giovedì 28 febbraio 2019

È intelligente, ma non si applica

Francamente non vi capisco. Sto parlando con voi, prof di ogni ordine e grado, perché a volte mi fate rabbia. Alcuni di voi passano la vita a lamentarsi di studenti svogliati, poi arriva una studente che fa un lavoro perfetto e voi, invece di premiarla, la mortificate. E il sospetto è che gli svogliati siate proprio voi.
No, non tutti: non mi piacciono le generalizzazioni e non comincerò certo ora. Però qualcuno è intelligente ma non si applica: dovrebbe impegnarsi di più.
La storia è talmente assurda che mi viene il dubbio e persino la speranza che si tratti di una fake-news: in un istituto tecnico di Cagliari, l’insegnante di diritto ha assegnato un compito scritto e una ragazza è stata cazziata in malo modo, stando alla denuncia della mamma, perché lo ha scritto a penna. Cinque ore ci ha messo, a scrivere, cancellare, andare di labor limae, forse appallottolare e ricominciare di nuovo, fino alla fatidica «bella copia». Niente Ctrl+C o Ctrl+X e poi Ctrl+V, niente errori di ortografia cancellati dal correttore automatico, nessuna riga rossa a segnalare lo strafalcione, niente di niente, solo mani e cervello. Eppure la prof non ha trovato niente di meglio da fare che umiliarla, accusandola di «mancanza di voglia e di rispetto» perché quel compito avrebbe dovuto scriverlo al computer e stamparlo.
Ora io non dico che l’insegnante di diritto avrebbe dovuto fare come la mia maestra delle elementari che pretendeva (si era all’incirca nel giurassico) che scrivessimo esclusivamente con la penna stilografica e per di più diventava una belva rabbiosa se ci veniva la macchia blu nella parte interna della falangetta del dito medio, ma apprezzare lo sforzo sì. 
Non so quanti anni abbia questa insegnante, ma forse – se per caso fosse troppo giovane – potrebbe farsi raccontare da una mamma o una zia l’impegno del cercare le cose su un’enciclopedia (già, che strano animale sarà?), le sottolineature, gli appunti (scritti a mano), la scaletta (idem), la prima stesura, la seconda stesura, le cancellature, il non ce la farò mai e poi il «prodotto finito», bello come tutte le cose su cui hai sudato. E poi, già che c’è, la prof si faccia spiegare quant’era emozionante ricevere una lettera e sapere chi era il o la mittente sin da subito, solo guardando la busta, riconoscendone la grafia. Alla fine si faccia anche insegnare da qualcuno migliore di lei che saper analizzare la grafia potrebbe aiutarla a conoscere la personalità dei suoi studenti, addirittura avere il privilegio di entrare in sintonia con loro, e magari a non insultarli e a non tarpare loro le ali se fanno una cosa fuori dai suoi schemi, rigidi come quelli della mia maestra del giurassico.
Dopo di che, dovrebbe ringraziare qualcuno (magari gli insegnanti delle elementari e delle medie) se nella sua classe c’è un’alunna a cui piace scrivere, e scrivere a mano per di più.
P.S.: Se tutta questa storia è vera, l’insegnante non ci fa una bella figura e non oso pensare a cosa potrebbe fare se i suoi allievi dovessero ribellarsi a qualche ordine che lei ritiene inappellabile.
Ma c’è un altro dettaglio che mi rende odiosa questa vicenda: a casa di quella ragazza non c’è una stampante. Forse la prof di diritto (diritto!) prima di insultarla e mortificarla, avrebbe potuto chiederle perché non ha una stampante e quindi riflettere sul fatto che, per quanto costi relativamente poco, non tutti hanno la possibilità e dunque il diritto di comprare una stampante.


venerdì 22 febbraio 2019

L'olocausto dei bambini

Il mese scorso, quando Malta teneva sequestrati i migranti salvati dalla Sea-Watch3, Luigi Di Maio ha affermato che l’Italia era pronta ad accogliere donne e bambini. Un modo per provare (inutilmente) a dare una lucidata alla propria coscienza e per fare la parte del poliziotto buono. Un esempio lampante di quanto le parole, separate dai fatti, restino nient’altro che aria fritta.
Perché i fatti, negli ultimi tempi, in Italia, sono che i bambini – migranti o percepiti come stranieri anche quando sono nati e cresciuti nel nostro paese –, grazie al governo giallo-verde monopolizzato da Matteo Salvini e popolato da odiatori di professione, subiscono lo stesso odio che travolge i loro genitori. E forse anche di più, perché hanno tutta la vita davanti e un sacco di tempo per dimostrarci di essere migliori di noi. Già, i trogloditi al potere si dicono a favore della vita, ma per loro la vita di questi bambini vale meno di una frittella.
E allora vediamoli questi fatti, a partire proprio dalle frittelle: è di poco più di una settimana fa l’uscita del fascistissimo consigliere comunale di Mantova Luca de Marchi, ex (?) esponente di Casa Pound eletto nelle file di Fratelli d’Italia, che annunciava la sua presenza al luna park della città per distribuire i dolci della tradizione locale ai più piccoli. Ma solo agli italiani. Con la motivazione che «le famiglie extracomunitarie… godono, per quanto riguarda l’infanzia, di numerose agevolazioni, mentre le famiglie mantovane troppo spesso devono rinunciare ai momenti di svago con i figli perché subissate di pensieri riguardanti le difficoltà finanziarie». Un modo come un altro per mettere gli uni contro gli altri, per scatenare l’odio e la guerra fra poveri.
Che infatti è arrivata, puntuale come un orologio extracomunitario, nel senso di svizzero, seminando veleno da una parte all’altra d’Italia. 
A Roma un bambino egiziano di 12 anni è stato picchiato e mandato in ospedale, solo perché egiziano, da un gruppo di ragazzi. A quanto si sa, gli è successo tre volte in due mesi e adesso lui ha detto alla mamma che vuole andare via perché ha paura.  
La storiaccia di Foligno è venuta fuori ieri anche se risale a un paio di settimane fa: un bambino nero costretto dal suo maestro a guardare fuori dalla finestra della classe per non essere guardato in faccia dai suoi compagni perché «brutto»; la sorellina, in un’altra classe della stessa scuola, chiamata «scimmia» dallo stesso presunto educatore. Che si è difeso parlando di esperimento sociale e chiamando in causa la Shoah. Forse si era dimenticato di avvertirli, però, perché adesso, come ha detto il papà dei due bambini, «i miei figli stanno male». Fra l’altro ha aggiunto che è la prima volta che gli succede dopo tanti anni che stanno in Italia. E questo qualcosa vorrà pur dire, a proposito del clima che è cambiato.
Ma c’è un’altra storia altrettanto brutta ed è di oggi, fresca di giornata, rancida e puzzolente come il razzismo. È successo ancora a Roma, città «multiculturale», dove un italiano di 29 anni ha aggredito e ferito alla testa un bambino rom di 11 anni perché sosteneva di essere stato derubato. Ora, a parte che tentare di uccidere un bambino per poche decine di euro non è esattamente legittima difesa e a parte che il bambino rom potrebbe benissimo essere italiano come il suo aggressore, vorrei fare un paio di riflessioni: il bambino è stato perquisito dopo essere stato medicato, come se non gli fosse bastato lo choc dell’accoltellamento, e questo tradisce l’equazione rom=ladri che forse alberga anche in chi in quel momento avrebbe dovuto preoccuparsi di non procurargli altri traumi (e comunque non aveva addosso i soldi che secondo l’uomo gli aveva rubato); l’uomo, che ha passato una notte in cella e già stamattina era a piede libero con obbligo di firma, prima di essere bloccato ha avuto il tempo di urlare il suo manifesto politico: «Voglio ammazzare gli zingari perché mi hanno rotto il cazzo». 
Qualcuno ha detto che quando le vittime sono bambini è segno che si sta abbassando ulteriormente l’asticella, ma forse non è abbastanza: se pensiamo che qualche mese fa a Lodi i bambini «stranieri» – per ordine della sindaca leghista Sara Casanova e con la benedizione di un prete che li ha paragonati alle «zecche dei cani» – sono stati esclusi dalla mensa scolastica e segregati altrove, qui siamo all’Olocausto, all’uccisione dei bambini, «inutili bocche da sfamare», perché alle cosiddette «razze inferiori» venga negato il futuro oggi come allora. Qui siamo al nazismo e, se continuiamo a fingere di non averlo capito, non si salverà più nessuno.


martedì 5 febbraio 2019

I mémoires di un casanova squallido

In Italia c’è un coglione che scrive libri. Beh, sì, in Italia ci sono molti coglioni che scrivono libri (e molte case editrici che li pubblicano, perché il coglione – si sa – è redditizio), ma è uno in particolare il coglione di cui voglio parlavi e di cui non vi dirò il nome per non fargli troppa pubblicità, perché da un paio di giorni circola in rete la foto di una pagina del suo cosiddetto libro. Che, a giudicare da quelle poche righe, si potrebbe intitolare Lo sborone, che comunque fa inevitabilmente e inesorabilmente rima con coglione.
Il tizio in questione infatti non disdegna di farci conoscere le sue avventure erotiche, qualcuna addirittura – come fosse una gazza ladra attratta dal luccichio dell’oro – suscitata dalla vista di un Rolex, e di fare nome e cognome delle donne che «si è fatto». Il capitolo si intitola «Fighe». La parte per il tutto. 
Ma io non mi accanirei tanto su di lui, che già ha la sventura di essere un coglione, anche se ha la fortuna di avere trovato una casa editrice attratta solo dal profitto che ha scelto di pubblicare il suo libro di merda. Perché – ammettiamolo (ammettetelo) – in fondo il poco signorile signore in questione non fa altro che quello che fanno molti uomini ai quali non dispiacerebbe affatto pubblicare un elenco del telefono di tutte quelle che si sono scopate o di farne manifesti 6x3 da affiggere per le strade e che, in mancanza, si accontentano di farlo, fra un rutto e una grattata di palle, durante una serata fra soli maschi. Tredicenni, anche se hanno sessant’anni.
A volte qualcuno più temerario si spinge anche oltre: ha appena finito di scopare e, siccome non fuma, invece di accendersi una sigaretta, prolunga il piacere accendendo la lista di quelle con cui è stato. Cioè, è lì ancora con lo sguardo languido da innamorato, l’occhio annegato in un mare di beatitudine che manco al centro benessere, e intanto però comincia a fare nomi e cognomi. «Fighe». La sua collezione di francobolli. Le teste di cervo appese alla parete. Trofei da mostrare a se stesso per convincersi di essere «un vero uomo».
Un po’ frustrato dal fatto di non poterlo fare pubblicamente, magari per via di un certo ruolo sociale da difendere, e oggi finalmente «vendicato» dal libro (!) di mémoires di un casanova squallido e tatuato a cui vorrebbe tanto somigliare. E a cui guarda con ammirata invidia perché finalmente qualcuno ha messo in pubblico i bassi istinti. Come Salvini, che ha fatto diventare programma di governo l’essenza di molti italiani: cattiveria, maschilismo, misoginia, voglia di vendetta e di rivalsa. Del resto, dev’essere per questo che il marito (in carica: al momento non ha nemmeno l’alibi di essere un ex) di Cécile Kyenge ha deciso di candidarsi con la Lega. E magari un giorno scriverà un libro in cui racconterà quanti «negri» ha menato.