È passato a salutarmi Federico. Ero andata nella
mia casa da adolescente. Abbandonata, i muri scrostati, la carta da parati a
brandelli, non un mobile, non un quadro alle pareti, vuota. Ho aperto le
imposte, ho tirato su le serrande e si è riempita di sole. Poi dal balcone è
entrato lui, mbrau, si è strusciato contro le mie gambe facendo le fusa ed è
andato via di nuovo. Strano, aveva un collarino e un guinzaglio rossi. Io non
lo tenevo al guinzaglio.
Forse voleva dirmi che da lì dov’era lo tenevano
legato e non poteva tornare. Forse voleva dirmi che avrei fatto bene a tenerlo
al guinzaglio, quando dalla nostra casa ci siamo trasferiti in un’altra dove
persone e animali esistevano solo perché “servivano” a qualcosa e i gatti per alcuni
servono solo a prendere i topi. Quindi è naturale che stiano fuori, anche a
costo di essere ridotti a purea dalle macchine che passano a velocità, tanto
poi ne prendi un altro, e un altro e un altro ancora – come fosse un frigorifero
o un frullatore -, purché faccia il proprio dovere, purché assolva al compito
di catturare i topi.
Sono passati più di quarant’anni. L’anno non lo
ricordo con esattezza, forse era il 1976 o forse il 1977, ma il giorno sì. E
chi se lo scorda? 5 maggio: Ei fu. Siccome immobile, spiaccicato. Sì, lo so,
nel frattempo sarebbe morto comunque, un gatto non dura più di vent’anni, ma fa
male lo stesso. E oggi che dal cielo cadono lacrime grosse come polpette fa
ancora più male.
Chissà perché di tanto in tanto quelli che non
ci sono più passano a salutarti quando meno te lo aspetti: forse perché c’è un
anniversario in vista che fa un male cane, forse perché hanno paura che ti
dimentichi di loro, forse per dirti che loro non si sono dimenticati di te.
Forse perché vogliono dirti che lo sanno bene che non li hai dimenticati. E
sanno pure che hai un gran bisogno di loro, ma non possono tornare, anche se
dal cielo cadono lacrime grosse come polpette.
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