Giornata fra donne, operatrici e tirocinanti di un
centro antiviolenza della mia città. Donne giovani e femministe - quasi un
ossimoro in quest'Italia tornata indietro di quarant'anni -, consapevoli e
impegnate, qualcuna grazie alla prof del liceo che faceva leggere Simone de Beauvoir,
qualche altra grazie alle insegnanti universitarie. Studi e tesi di laurea che
in alcuni casi le hanno quasi "costrette", ma di buon grado, a
cambiare i loro percorsi di vita e professionali.
Abbiamo
parlato dei condizionamenti sociali, del lessico maschilista che volutamente
ignora la professionalità delle donne, della violenza di genere che non c'entra
niente con l'aggressività che può anche essere femminile, delle
"scuse" che la società trova per giustificare gli uomini violenti,
delle balle sul "raptus" e sull'eccesso di "amore", della
trasversalità assoluta del fenomeno, del coinvolgimento emotivo che può
provocare la telefonata di una donna vittima di violenza anche se poi sai
affrontare la situazione e non lasciarti travolgere.
Mosche
bianche, minoranza, rispetto al fiorire di culi, tette, lustrini, paillettes,
carriere facili, ministeri senza competenze, sete di potere declinata al
maschile, ma segno che non tutto è stato cancellato delle battaglie delle donne
e che da questi piccoli nuclei si può ripartire, seminare e raccogliere.
Mi ha fatto
pensare a un giornale che faceva mio figlio al liceo. Si chiamava CCCPf, che
poi - senza la f - era l'Unione sovietica e anche il gruppo di Giovanni Lindo
Ferretti (anche se poi il capo ha fatto la fine che ha fatto: incattolicendosi
e indestrandosi); ma se lo leggevi in dialetto e con la f era la sintesi
dell'ottimismo della volontà: Curaggiu, cumpagni, c'a putemu fari, Coraggio,
compagni, ce la possiamo fare. In questo caso: coraggio, compagne, ce la
possiamo fare.
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