Da qualche giorno non
faccio che pensare alla bambina con il
cappotto rosso. Ve la ricordate? Quella di Schindler’s List: la macchia di
colore che spicca nel grigio della disperazione e sembra che abbia scelto quel
cappottino perché non ci dimenticassimo di lei, perché la sua richiesta d’aiuto
si sentisse più forte.
Ho immaginato che la
bambina con il cappotto rosso fosse sopravvissuta al rastrellamento per trascinarsi
fino a oggi e andare a schiantarsi contro la cattiveria dello sfruttamento e
della precarietà: il cappotto è cresciuto con lei, che adesso ha poco più di una
trentina d’anni, quattro figli, un marito disoccupato sempre illuso e mai
chiamato da un capo o da un caporale, un padrone bastardo (e questo – si sa - è
un pleonasmo) e di un cinismo connaturato, un lavoro che la costringe ad uscire
da casa quand'è ancora notte e a rientrare quand'è già notte.
Passi nelle tenebre, passi sotto terra, viaggi infiniti in
metro che servono a recuperare un po’ di sonno perduto, pendolari di tutti i
colori e con gli abiti di tutti i colori e poi quella vampata, quel cappotto
rosso che non puoi fare a meno di guardare.
Non so se Daniele Vicari nel suo ultimo film “Sole cuore
amore” (titolo peraltro raccapricciante, che certamente non invita alla
visione, ma ha una sua ragion d’essere) abbia fatto questa citazione da
Spielberg consapevolmente e capisco che il parallelismo possa sembrare
esagerato e irriguardoso. Ma non è forse un ghetto quello in cui viene
rinchiuso in questa società spacciata per società del benessere chi non ha un
lavoro o chi ce l’ha talmente precario (in nero, sottopagato, niente contributi,
niente malattia, come da copione) da scegliere di non andare da un medico per
non rischiare che gli prescriva uno o due giorni di riposo? Non è un ghetto una
vita trascorsa in un sottoterra metropolitano e poi in un sovraterra fatto solo
di angherie e soprusi? Non è un ghetto non avere una via d’uscita perché o
lavori così o te ne vai e il padrone troverà sempre uno più disperato di te da
brutalizzare?
Sembra un documentario il film di Daniele Vicari per
quella lentezza e ripetitività delle azioni, necessaria a cogliere ogni
istante. Fa pensare al time-lapse per seguire il movimento del sole o lo
sbocciare di un fiore.
Ma qui manca l’ultimo frame e nel time-lapse della vita
precaria il sole non sorge e il fiore non sboccia.
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