giovedì 18 aprile 2013

Femminicidio, come un'esecuzione mafiosa

Ho sentito qualcuno dire che il 130° femminicidio circa dall'inizio dell'anno (non è una cifra esatta, perché l'andamento è così veloce da non riuscire a tenere il conto e ad aggiornarlo, e anche questo dà la misura di una tragedia incommensurabile come una guerra o uno di quegli attentati devastanti dei quali non si riesce mai a quantificare il numero delle vittime), quello di ieri ad Ostia, ha avuto le stesse caratteristiche degli altri. In realtà non mi pare. L'antefatto, gli antefatti, sicuramente: con tutte quelle denunce per maltrattamenti prese sotto gamba e per le quali forse, una volta per tutte, bisognerebbe prevedere qualche forma di punizione per chi le sottovaluta. Come un altro antefatto può essere rappresentato dalla professione del femminicida: una guardia giurata che, come spesso accade, ha usato la propria arma per tutt'altra ragione per la quale la deteneva. E anche in questo caso, forse, bisognerebbe riflettere sulla formazione professionale di chi, avendo in pugno una pistola, ha anche in pugno la vita degli altri. Le modalità però sono, se possibile, più raccapriccianti. In pratica, un'esecuzione mafiosa: l'inseguimento in auto fra le auto sulla via Ostiense, lui che l'affianca più volte come in un film e poi spara attraverso il finestrino sei colpi fino ad ucciderla. Sei colpi, non uno o due. Come in un'esecuzione mafiosa, appunto: la vittima designata deve morire, perché ti pagano per questo e, soprattutto, perché altrimenti il prossimo morto sei tu. Ma qui non c'è denaro da guadagnare e non c'è un altro killer pronto ad ammazzare te se fallisci: qui - come in ogni femminicidio - c'è odio, una quantità impressionante di odio. E una quantità spaventosa di indifferenza che diventa correità.

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