Veronica si
chiama. Come quell'altra già condannata senza processo, senza interrogarsi sul
carico di violenze e di solitudine accumulati in pochi anni di vita e che ti può
portare alla pazzia. Veronica si chiama, come molte sue coetanee, debore con
l'acca, jessiche con la g. Una Maria o una Giovanna non le trovi più a pagarle
oro. Prodotti di una televisione malata, sogni da soap opera, vite da incubo,
senza uno straccio di prospettiva, un aiuto qualunque.
Veronica l'ho conosciuta stamattina ad una
festa di quartiere: sembra una bambina, lo sguardo mite e smarrito; e invece è
già mamma di tre bambini, la più piccola in passeggino, il più grande ha già
dieci anni.
Racconta storie di solitudine Veronica e forse
nemmeno lo sa: il marito lavora (beato lui, verrebbe da dire, qualunque lavoro
faccia, se non fosse che è chiaro che non ce la fanno a sfangare) e lei da sola
non ce la fa ad occuparsi dei bambini.
Non chiede la luna, né per sé né per i propri
figli: vorrebbe soltanto che non crescessero in strada, chiede soltanto uno o
due pomeriggi di doposcuola per proteggerli dai pericoli che incontrano in
quella strada: le auto, certo, ma anche tutto il resto, quello che non si può
dire. Solo uno o due pomeriggi di doposcuola, perché la sua solitudine non si
trasformi in disperazione come per quell'altra Veronica alla quale qualcuno
attribuisce "un'indole malvagia".
Forse basterebbero soltanto un po' di
attenzione e di servizi sociali: veramente sociali, cioè il minimo per rendere
umana la vita degli esseri umani.
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