venerdì 26 maggio 2017

I vecchi in prima pagina

Sarà che sto diventando vecchia anch'io ma, per quanti sforzi di memoria faccia, un giornale italiano che dedica quattro pagine (le prime quattro, copertina compresa) ai vecchi non ricordo di averlo mai visto.
Lo ha fatto oggi Libération, che non ha aperto – come tutti i quotidiani – con l’appuntamento mondano di quelli che decidono tutto, ma appunto con quelli che non decidono più niente e non dispongono della loro vita e della loro vecchiaia. Né, a dire il vero, in quest’Italia giovanilista a tutti i costi, ricordo nessun appello come quello lanciato in Francia da scienziati, intellettuali, professori universitari, premi Nobel ed ex ministri per una vecchiaia libera e consapevole: perché Oltralpe (come da noi) non esiste una politica per la vecchiaia. Che poi è lo spunto da cui parte “Libé”. 
In Francia sono circa settecentomila i vecchi che vivono in case di riposo: soltanto pochi per scelta, mentre la gran parte non ne ha alcuna voglia e i firmatari del manifesto – la prima generazione i cui genitori finiscono i loro giorni all’ospizio e non vorrebbero andarci per niente al mondo -, pongono una serie di questioni, senza avere la pretesa di essere in possesso della soluzione. Che, del resto, dovrebbe appartenere alla politica. A quanto pare disinteressata e incapace, se l’unica cosa che riesce a pensare è di costruire altri posti dove garantire a queste persone nient’altro che qualche pasto e qualche visita medica.
I firmatari dell’appello – qualcuno dei quali è consapevole che si tratti di un’iniziativa naive – si chiedono come aiutare quanti non vogliono andare all’ospizio a prepararsi a quest’eventualità, se sia possibile spezzare questa fatalità, come dare la parola ai vecchi fino alla fine e poi, una volta in casa di riposo, come continuare a mantenere un “a casa” quando non si è più a casa.
Domande che restano senza risposte, ma che forse dovrà cominciare a porsi, in Francia come in Italia, questa nuova generazione di politici quarantenni: perché capiterà anche a loro (o, almeno, ai più fortunati) di diventare vecchi. E se non faranno qualcosa anche la loro di vecchiaia resterà – come si legge nel manifesto - «in disparte, silenziosa, opaca, condannata all’invisibilità».
Mi è capitato, qualche anno fa, di visitare alcune case di riposo e nemmeno le peggiori: i vecchi erano come pezzi di carne buttati alla rinfusa su un bancone in attesa di essere mangiati dai vermi. Morti prima ancora di morire. Lo dice chiaramente il sociologo François de Singly, intervistato da Libération: quando sei là dentro, non puoi parlare al futuro; quando sei a casa, invece, puoi pensare di ricominciare. Legittime le preoccupazioni dei figli a lasciare soli genitori che cadono in continuazione o dimenticano dove hanno messo le chiavi (o si ostinano a voler guidare la macchina) mentre «ricordano benissimo – si legge nell’appello – il colore della loro bicicletta a rotelle». E proprio per questo, per capire come conciliare inquietudini degli uni e desideri degli altri, bisognerebbe cominciare a parlarne e sarebbe bello che anche in Italia si aprisse il dibattito. Invece di fingere, come si fa anche per la malattia mentale, che la vecchiaia non esista.

«Que l’on vive à Paris
On vit tous en province
Quand on vit trop longtemps» (Da Les vieux di Jacques Brel)


lunedì 22 maggio 2017

Il time-lapse della vita precaria

Da qualche giorno non faccio che pensare alla bambina con il cappotto rosso. Ve la ricordate? Quella di Schindler’s List: la macchia di colore che spicca nel grigio della disperazione e sembra che abbia scelto quel cappottino perché non ci dimenticassimo di lei, perché la sua richiesta d’aiuto si sentisse più forte.
Ho immaginato che la bambina con il cappotto rosso fosse sopravvissuta al rastrellamento per trascinarsi fino a oggi e andare a schiantarsi contro la cattiveria dello sfruttamento e della precarietà: il cappotto è cresciuto con lei, che adesso ha poco più di una trentina d’anni, quattro figli, un marito disoccupato sempre illuso e mai chiamato da un capo o da un caporale, un padrone bastardo (e questo – si sa - è un pleonasmo) e di un cinismo connaturato, un lavoro che la costringe ad uscire da casa quand'è ancora notte e a rientrare quand'è già notte. 
Passi nelle tenebre, passi sotto terra, viaggi infiniti in metro che servono a recuperare un po’ di sonno perduto, pendolari di tutti i colori e con gli abiti di tutti i colori e poi quella vampata, quel cappotto rosso che non puoi fare a meno di guardare.
Non so se Daniele Vicari nel suo ultimo film “Sole cuore amore” (titolo peraltro raccapricciante, che certamente non invita alla visione, ma ha una sua ragion d’essere) abbia fatto questa citazione da Spielberg consapevolmente e capisco che il parallelismo possa sembrare esagerato e irriguardoso. Ma non è forse un ghetto quello in cui viene rinchiuso in questa società spacciata per società del benessere chi non ha un lavoro o chi ce l’ha talmente precario (in nero, sottopagato, niente contributi, niente malattia, come da copione) da scegliere di non andare da un medico per non rischiare che gli prescriva uno o due giorni di riposo? Non è un ghetto una vita trascorsa in un sottoterra metropolitano e poi in un sovraterra fatto solo di angherie e soprusi? Non è un ghetto non avere una via d’uscita perché o lavori così o te ne vai e il padrone troverà sempre uno più disperato di te da brutalizzare?
Sembra un documentario il film di Daniele Vicari per quella lentezza e ripetitività delle azioni, necessaria a cogliere ogni istante. Fa pensare al time-lapse per seguire il movimento del sole o lo sbocciare di un fiore.

Ma qui manca l’ultimo frame e nel time-lapse della vita precaria il sole non sorge e il fiore non sboccia.

lunedì 8 maggio 2017

Da donna, da giornalista, e da hater

«Donna, prima. Giornalista, poi». È la definizione che dà di sé, nel blog che tiene sull’Huffington Post, Deborah Dirani, autrice di un pezzo di una cattiveria gratuita, al limite del sadismo, sulla ragazzina sedicenne che a Trieste ha partorito una bimba di nascosto e poi l’ha abbandonata nel giardino del suo condominio provocandone la morte.
Cattivo, quel pezzo, fin dal titolo, con una condanna senza appello e per di più con l’intento di suscitare il senso di colpa prendendo spunto dalla coincidenza con una ricorrenza commerciale, come le tante funzionali al profitto: «La Festa della Mamma di un’assassina».
Dunque, da donna prima e da giornalista poi, Dirani non si è preoccupata di capire, non ha indagato il contesto, non si è informata sul livello di maturità della sedicenne, non si è chiesta che tipo di rapporti la ragazzina avesse con i propri genitori e con il tipo che l’ha messa incinta. Non si è chiesta, insomma, perché ha fatto una cosa così orribile. Semplicemente l’ha marchiata come assassina.
Ora, senza voler essere buonisti a tutti i costi o voler cercare attenuanti, a meno che non sia in possesso di notizie che nessuno di noi ha – dal momento che si sta parlando di una minorenne che va tutelata e di cui quindi giustamente gli inquirenti non svelano niente - mi chiedo come possa Dirani emettere una sentenza così definitiva e addossare tutta la colpa di questo gesto terribile soltanto sulle spalle di una ragazzina di sedici anni.
Con parole altrettanto terribili. Ne riporto alcune, che danno il senso dell’accanimento a senso unico, come se quella ragazzina non avesse intorno una famiglia, un fidanzato, una scuola, una società che potrebbero essere corresponsabili in parti uguali: «Perché quella bambina che se ne sta impacchettata sotto la finestra di casa tua, quella bambina che forse piange, mentre tu sciabatti dalla camera al bagno – scrive, usando parole volutamente sprezzanti e acuminate come la punta di un coltello usato per uccidere – per sciacquarti via il sangue in cui l’hai appena partorita, non è pazzia: è carogna». Pretende che la sedicenne dovesse sapere come fare, una volta nata la bimba, ad abbandonarla in sicurezza, sapendo che qualcuno l’avrebbe salvata (e magari, che ne sai se non sperava che lì in cortile passasse proprio quel “qualcuno” che avrebbe potuto salvarla?). E poi via di sensi di colpa (come se non bastasse il titolo), segnalandole che anche sua madre avrebbe potuto sbarazzarsi di lei: «Avresti potuto cavartela in una infinità di modi mantenendo quel segreto che non hai voluto o potuto (chissà perché) confidare alla tua di mamma, la donna che ha preferito crescerti piuttosto che ammazzarti». Ecco: chissà perché. Di fronte a quel “chissà perché” non sarebbe stato il caso di fermarsi, di analizzare la situazione, di aspettare qualche giorno per saperne di più? Chissà perché Dirani ha avuto tanta fretta e non ha esitato a continuare a rigirare il coltello nella piaga, sembra solo nell’intento di fare male: «Ma, tu ragazzina, il tuo cucciolo lo hai calato da una finestra stretto in una corda in attesa che il freddo e la fame lo ammazzassero in vece tua. Ti sei scrollata le spalle di quel minimo sindacale di umanità che si richiede per stare al mondo. Sei stata così vigliacca da abbandonare la tua bambina in mezzo ai calcinacci, scarti inutili loro, scarto fastidioso lei». Proseguendo con dettagli pulp che vi risparmio, utili solo a suscitare disprezzo e odio nei confronti della sedicenne.
Che ha commesso un crimine gravissimo, ma non può essere la sola colpevole. Da donna prima e da giornalista poi, non lo sa Dirani in quale oceano di inadeguatezza genitoriale, politica, informativa, educativa annaspano gli adolescenti di oggi per non annegare? Non saranno certo altre parole da hater da tastiera, aggiunte a milioni di parole da hater da tastiera, con l’anatema finale («che questa festa ti perseguiti ogni giorno di quel che resta della tua povera vita»), ad evitare che questo orrore accada di nuovo. O pensa forse che quella ragazzina (una bambina anche lei) avrebbe potuto trovare su Internet le risposte che la società non si cura di darle?