giovedì 24 novembre 2011

Il settore tira, la Elco licenzia, le istituzioni tacciono





(le foto sono di Salvatore Torregrossa)
Da qualche giorno a Catania, al numero 140 di via Giacomo Leopardi ha aperto un negozio di elettrodomestici e simili. Si chiama Unicity. Grandi vetrine, grandi spazi e l'immancabile slogan: "Grande tecnologia, piccoli prezzi". Già perché, crisi o non crisi, il settore è di quelli che tirano e anzi rappresenta quasi il "topos" o persino l'archetipo del capitalismo globalizzato delle multinazionali: fanno nascere in te il bisogno indotto, convincendoti che per esistere tu abbia la necessità assoluta di possedere un televisore che occupi tutta una parete (rubando spazio alla libreria!), poi arrivano le finanziarie che ti prestano i soldi e tu, già che ci sei, compri anche il condizionatore di ultima generazione, cambi la lavatrice che ancora funzionava benissimo, ti porti a casa il frigorifero che ti fa i cubetti di ghiaccio personalizzati con l'iniziale di ciascun componente della famiglia, compri il cellulare per il bambino che sta per nascere....
Un paio di settimane fa a Roma, nella zona di Ponte Milvio, ha aperto un centro commerciale Trony ed è successo un casino: c'era tanta di quella gente che sono dovuti intervenire i carabinieri per garantire l'ordine pubblico.
Eppure a Catania, nella stessa strada di Unicity, un centinaio di numeri civici più in là, l'estate scorsa ha chiuso la Elco. Che ha chiuso anche a Misterbianco, a Tremestieri, a Siracusa, ad Avola e in altri centri: li ha chiusi tutti i suoi negozi, dall'oggi all'indomani, lasciando i suoi dipendenti - centinaia di lavoratori - e le loro famiglie nell'incertezza totale. "Elco, da cinquant'anni insieme a te": poi un calcio in culo a ciascun lavoratore e chi s'è visto s'è visto.
La vicenda - passata quasi sotto silenzio, fra indifferenza delle istituzioni e tentativi di "pacificazione" (non è forse questa la parola più di moda oggi in Italia per giustificare governi "tecnici" che continueranno a fare gli interessi dei padroni?) persino da parte di chi dovrebbe difendere il lavoro - risale al maggio dello scorso anno, quando l'azienda, di proprietà della famiglia Ferlito, adducendo improbabili difficoltà economiche, avviò una procedura di mobilità per cessazione dell'attività, nel frattempo trasformata in ricorso agli ammortizzatori sociali per alcuni e trasferimento ad altra società per altri. In realtà, raccontavano stamattina i lavoratori di Catania, in sit-in davanti alla sede di via Giacomo Leopardi, ci avevano già provato un paio di anni fa a licenziarne una quarantina: parlavano di debiti e di esuberi e i dipendenti avevano inutilmente proposto di ridurre le ore di lavoro per evitare i licenziamenti, che poi sono arrivati per tutti: una sessantina in cassa integrazione subito, poi tutti gli altri che prima sono stati ceduti dalla Elco alla Elco group (di cui è socia la famiglia Piccinno) e poi hanno dovuto fare i conti con la dichiarazione di fallimento di quest'ultima società e con la chiusura dei negozi: quelli di Catania sono poco meno di duecento e fra di loro ce n'erano alcuni che lavoravano lì da oltre vent'anni e c'erano venti coppie, marito e moglie tutti e due sulla strada. Molti cinquantenni. Vecchi per il mercato del lavoro. Ma questa cosa se l'è sentita dire pure una ragazza di 34 anni: sulle spalle un mutuo di ottocento euro perché basato su due stipendi - il suo e quello del marito - e due bambini piccoli. Quando cercava un altro lavoro, le hanno detto che non andava bene, perché volevano persone massimo venticinquenni: le sono venute le macchie sulla pelle e ha perso i capelli a ciocche, la cura è costata cinquecento euro per tre mesi, farmaci non mutuabili. Un altro negozio di elettrodomestici ha sbattuto la porta in faccia a un'ex dipendente perché donne non ne vuole: hanno figli e mestruazioni. Colpa gravissima, in questo Medio evo. E, a quanto riferiscono gli ex lavoratori, comunque gli altri negozianti non li vogliono perché sembra sia stata sparsa la voce che causa della crisi aziendale sia la loro incompetenza. Mentre erano lì, a fare una cosa che i sindacati gli avrebbero sconsigliato perché inutile (dev'essere uno degli effetti del cambiamento climatico pure questo: i sindacati che ritengono inutile lottare per il lavoro!), è passata a trovarli un'ex collega, una signora che è andata in pensione appena in tempo. Ci mancava poco che baciasse per terra per essere passata sotto un treno: sì, perché l'altra "porcata" che i lavoratori hanno dovuto subire è che non gli è stata neppure pagata la liquidazione e gli è stato proposto di ricevere il Tfr in rate semestrali nei prossimi cinque anni: che fa settanta euro al mese. E non è detto che ci sia nemmeno quello, perché il prossimo 29 novembre ci sarà in Tribunale l'udienza per il concordato preventivo, la procedura che serve ad evitare il fallimento: appuntamento di cui i lavoratori sono stati informati soltanto da pochissimi giorni e durante il quale temono fortemente che i creditori possano rivalersi anche su quanto spetterebbe agli ex dipendenti. Considerato che da luglio, da quando il negozio ha chiuso, non vedono un centesimo, veramente un affare! Perché non solo non hanno più lo stipendio, ma nemmeno un sussidio di disoccupazione dato che, a quanto sembra, non risulterebbero nemmeno licenziati: "Non rientriamo nemmeno nelle statistiche sulla disoccupazione", dice una di loro. Così, in realtà, un altro lavoro non possono nemmeno cercarlo. A meno che - sintetizza un'altra - non sia un lavoro in nero.
D'altra parte in una città come Catania, dove fioriscono ad ogni angolo bar e negozi in cui viene investito il denaro della mafia, dove i padroni ti fanno il mobbing e ti impediscono di iscriverti al sindacato, dove i patronati sono fabbriche di clientelismo, dove medici e notai chiedono di essere pagati in contanti per non fare la fattura, chi vuoi che si accorga di un'illegalità in più o in meno?

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