l’amarezza di non poter usare la sua
preparazione per accedere ad altri posti qualificati perché per la pubblica
amministrazione il dottorato di ricerca è considerato «un errore di gioventù» e
lo è ancor di più un dottorato in discipline umanistiche che ti rende «orfano tra
gli orfani», che fa di te un «perditempo».
O forse perché «lo studio del passato – come scrive nella
sua lettera – è scomodo perché mette a nudo il presente». Lui racconta la
rabbia per i tanti colleghi che ha visto appassire, dice che la sua non è una resa,
che se ne va con dignità e in questo ha ragione perché comunque ha avuto la
forza di crearsi un’alternativa anche per non costringere sua moglie e i loro
due bambini a ulteriori sacrifici. Io però continuo a pensare che una battaglia
solitaria sia una sconfitta: e lo sarà finché ci saranno i tuoi colleghi che
saluteranno con favore il tuo abbandono perché è un posto che scorre, finché non capiranno che il prossimo ad essere spremuto come un limone e
gettato nella spazzatura è proprio quello che seguiva nella fila, finché non si
capirà che la logica del profitto ci vuole sfruttati e nemici fra di noi, finché
non costringerete e non costringeremo ministri del Lavoro inadeguati ad andare
loro a vendere pezzi di ricambio per auto o a coltivare zucchine. E dubito che
ne siano capaci.
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