lunedì 22 maggio 2017

Il time-lapse della vita precaria

Da qualche giorno non faccio che pensare alla bambina con il cappotto rosso. Ve la ricordate? Quella di Schindler’s List: la macchia di colore che spicca nel grigio della disperazione e sembra che abbia scelto quel cappottino perché non ci dimenticassimo di lei, perché la sua richiesta d’aiuto si sentisse più forte.
Ho immaginato che la bambina con il cappotto rosso fosse sopravvissuta al rastrellamento per trascinarsi fino a oggi e andare a schiantarsi contro la cattiveria dello sfruttamento e della precarietà: il cappotto è cresciuto con lei, che adesso ha poco più di una trentina d’anni, quattro figli, un marito disoccupato sempre illuso e mai chiamato da un capo o da un caporale, un padrone bastardo (e questo – si sa - è un pleonasmo) e di un cinismo connaturato, un lavoro che la costringe ad uscire da casa quand'è ancora notte e a rientrare quand'è già notte. 
Passi nelle tenebre, passi sotto terra, viaggi infiniti in metro che servono a recuperare un po’ di sonno perduto, pendolari di tutti i colori e con gli abiti di tutti i colori e poi quella vampata, quel cappotto rosso che non puoi fare a meno di guardare.
Non so se Daniele Vicari nel suo ultimo film “Sole cuore amore” (titolo peraltro raccapricciante, che certamente non invita alla visione, ma ha una sua ragion d’essere) abbia fatto questa citazione da Spielberg consapevolmente e capisco che il parallelismo possa sembrare esagerato e irriguardoso. Ma non è forse un ghetto quello in cui viene rinchiuso in questa società spacciata per società del benessere chi non ha un lavoro o chi ce l’ha talmente precario (in nero, sottopagato, niente contributi, niente malattia, come da copione) da scegliere di non andare da un medico per non rischiare che gli prescriva uno o due giorni di riposo? Non è un ghetto una vita trascorsa in un sottoterra metropolitano e poi in un sovraterra fatto solo di angherie e soprusi? Non è un ghetto non avere una via d’uscita perché o lavori così o te ne vai e il padrone troverà sempre uno più disperato di te da brutalizzare?
Sembra un documentario il film di Daniele Vicari per quella lentezza e ripetitività delle azioni, necessaria a cogliere ogni istante. Fa pensare al time-lapse per seguire il movimento del sole o lo sbocciare di un fiore.

Ma qui manca l’ultimo frame e nel time-lapse della vita precaria il sole non sorge e il fiore non sboccia.

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