«Si dovrebbe spiegare a
questi pazienti, eventualmente con l’aiuto di mediatori culturali, che le
mediche sono brave quanto i medici maschi, e spesso di più. Che il nostro è un
Paese generoso, dove il diritto alla salute non è negato a nessuno. Ma in cambio si dovrà fare lo sforzo di adeguarsi alle regole di
una civiltà in cui alle donne, quanto meno in linea di principio, sono
riconosciute opportunità pari a quelle concesse agli uomini, e non ci possono essere richiesti passi
indietro».
Lo scriveva nel
2014 la giornalista Marina Terragni a proposito di un episodio verificatosi
all’Unità Sanitaria Locale 16 di Padova, dove i dirigenti avevano deciso di
richiamare in servizio tre medici maschi in pensione perché alcuni immigrati
musulmani si erano rifiutati di farsi visitare da mediche, ricevendo la
stizzita intimazione del sindaco leghista Massimo Bitonci: «Vogliono medici
uomini? Vadano a casa loro!»
Perché ve lo sto
raccontando? Perché è successo di nuovo, stavolta all’ospedale San Paolo di
Savona.
Solo che
stavolta a rifiutare di farsi operare, appena saputo che l’anestesista era una
donna, è stato un italianissimo settantenne (fra l’altro assecondato dalla
moglie), che ha preferito firmare e andare via.
Ora, a parte che
non si capisce perché un profugo dovrebbe adeguarsi alle nostre regole di
civiltà e invece un italiano possa esserne esonerato, a uno così, da quale
“mediatore culturale” glielo fai spiegare che le donne – statisticamente, e non
perché lo sostenga io – sia a scuola che nelle professioni sono mediamente più
brave degli uomini? E in quale “casa sua” dovrebbe tornare quest’uomo delle
caverne?
Peraltro, non mi
risulta di aver mai sentito una notizia in cui si parli di un’anestesista che
abusi dei propri pazienti, mentre purtroppo ne ho sentite in cui si parla di un
anestesista che abusa delle proprie pazienti. È solo una questione di
apostrofi. E infatti il maschilismo è l’apostrofo azzurro fra le parole «sei» e
«un cretino».
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