Quando morì
mia nonna mancavano due giorni al mio decimo compleanno. Per il funerale, mia madre
mi fece indossare il cappotto celeste, quello “buono”. In quel periodo o poco
dopo avevo anche un impermeabile arancio shining che per guardarlo ci volevano gli
occhiali da sole, una mantella rossa da indossare su un abito di velluto
antracite, d’estate un vestito rosso di “tela spazzina” e uno a riquadri blu e
verde cupo che mi piacevano tanto, e un altro rosso con grandi pois bianchi o
viceversa. Alle medie mi innamorai degli esistenzialisti e cominciai ad andare
in giro in total black, pantaloni e dolcevita, mentre qualcuno mi guardava con
compassione credendomi a lutto e io ricambiavo lo sguardo con snobistico
disprezzo. Al liceo arrivarono i gonnelloni a fiori, i blue jeans sfrangiati, d’inverno
i pullover jacquard da far impallidire il signor Pantone (al secolo, quello
scorso, Lawrence Herbert) e l’eskimo “couleur noisette” come il cappello della
filastrocca, in realtà l’unica cosa scialba della mia vita ma comunque
preferibile al verde militare che mi fa paura come la guerra, d’estate i
pantaloni a zampa d’elefante giallo pappagallo.
Niente, per
quanto cerchi di ricordare, escluso il fiocco sul grembiulino bianco delle
elementari, il rosa non c’era. E francamente, per quanto mi sforzi, non lo
trovo nemmeno nel guardaroba delle mie compagne di scuola, amiche disimpegnate
o compagne di lotta. Eravamo per questo meno “femmine”? Forse per qualche
maschio che ci avrebbe voluto chiuse a casa a preparare il corredo, anziché in
strada a manifestare per i nostri diritti, persino quello di vestirci come
cazzo ci pare, non eravamo abbastanza femmine, o eravamo troie, ma in linea di
massima neppure alle più “accondiscendenti” era imposto il rosa come il colore
obbligatorio per la femminilità, quasi una lettera scarlatta all’incontrario.
Poi è successo
qualcosa che coincide con una strana idea di successo – le Tv, i lustrini, lo
sfavillio dei soldi, qualcuno più qualcuno di altri che dava voce ai tanti che
vorrebbero le donne come pezzi di carne da sbranare a piacimento, seguendo
“l’istinto” - e siamo stati risucchiati (tutti e tutte) in questo vortice
spaventoso che ci impone la vie en rose
a qualunque età. Rosa dalla punta dei capelli fino all’alluce, come ciclopiche
coppe di panna montata alla fragola da far venire il diabete persino ad Hänsel
e Gretel. Pure la pubblicità di un’agenzia immobiliare - come non bastassero
abitini, scarpine, cappellini, guantini, uovini di pasquina, patatine frittine,
cucinine e via così stucchevolando – pretende il color porcellino per
l’abitazione della bimba, che la sua casa la vuole «tutta bianca e rosa!».
Praticamente una gigantesca Big Bubble.
Dopo di che, dopo
i libri rosa, le vacanze in rosa, i giornali rosa, la cronaca rosa che ci
racconta i cazzi degli altri, le quote rosa che rischiano di diventare gabbie
rosa, i governi in rosa soltanto perché, per gentile concessione e giusto per
non avere rotti i coglioni, il capo dell’esecutivo – che è sempre maschio – ci
ha messo qualche ministra, appena il minimo indispensabile però per non farci
uscire dalla categoria “panda”, dopo tutta questa melassa in cui ci fanno
annegare “du berceau au tombeau”, oggi il Corriere della Sera e il Giornale ci
hanno dato il meglio del loro maschilismo (e che ve lo dico a fare che i corsi
di formazione dell’Ordine dei giornalisti sul linguaggio di genere servono solo
ad accumulare crediti?) incartando in una nuvola di tulle trasudante
dolcificanti e coloranti l’articolo
sulla nomina di Francesca Re David alla segreteria nazionale della Fiom al
posto di Maurizio Landini. Titolo del Corriere: “Una tuta rosa alla testa delle
tute blu”. Analogo quello del Giornale: “Il trono di Re David, tuta rosa che fa
sognare la sinistra”. Non ci resta che aspettare, appena si sarà insediata e
comincerà a dare battaglia, che ci dicano quanto è “cazzuta”.
Gli articoli
non li ho letti, mi sono fermata ai titoli, non avevo abbastanza Maalox a casa,
ma già così avrei voglia di farvi neri.
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