Io
glielo dico sempre a Roberta che no, non ne voglio sentire, ma lei non mi vuole
ascoltare. A sua discolpa, devo dire che ha quasi la metà dei miei anni e
perciò la sua è la generazione dei selfie. Il problema (si fa per dire) è che
noi due abbiamo scritto insieme un libro e, ad ogni presentazione che facciamo,
lei arriva e subito mi fa: ora ci facciamo un selfie.
Ormai
è diventato un gioco, un gioco dispettoso: più io mi rifiuto, più puffa
brontolona ripeto “io ooodio i selfie”, e più lei insiste. E alla fine mi
costringe. Con il risultato che vengo peggio di quanto già non venga nelle
fotografie normali.
Ma
adesso finalmente ho una motivazione scientifica (oltre a quella “paturniale”).
Pare infatti che i selfie facciano male, per quanto per motivi diversi, sia a
chi li fa che a chi li “riceve”, cioè è costretto a guardarli. Tanto che
qualcuno ha anche inventato un termine nuovo, selficidio, che fra l’altro
tecnicamente non è nemmeno corretto visto che la “vittima” non è il selfie ma
chi lo subisce. Ma tant’è.
Insomma
in India sei ragazzi sono finiti in ospedale: la loro malattia si chiama
disordine dismorfico del corpo. In pratica sentono un bisogno irrefrenabile di
fotografarsi, lo fanno, si guardano, si vedono brutti, notano tutti i difetti
fisici del mondo, il naso storto, gli occhi a palla da biliardo, i brufoli tipo
polenta in ebollizione, e gli vengono le crisi isteriche.
Le
stesse, a quanto pare, che vengono ai “fruitori” dei selfie altrui: quelli cioè
che vedono sui social i loro amici belli e felici e sono dilaniati dall’invidia,
gli si prosciuga l’autostima e cadono in depressione.
Che
poi se ti viene la rabbia a vedere la felicità dei tuoi amici, a prescindere
dai selfie vuol dire che qualche problema ce l’avevi già: anzi, direi che sei
proprio stronzo. O sei un amico fasullo. E questa è davvero una malattia grave.
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