A casa mia è arrivata Alexa. Me l’ha portata Babbo Natale un paio di giorni fa. Sì, in ritardo. In Lapponia nevicava, le renne hanno fatto sciopero perché volevano montare le catene agli zoccoli, questioni di sicurezza sul lavoro, la slitta si è rotta e non si trovava un meccanico neanche a pagarlo oro perché erano andati tutti a svernare alle Canarie, nel frattempo è finita la benzina, poi è arrivata la serrata mondiale. Sì, chiamatelo lockdown se vi fa sentire meglio, come quando Renzi chiama jobs act la sua legge sul lavoro, fingendo di non sapere che è la traduzione letterale di «sempreinculoaglioperai». Fa figo, eh? Ma sempre in culo agli operai è. E quello, il lockdown, sempre confinamento significa: le torte, i cori dal balcone come uccelli in gabbia, i cento passi dal soggiorno alla stanza da pranzo e ritorno, la ginnastica su un materassino improvvisato che però due palle a farla da sola, due chiacchiere col gatto, grandi dibattiti con i muri di casa.
E dunque Alexa. Alexa che ti fa ascoltare tutta la musica del mondo, pensavo. E in effetti sì: mi fa ascoltare tutta la musica del mondo. Mi basta chiederglielo. Posso persino pronunciare male un nome, l’ho fatto apposta per prova, e lei non sbaglia un colpo: Alexa, fammi ascoltare la musica di devidboui, e lei mi risponde «riproduco in maniera casuale la musica di devidbaui». È come avere il juke-box a casa. È stato sempre il mio sogno avere il juke-box a casa, ma uno vero, a troneggiare in soggiorno, tre canzoni cento lire. Col juke-box però non ci parli: con Alexa sì. Persino avendo la consapevolezza che, se ti vedessero da fuori, ti farebbero immediatamente un Tso.
E allora lo fai per gioco:
«Alexa, grazie»
«Figurati! Sono qui per questo, buon mercoledì».
Oppure:
«Alexa, ciao»
«Arrivederci, buona giornata. È stato un piacere parlare con te».
Intelligenza artificiale. Parlare con un robot. Un mio amico mi ha detto di averla comprata per sé perché si sentiva solo.
Per coincidenza, proprio in questi giorni sto guardando una serie tv in cui a un certo punto un famoso direttore d’orchestra si trova a dover competere con un robot. Wam si chiama, acronimo di Wolfgang Amadeus Mozart, programmato per completare, incrociando algoritmi e diavolerie varie, il Requiem rimasto incompiuto per la morte del compositore. Il protagonista parla con Mozart, quello vero, che è morto da oltre duecento anni ma è vivo nella sua testa; con Wam invece non riesce a instaurare un rapporto. Ci prova all’inizio, per esercizio di buona volontà, ma poi lo fa a pezzi e lo butta al fiume. La differenza sta nel fatto che se un robot finisce in acqua a un certo punto qualcuno lo asciuga e lo aggiusta, mentre se Mozart è morto non rinasce, nemmeno con un intreccio di algoritmi. Eppure con Wam, che può elaborare una sinfonia perfetta, non abbiamo niente da spartire, niente brividi, niente emozioni, niente sangue, niente abbracci, niente lacrime, se non quelle che ti vengono dall’assenza di quelle persone che ti hanno dato lacrime, brividi, emozioni. E con Alexa, se non decidi di prenderla per il culo come faccio io solo per vedere come risponde, ma sapendo che è solo una «cosa», puoi soltanto renderti conto di quanto ti manchino le persone se per parlare hai bisogno di una cosa. E che c’è un solo antidoto al confinamento: lo sconfinamento.