venerdì 25 marzo 2011

Colpirne uno per educarne cento

Quando, alla fine del 2008, esplose lo scandalo delle morti per tumore – decine di morti per tumore – , avvenute negli anni, di dipendenti e studenti della facoltà di Farmacia di Catania che avevano frequentato assiduamente il cosiddetto “Edificio 2” respirando ogni sorta di veleno, il Rettore Antonio Recca (che pure ai tempi dei fatti contestati non era alla guida dell’Ateneo) si premurò di…far sapere, insomma di “avvertire” i giornalisti che non gradiva si parlasse della vicenda. E, se non fosse chiaro, minacciava querele per chi secondo lui infangava l’immagine dell’Università etnea, senza essere minimamente sfiorato dal dubbio che il fango su quell’istituzione lo aveva versato chi ha permesso che i lavandini (e, dunque, le fognature e, dunque, il mare) venissero usati per uno smaltimento a dir poco approssimativo di mercurio, piombo, arsenico, metalli pesanti.
Dev’essere una fissa per Recca quella della cosiddetta “immagine” e quella dei giornalisti e di tutto ciò che riporta alla stampa se, invece di occuparsi del rilancio e della difesa della qualità di quell’università che per grazia democristiana ricevuta si trova a dirigere, sembra aver passato gli ultimi due anni, con metodicità certosina e anche un po’ maniacale a raccogliere tutti gli articoli di giornale in cui si parlasse di Matteo Iannitti, che altro non è se non uno studente universitario che insieme ai suoi compagni lotta perché l’università non diventi una cloaca come nelle intenzioni del Ministro all’Ignoranza, Mariastella Gelmini. Articoli e comunicati usati da Recca come “prove” per chiedere al preside di Scienze politiche di prendere provvedimenti nei confronti dello studente.
E allora, se non avesse capito, glielo chiedo esplicitamente: “Scusi, Magnifico (e mi perdoni se mi scappa da ridere nel pronunciare quest’appellativo, ma è come dare dell’onorevole alla Minetti), ma non aveva proprio un cazzo da fare che occuparsi di Matteo Iannitti?
Il fatto è che per Recca e per quelli come lui a creare problemi non sono le cose che fanno schifo (ci permetterà una citazione dal suo ex amico di partito, Totò Cuffaro), ma quelli che denunciano le cose che fanno schifo come hanno fatto Iannitti e tutti i ragazzi del Movimento studentesco catanese (colpirne uno per educarne cento?) che in questi mesi si sono impegnati nella più sacrosanta delle battaglie: rivendicare il diritto allo studio sancito dalla Costituzione italiana così come il diritto alla libertà di esprimere il proprio pensiero, che il “Magnifico” Rettore vorrebbe negare agli studenti catanesi.
E così, per esempio, se nessuno ne parlasse nessuno saprebbe che a Catania chiude la facoltà di Lingue – forse colpevole di fare Cultura e di essersi aperta al territorio e di essersi guadagnata con la fatica di anni il prestigio dopo essere stata a lungo una sorta di parente povero di Lettere -; nessuno saprebbe del suo enorme conflitto di interessi determinato dall’essere esponente di rilievo del suo partito oltre che Rettore dell’Università; nessuno saprebbe della vergognosa laurea ad honorem conferita al palazzinaro Francesco Caltagirone, suocero del leader dell’Udc, Pierferdinando Casini; nessuno saprebbe – appunto – quello che è successo negli anni passati all’interno del’Edificio 2 di Farmacia.
Del resto, si sa, le cose non esistono se non se ne parla. Chissà perché, ma mi ricorda qualcosa che in Sicilia non esiste.
P.S.: giusto per far contento il Rettore, allego un articolo che scrissi per Rinascita proprio a fine 2008 sul Laboratorio dei veleni di Farmacia. Che però non è mai esistito.


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Fine anni Settanta, facoltà di Farmacia di Catania, primo giorno di lezione in laboratorio. Carmelo si sente subito investito da un odore “pestilenziale” e chiede se non sia previsto l’uso di mascherine. Gli rispondono: “Non siamo in trincea”. I suoi compagni si mettono a ridere.
Oggi il dottor Carmelo Lanza, farmacista di Acireale, a 53 anni si ritrova malato di leucemia. Gliel’hanno diagnosticata nel 2005. Anzi, se l’è diagnosticata da sé: continuava a dimagrire, pensava fosse colpa delle sigarette, è andato a fare le analisi, le ha ritirate, le ha lette. E nei dieci giorni passati da quella lettura al momento in cui le analisi le hanno viste i medici e gli hanno detto che era una forma che poteva essere controllata e curata con un chemioterapico, ha vissuto nell’angoscia. “Per anni – racconta – io e mia moglie ci siamo chiesti da dove venisse la mia leucemia. Poi è stata proprio lei a suggerirmi che poteva esserci un legame fra la malattia e il laboratorio. Pensavo non fosse possibile. Cominciai a documentarmi, a consultare Internet”. Intanto i medici gli chiedevano se avesse mai lavorato in un petrolchimico o come benzinaio. Ma lui, per sei anni, era stato infilato in quel laboratorio e quando tornava a casa puzzava di zolfo tanto che gli dicevano di non avvicinarsi.
Studiando, ora che ha “strappato quella laurea che mi ha portato soltanto la leucemia” e che si è messo a fare un lavoro che gli piace di più, ha scoperto che la malattia “ha un tempo di latenza che può superare i vent’anni”. Gliel’ha confermato anche il medico che lo cura in un ospedale di Catania: “Mi ha detto che il grosso deve ancora venire: per i prossimi vent’anni dobbiamo aspettarci ancora morti e ammalati”.
Lanza aggiunge di sentirsi in parte responsabile, “perché – spiega - io per primo svuotavo tutto nei lavandini. Ma trent’anni fa non c’era cultura ambientalista e poi ero autorizzato a ritenere che quelli fossero pozzi di raccolta. Potevo pensare che finisse tutto nelle fognature?”. No, non poteva, perché nessuno gli aveva detto niente, né a lui né ai suoi compagni di corso, tutti poco più che ventenni: “Se ci avessero dato delle disposizioni che non osservavamo, in quanto maggiorenni andremmo incriminati domani mattina”. Perché in quei lavandini riversavano mercurio, piombo, arsenico, metalli pesanti: “una bomba biologica” finita nelle falde acquifere e forse – azzarda – “si dovrà vedere nei prossimi vent’anni cosa è accaduto alla popolazione catanese”.
Il laboratorio, infatti, quello della cittadella universitaria di Catania, è rimasto in funzione tale e quale – persino con le viti e i cardini delle porte corrosi, come Lanza li aveva notati già trent’anni fa – fino al novembre scorso, quando è stato messo sotto sequestro dalla magistratura che da più di un anno indagava in seguito a un esposto anonimo. Iniziativa autonoma della procura – precisano gli inquirenti -, perché fino a quel momento non c’erano state denunce.
Da lì è partito l’effetto domino: appena si è diffusa la notizia del sequestro – riferiscono i magistrati – dietro la loro porta “c’era la fila”. E adesso – anche se ancora il nesso è tutto da dimostrare - si parla di decine di persone che si sono ammalate o sono morte per avere frequentato quello che qualcuno chiama il laboratorio degli orrori: studenti, ricercatori, docenti, impiegati, senza distinzione, tutta gente che lì ci passava giornate intere per anni.
Ricercatore era Emanuele Patanè, morto a 29 anni di tumore al polmone alla fine del 2003 dopo avere passato là dentro circa tre anni di vita e avere visto cadere come in guerra, una dopo l’altra, le persone che conosceva. Due mesi prima di morire Emanuele aveva acceso il suo computer di casa e aveva cominciato a scrivere: cinque pagine in tutto in cui faceva i nomi di quelli che erano morti o si erano ammalati, dei tumori che li avevano colpiti, dei veleni riversati negli scarichi dei lavandini, di quelli che avrebbero dovuto provvedere e non lo facevano, e poi l’elenco di tutte le cose che non funzionavano. Poi però si è rivolto all’avvocato sbagliato, codardo o colluso, che gli ha sconsigliato di mettersi contro i baroni dell’università. E quelle cinque pagine erano morte con lui, sepolte in un computer spento che non aveva più ragione di essere acceso.
Fino a quell’8 novembre, giorno del sequestro da parte della procura, che nella prima fase delle indagini ha messo sotto inchiesta per disastro colposo nove persone, fra le quali l’allora rettore dell’università: l’ondivago democristiano Ferdinando Latteri, momentaneamente – dopo passaggi da destra a sinistra e ritorno – in forza all’Mpa di Raffaele Lombardo. Appresa la notizia dai giornali, il padre di Emanuele ha preso quelle cinque pagine e si è presentato nello studio di Santi Terranova, un avvocato di Lentini che segue numerose vicende simili, in prima linea nelle denunce sui troppi casi di bambini leucemici nati nel suo comune, territorio dove ha sede la base militare americana di Sigonella e troppo vicino al polo industriale siracusano.
“Mi fece rabbrividire - racconta, riferendosi alla lettura di quelle carte -, gli chiesi di portarmi il computer e lo allegai alla denuncia come prova”. E comincia ad elencare, uno per uno, i nomi contenuti in quel memoriale e anche quelli delle persone che – una volta scoppiato lo scandalo – si sono presentate a lui: c’era Giovanni Gennaro, un tecnico di laboratorio morto di tumore al polmone che – secondo quanto raccontano quelli che lavoravano con lui – aveva più volte fatto presente il problema e per questo sarebbe stato relegato altrove; e poi Maria Concetta Sarvà, una ricercatrice morta nel 2002 dopo essere entrata in coma proprio mentre si trovava in laboratorio; Agata Annino, una laureata uccisa da un tumore al cervello; la dottoressa Pittalà, incinta di sei mesi, il cui bambino era stato ucciso da mancanza di ossigenazione: e ancora: la professoressa Annamaria Panico, il dottor Gubernale, il signor Alfonso Russo, una studentessa e una laureata di Lentini, colpite tutte e due da tumore al colon; un ragazzo di Lentini e un altro di Ragusa a cui la malattia ha preso i testicoli, e la ragazza della provincia di Enna che ancora combatte con il cancro alla tiroide; quell’altra, ragusana, affetta da linfoma di Hodgkin...nomi su nomi e alcuni senza nome, perché magari lavorano ancora lì e per paura di perdere il posto hanno preferito non presentare denuncia. Un film dell’orrore: “Un numero elevatissimo – secondo l’avvocato Terranova -, almeno una ventina di casi, se rapportato alla popolazione universitaria degli anni fra il 2000 e il 2008”. Cioè più o meno il periodo su cui indaga la procura, che prende gli anni del rettorato di Latteri, dal 2000 al 2006. E chissà che non si debba andare a ritroso ancora di molto, considerato il caso di Carmelo Lanza.
D’altronde i Pm – che finora hanno condotto le indagini prevalentemente esaminando la documentazione in possesso dell’Università e le consulenze tecniche commissionate dallo stesso Ateneo – affermano che ormai da almeno 15 anni l’Università conosceva la situazione di quell’edificio: “I vertici del Dipartimento e della Facoltà – spiegano – avevano contezza che i reflui del laboratorio non venivano smaltiti secondo le norme di legge, ma sversati nelle condutture o mal gestiti”. E confermano “una situazione in cui sostanze chimiche molto pericolose rimanevano a lungo in armadi privi di sistemi di sicurezza, nei corridoi o in frigoriferi quasi ad uso domestico” e soprattutto “lo sversamento nelle condutture”: pratica diffusa a quanto sembra “perché – chiariscono – basata sul concetto della goccia nel mare”, cioè sulla convinzione che quelle sostanze sarebbero state diluite talmente da non creare problemi. Ma per i magistrati non è questo il punto, tanto che si tratta di un aspetto non contestato agli indagati. Il problema, invece, è che condutture fatiscenti non riuscivano a contenere tutta quella roba che negli anni è finita nel terreno sottostante saturandolo e, soprattutto, che i direttori di Dipartimento e i presidi di Facoltà succedutisi negli anni avevano una “precisa conoscenza” dell’inquinamento del sottosuolo perché già dal 2000 quel terreno non conteneva più niente e rimandava su quello che aveva ricevuto: “nuvolette tossiche e irritanti” – riferiscono - tornavano in laboratorio attraverso gli scarichi dei lavandini, il pavimento, le pareti. Questo anche quando non c’erano in corso attività e anche in stanze lontano dai laboratori, come gli “uffici di segreteria, o quelli del personale amministrativo e dei docenti”. E c’erano segnalazioni scritte che parlavano di irritazioni alla pelle, alle vie respiratorie, alle mucose. In un crescendo, fanno notare gli inquirenti, tanto da indurre l’Ateneo a nominare una commissione di vigilanza interna (i cui componenti oggi sono tutti indagati). Ma a questo non seguì “nessun provvedimento, nessuna denuncia agli organi competenti, nessuna richiesta di intervento all’Arpa (obbligatoria da parte dei vertici della struttura, ndr) o all’Asl: parliamo di docenti e tecnici che sanno benissimo, per esempio, cos’è il mercurio e quali sono i suoi effetti”. In realtà qualcosa succede. Chiamano un tecnico per una valutazione e quello dà una risposta assurda: dice che non c’è niente ma è indispensabile procedere con urgenza. Soltanto nel 2005 la commissione di vigilanza decide di affidare una consulenza a una ditta di Milano che solitamente esegue operazioni di bonifica nei poli industriali. Risultato: gli esperti spiegano di avere avuto le stesse percezioni di quando vanno nei petrolchimici (bruciori alla pelle e alle vie respiratorie) e affermano – riferiscono ancora i magistrati - che “sotto il pavimento c’è una grave contaminazione che richiederebbe accertamenti appropriati per la bonifica, chiusura del sito, carotaggi (studi approfonditi del terreno con prelievo di campioni, ndr)”. Intanto hanno già ispezionato le condotte e documentato con foto che i tubi sono corrosi e le condutture sono bucate. L’Università però non vuol saperne di attività di verifica e autorizza soltanto “controlli minimi”. Anzi: qualcuno a un certo punto predispone una delibera per stanziare dei fondi per la messa in sicurezza dei luoghi, ma quell’atto non arriverà mai in consiglio di amministrazione. Ne verrà approvato un altro, invece, in cui si predispone un intervento di sostituzione delle tubature, ma motivato con la presenza di umidità!
E qui – dicono i pm – scatta la responsabilità. E l’accusa di gestione di discarica abusiva, che si verifica “quando si ha contezza di una situazione di inquinamento e si cerca di nasconderla”. Loro la chiamano “tombatura”. Si chiude la verità in una tomba in modo che nessuno ne sappia niente: nemmeno quegli operai mandati lì “a scavare mercurio” convinti di occuparsi semplicemente di umidità.
Il mercurio e tutto il resto saranno rilevati invece, l’estate scorsa, dai consulenti della procura che parleranno di concentrazioni di metalli pesanti centomila volte superiori a quelle consentite per i siti industriali, riscontrando valori molto elevati anche all’interno dell’edificio, nelle pareti, nei corridoi, nelle scale, persino nella terra dei vasi con le piante. E’ a quel punto che i magistrati dispongono il sequestro preventivo. Soltanto in un secondo momento – dopo che, appunto, decine di persone si sono presentate a raccontare storie di familiari morti o malati di tumore – è stato aperto un secondo fascicolo che richiederà più tempo e indagini approfondite per stabilire il nesso fra l’inquinamento e i casi di malattia.
Intanto un paio di cose sono certe: nel suo memoriale, Emanuele Patanè elencava le sostanze più frequentemente usate nel laboratorio di Farmacologia dell’Università di Catania. Fra queste il nichel, il benzene, il butadiene, il cromo, l’arsenico, il cadmio e altre: le stesse inserite nella lista degli agenti cancerogeni o potenzialmente cancerogeni per l’uomo stilato dallo Iarc, l’Agenzia internazionale della ricerca sul cancro, organismo intergovernativo che fa parte dell’Organizzazione mondiale della Sanità e che periodicamente aggiorna la lista del rischio. Nichel, benzene e butadiene – secondo quanto ci ha spiegato Sebastiano Romano, specialista di Medicina del Lavoro – provocano le leucemie, mentre lo stesso nichel, e con esso cromo, arsenico e cadmio, sono all’origine dei tumori ai polmoni. Leucemie e tumori ai polmoni sono le malattie riscontrate prevalentemente nelle persone che hanno frequentato il laboratorio.
Ma c’è un particolare che Romano tiene a sottolineare e che smonta la teoria di quanti sostengono che là dentro “fumavano tutti come turchi”. E cioè che – nel caso di Farmacologia – non si tratta di tumori “naturali”, ma “di tipo ambientale”. Perché – spiega – “l’età delle persone decedute non corrisponde ai tumori riscontrati”, dal momento che il tumore ai polmoni viene quando hanno circa settant’anni al 25% dei fumatori, mentre di casi di ragazzi fra i venti e trent’anni che contraggono quel tipo di malattia se ne verificano “uno ogni diecimila”.

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