Ogni volta che c'è un anniversario, cerco una foto
da mettere su Facebook. Le parole mi sembrano banali, trite, retoriche. Cerco,
minuziosamente, non una foto qualunque, giusto per far sapere che me ne sono
ricordata, ma una che dia il senso dell'avvenimento da ricordare o che, in quel
momento in cui le sto analizzando, esaminando, sfogliando, mi suggerisca una
chiave di lettura o un'emozione nuova.
Ho fatto lo
stesso stamattina, per contribuire nel mio piccolo a marchiare a fuoco nella
nostra memoria quel 23 maggio 1992. Giovanni Falcone, Francesca Morvillo, Vito
Schifani, Antino Montinaro, Rocco Dicillo. Le ho guardate e riguardate quelle
foto. Ce n'era una che riprendeva dall'alto lo svincolo per Capaci, come se ci
fossero lavori di sbancamento per un'autostrada ancora da costruire. C'era la
lapide con i nomi. C'era quell'altra con i cartelli autostradali ben in vista,
per dire che era successo proprio lì e sottolineare l'enormità dello
sventramento.
Pugni nello
stomaco, che si ripetono da 22 anni.
Poi mi è
capitata sotto gli occhi quella dell'auto di Falcone. Chissà quante altre volte
l'avrò vista. Eppure stavolta mi ha detto qualcosa in più. Non è stata l'auto sbrindellata,
squarciata, accartocciata, i vetri in frantumi, gli sportelli divelti a colpire
la mia attenzione questa volta, ma il cumulo di pietre sul tetto della vettura,
come un unico grande macigno.
Ecco: volevano
metterci un macigno sopra. E oggi ho la sensazione che stiano continuando ad
ammassare macigni: su quell'auto e sulle nostre teste.
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