"Una donna che denuncia per stalking viene
spesso tacitamente considerata la vera responsabile delle persecuzioni che
subisce. Quando chi ha il dovere di portare avanti seriamente le indagini
capirà che non è così forse le cose cambieranno, ma ci credo poco".
Uno dei tanti
messaggi, si dirà (comunque mai abbastanza per attirare l'attenzione su una
mattanza senza fine), pubblicati ieri su Facebook da molte donne e anche da
qualche uomo dopo la notizia dell'uccisione di Giordana Di Stefano, una ragazzina
di vent'anni, una mamma bambina, scannata come un animale al macello dal suo ex,
animale rabbioso che non voleva mollare la sua preda. Un messaggio - si dirà -
di analisi della situazione, scritto in maniera asettica e razionale; un
messaggio di denuncia, politico, distaccato come (forse) si conviene a un
discorso che dovrebbe toccare tutti e che riorganizza in pensiero il
raccapriccio universale. Ma c'è una frase, l'ultima, che non ho ancora
riportato, che di quelle considerazioni generali fa un messaggio nella
bottiglia: "E parlo per esperienza personale".
Quel messaggio
nella bottiglia lo ha lanciato nel grande mare aperto di Facebook una mia
amica. Anche lei, come Giordana, da tempo vive in quello stato di
strangolamento dovuto a telefonate, messaggi, pedinamenti, minacce, quello che
un'altra donna vittima di violenza ha definito di "pre-morte", lo
stalking che diventa morte civile quando ci aggiungi l'ostilità della famiglia
e la sottovalutazione - se non la derisione - di inquirenti, avvocati e
presunti esperti.
Io non so cosa
fare per la mia amica. Le ho consigliato di andare al Centro antiviolenza e la
incito continuamente a non mollare, ma di più non so fare, non posso fare, se
non farmi carico della sua angoscia come se fosse mia.
Altri
dovrebbero fare, ma non fanno. I giornalisti, per esempio, che dovrebbero
smetterla di parlare di omicidio come hanno fatto anche in questa occasione, e
soprattutto chi fa e chi applica (o non applica) le leggi. Non sono andata e
non andrò sulla pagina Facebook di Giordana, non mi piace farlo, mi ricorda il
voyerismo morboso di quelli che intasano l'autostrada dopo un incidente o di
quelli che si imbucano ai funerali violentando il dolore altrui, ma so che in
questi casi giornalisticamente è doveroso farlo. E infatti molti giornalisti lo
hanno fatto, riportando le parole di Giordana: delusione, disillusione, accuse,
richieste di aiuto. Giordana il suo messaggio nella bottiglia lo aveva lanciato ripetutamente
in diversi post, ma i giornalisti - anche quelli animati dalle migliori
intenzioni - non hanno potuto far altro che riferire quelle parole quando non
c'era più niente da fare. Da quei messaggi e dalle interviste successive al
femminicidio si deduce che la giustizia andava a passo di lumaca e che gli amici non
avevano capito la portata della tragedia.
Oggi sentiamo
che l'assassino, in lacrime, parla di raptus, dice che non voleva ucciderla e
che aveva paura che lei gli portasse via la bimba. Eh, no, basta: non c'è
raptus perché altrimenti non saresti tornato a casa a salutare tua madre e a
cambiarti prima di partire per luoghi lontani; se non volevi ucciderla non ti
portavi dietro un coltello; della tua bambina non te ne importa niente
altrimenti non le avresti tolto in un colpo solo la madre e il padre.
Non andrò
nemmeno a guardare il profilo del maschio femminicida, perché non voglio
rischiare di leggere messaggi di vicinanza a lui e di comprensione nei suoi
confronti che aumenterebbero la mia rabbia e il mio senso di impotenza. Quello
che posso fare è condividere il messaggio nella bottiglia della mia amica, come
ciascuna delle amiche di Giordana avrebbe dovuto fare con i suoi messaggi e
come ciascuno è ancora in tempo a fare con i messaggi nella bottiglia delle
amiche perseguitate dai loro ex. Prendeteli tutti questi messaggi che sembrano
frasi buttate lì a caso, metteteli ciascuno in una bottiglia e lanciateli nel
mare dei social, trascriveteli e portateli in caserma, in tribunale, in
questura, fateli girare più che potete. Sono queste le cose che dovremmo fare
diventare virali.
"Una
donna che denuncia per stalking viene spesso tacitamente considerata la vera
responsabile delle persecuzioni che subisce. Quando chi ha il dovere di portare
avanti seriamente le indagini capirà che non è così forse le cose cambieranno,
ma ci credo poco. E parlo per esperienza personale".
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