Qualche giorno fa sono entrata in un negozio di
abbigliamento della mia città e ho fatto il giro al contrario, cominciando
dalla cassa: perché era lì che avevo avvistato la prima commessa e perché ero
entrata esclusivamente per manifestare la mia solidarietà alle impiegate, dopo
la decisione dell’azienda di chiudere i punti vendita in tutta Italia, con
conseguente sterminio di massa dei dipendenti.
E lì ho avuto una vertigine, quando la ragazza
mi ha guardata come per dire «ma questa pazza che cazzo dice?» liquidando la
questione con un «e vabbè, signora, non è un problema!».
Non è un problema? No, evidentemente non è un
problema e il problema sono io, perché poi ho continuato a girare per il
negozio per annusare gli umori ed è arrivata la seconda vertigine: commesse
sorridenti (va bene che rientra nei vostri compiti, ma incazzatevi almeno
stavolta!) e clienti – quelle che lo sapevano già e le altre che lo
apprendevano in quel momento -, tutte, la cui unica preoccupazione era «e
adesso dove vado a comprare i vestiti?». Con commessa solerte e sempre più
sorridente pronta a consolarle: «mi apro un negozio con i vestiti che vi
piacciono, tanto li conosco i vostri gusti». Fosse facile. Fosse facile fare un
investimento iniziale, pagare l’affitto, ordinare uno stock di abiti, versare
le tasse, farsi estorcere il pizzo che in questa città è una tassa che si paga
pure per respirare e che nei negozi pagano pure i clienti (per via dei prezzi
maggiorati) e non solo i gestori.
Ho capito che dovevo andarmene, la vertigine
aumentava. Sono ripassata dalla cassa per scambiare altre due parole con quella
ragazza, che ancora una volta – con il suo ottimismo della volontà (o
dell’incoscienza?) - ha inferto un duro colpo al mio pessimismo della ragione.
In pratica il suo ragionamento era questo: ho 23 anni, vuole che non trovi
subito un altro lavoro? Pro forma, quasi per farmi contenta, ha aggiunto di
mala voglia: «Certo, mi dispiace per le altre che sono più grandi, ma…». Già,
ma: «ma bisogna essere positivi altrimenti le cose positive non succedono»,
come fosse colpa o merito del Fato. Nessuna presa di coscienza (e quanto fa
male a cinquant’anni da quella presa di coscienza giovanile collettiva, di
studenti operai operaie impiegati impiegate, che fu il Sessantotto), individualismo
allo stato puro, nessun vago pensiero sindacale, nessuna solidarietà di classe:
io so’ io perché ho 23 anni e voi che ne avete 30 e siete già “vecchie” non
siete un cazzo. E cazzi vostri. Senza rendersi conto che, appena avranno finito
di dire alle sue compagne di lavoro che sono troppo vecchie per essere assunte,
lo diranno a lei che nel frattempo – fra un curriculum e l’altro, fra un
colloquio e l’altro, fra una proposta indecente e l’altra – di anni ne avrà
compiuti 24, 25, 26, 27… e sarà troppo vecchia per il mercato della carne
fresca.
Mentre a me resterà la rabbia e il sospetto che
al momento della formazione, oltre a insegnare loro come essere gentili con le
clienti, a sorridere, a convincere la signora taglia 54 di essere portatrice
sana di una 42, che «le sta benissimo!», le abbiano anche lobotomizzate ed
educate a dire «sì, grazie» e a sorridere anche al signor padrone e a
diventarne “complici” fingendo serenità per non metterne a rischio i profitti, mentre lui sta facendo a pezzi le loro
vite.
Avrei voluto urlarle: «Alice, sveglia, questo
non è il paese delle meraviglie dove ci sono solo un coniglio nevrotico e
adorabili animaletti colorati: questo è il paese degli orchi». Invece ho
salutato e me ne sono andata, a capo chino come se dovessi vergognarmi di
qualcosa. O come se avessi appena preso atto di una sconfitta: perché so che quella
ragazza non ha colpa, ma abbiamo colpa tutti noi della sua incoscienza di
classe.
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