lunedì 16 febbraio 2015

CCCPf

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Giornata fra donne, operatrici e tirocinanti di un centro antiviolenza della mia città. Donne giovani e femministe - quasi un ossimoro in quest'Italia tornata indietro di quarant'anni -, consapevoli e impegnate, qualcuna grazie alla prof del liceo che faceva leggere Simone de Beauvoir, qualche altra grazie alle insegnanti universitarie. Studi e tesi di laurea che in alcuni casi le hanno quasi "costrette", ma di buon grado, a cambiare i loro percorsi di vita e professionali.
Abbiamo parlato dei condizionamenti sociali, del lessico maschilista che volutamente ignora la professionalità delle donne, della violenza di genere che non c'entra niente con l'aggressività che può anche essere femminile, delle "scuse" che la società trova per giustificare gli uomini violenti, delle balle sul "raptus" e sull'eccesso di "amore", della trasversalità assoluta del fenomeno, del coinvolgimento emotivo che può provocare la telefonata di una donna vittima di violenza anche se poi sai affrontare la situazione e non lasciarti travolgere.
Mosche bianche, minoranza, rispetto al fiorire di culi, tette, lustrini, paillettes, carriere facili, ministeri senza competenze, sete di potere declinata al maschile, ma segno che non tutto è stato cancellato delle battaglie delle donne e che da questi piccoli nuclei si può ripartire, seminare e raccogliere.
Mi ha fatto pensare a un giornale che faceva mio figlio al liceo. Si chiamava CCCPf, che poi - senza la f - era l'Unione sovietica e anche il gruppo di Giovanni Lindo Ferretti (anche se poi il capo ha fatto la fine che ha fatto: incattolicendosi e indestrandosi); ma se lo leggevi in dialetto e con la f era la sintesi dell'ottimismo della volontà: Curaggiu, cumpagni, c'a putemu fari, Coraggio, compagni, ce la possiamo fare. In questo caso: coraggio, compagne, ce la possiamo fare.

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