mercoledì 30 marzo 2011

I "prestampati Buffetti" dell'ipocrisia

Arriva il momento che non ce la fai più. Non ce la fai, di nuovo, come in un film già visto, a rientrare nella routine dell’inutilità, a farti stritolare dalla spirale dell’incertezza, ad alzarti la mattina e chiederti perché ti sei alzato. Perdere il lavoro due volte in pochi anni, quando di anni ne hai già cinquanta ti fa sbroccare, perché stavolta è per sempre. La prima volta hai resistito, hai afferrato con le unghie ogni spiraglio di luce (la nuova azienda che sta per aprire, le riunioni interminabili in prefettura e gli accordi siglati, una promessa elettorale…) e lo hai spalancato come una finestra: figli, genitori, mogli, mariti, gatti, cani, era per loro che dovevi andare avanti perché loro forse di te in realtà non avevano bisogno, ma tu di loro sì, per giustificare quell’alzarsi la mattina. Poi, forse, cominci a vederli come un fastidio, un ostacolo al tuo bisogno di farla finita, alla tua necessità – una volta tanto – di essere egoista.
Dev’essere successo questo ad Antonio Lanza, l’ex operaio della Cesame licenziato con altri 130 in seguito al fallimento dell’azienda di sanitari e “riassorbito” un anno e mezzo fa - dopo anni di disoccupazione, prese in giro e protocolli d’intesa disattesi - alla Pubbliservizi, la società partecipata della Provincia di Catania che si occupa della pulizia di scuole e giardini.
Al centro (per quanto marginalmente, come precisano tutti) di un’indagine interna per un furto avvenuto in azienda e sospeso proprio per i sospetti che gravavano su di lui e su altri compagni di lavoro, appena ricevuta la notifica della sospensione Lanza si è gettato dalla tromba delle scale uccidendosi.
All’inizio volevano farlo passare per incidente, perché faceva più comodo così e probabilmente perché la moglie escludeva il suicidio. L’ho sentita fare una dichiarazione al tg: mio marito non ci avrebbe lasciati da soli. Certamente prima era così. Poi non ce la fai più: sì, ancora una volta, tua moglie, i tuoi figli, i tuoi genitori, ci pensi e non lo fai, li guardi e non lo fai, vai avanti per loro e però quel pensiero è sempre lì, che ti schiaccia il petto come un’enorme pressa, e il dolore diventa tanto più forte quanto più grande si fa il conflitto fra il tuo bisogno di dire basta una volta per tutte e il tuo senso del dovere verso di loro. E all’improvviso nel tuo cervello esplode qualcosa e loro spariscono: al centro ci sei solo tu, tu e quel dolore che ti toglie il respiro. Prendi la mira e vai, ti lanci nel vuoto.
Ora io non so (né in questo momento mi interessa sapere né tantomeno tocca a me condannare o assolvere, per quanto istintivamente io tenda più a credere ai lavoratori – che chiedevano sicurezza per essere stati minacciati da delinquenti – e per quanto mi sembri davvero strano che uno che ha perduto il lavoro e ha lottato per riconquistarlo, rischi di perderlo per una cazzata) se Antonio Lanza, cinquant’anni, una moglie, quattro figli e persino qualche nipote, fosse sospettabile, dunque “complice” di quel furto o del silenzio su quel furto: quello che so per certo è che complici senza virgolette di quest’omicidio – sì, ho detto omicidio e non suicidio – sono quelli che hanno reso fragile quest’uomo, che ne hanno logorato il cervello con promesse mancate e minacce di licenziamento fino a renderlo sottile come la carta velina e pronto a lacerarsi da un momento all’altro, quelli subito pronti – qualche minuto dopo il lancio nel vuoto – a diffondere il solito comunicato preconfezionato di cordoglio, un “prestampato Buffetti” dell’ipocrisia dove accanto alle parole già scritte in tipografia – “profondo cordoglio”, “solidarietà alla famiglia” – basta aggiungere il nome del morto al posto dei puntini. In attesa di prossime elezioni.

lunedì 28 marzo 2011

Lumia o dell'ottimismo

Insomma, a quanto pare, il problema principale che dovrà affrontare il Pd nella prossima assemblea del 3 aprile è – nella regione dell’inciucio con l’Mpa – se chiamarsi Pds (Partito democratico siciliano) o PdS (Partito democratico della Sicilia). Questione non da poco, non c’è che dire, sollevata – riferiscono le cronache locali – dalla zarina messinese del Pci-Pds-Ds-D-eccetera, Angela Bottari, che con un sillogismo schizofrenico come lo stare al governo con il frequentatore di boss Raffaele Lombardo, spiega di preferire la prima ipotesi alla seconda formulata dai vertici nazionali del Pd, perché “abbiamo uno statuto autonomista che va rispettato anche dal partito”. Minchia! Quando si dice essere più realisti del re e più autonomisti dell’autonomista!
Dev’essere una specie di processo di lombardizzazione (sia nel senso del governatore siciliano sia in quello di Bossi, giacché tutti e due – più o meno palesemente – ambiscono alla secessione) quello che, come un virus, si è insinuato nel corpo del Pd siciliano e ne ha intaccato irreversibilmente il cervello se per esempio un altro esponente di quel partito, Beppe Lumia, dimentico delle proprie battaglie antimafia, non solo è stato uno dei più strenui sostenitori di questa porcheria sulla pelle dei siciliani, ma adesso appunto in vista di quell’assemblea del 3 aprile in cui si dovrà ancora discutere se restare nel governo Lombardo o andarsene (come vorrebbe gran parte della base e un buon numero di dirigenti, comunque non sempre e non tutti animati da nobili motivazioni) se ne esce con un’ulteriore arringa difensiva che meriterebbe il test del palloncino.
Usando un linguaggio pieno di nodi e giravolte, come solo i politici sanno fare (soprattutto quando tentano di far passare – mi si perdoni l’eufemismo – la merda per cioccolata), in sostanza Lumia afferma che il Pd siciliano avrebbe avuto un ruolo determinante nelle vicende nazionali perché entrando a far parte del governo di Raffaele Lombardo (quello che, senza vergogna, ci ha informati di avere incontrato dei capimafia, ma “solo” per motivi politici) ha sparigliato le carte a Berlusconi (quello che i mafiosi se li teneva in casa come stallieri): “Ricordate che cosa era la Sicilia – si è accalorato Lumia rivolgendosi ai suoi durante un’assemblea a Palermo, secondo quanto riportato da un giornale online -? Il granaio del Pdl, la regione berlusconiana al cento per cento, uno dei punti di forza del Paese. Insieme a Lazio e Lombardia permetteva a Berlusconi di minacciare le elezioni anticipate all’opposizione. La Lombardia è rimasta al Pdl, il Lazio è andato al Pdl, ma la Sicilia è stata la Waterloo di Berlusconi. È qui che è saltato tutto ed è grazie alla Sicilia che la minaccia è stata disarmata. Lo abbiamo fermato e invertito la rotta”. Bum! Ma Lumia c’è o ci fa? Pensa che abbiamo l’anello al naso? O ce l’ha lui l’anello al naso e pensa davvero che la presenza del suo partito nel governo regionale sia una specie di suggello di onestà? Dove sarebbe la rivoluzione, nel fatto che la gestione clientelare persino di un raffreddore, grazie al Pd, è passata dalle mani degli uomini di Berlusconi a quelle degli uomini di Lombardo e pure di qualche esponente del partito di Lumia? Già, perché una delle motivazioni più scandalose proposte dall’ex presidente della Commissione parlamentare antimafia è stata che “si è intervenuto nel settore strategico della sanità, il ventre molle dell’intermediazione politica-affaristica”.
Spero per lui che, almeno fra le pareti protette di casa sua, Lumia un minimo di vergogna lo provi per le cazzate che dice in pubblico. La sanità di Lombardo e dell’ex magistrato Massimo Russo è – ammesso che sia possibile – ancora peggio di quella di Cuffaro o di Firrarello: Lumia se lo faccia un giro negli ospedali siciliani, ci vada a parlare con le persone che a causa dei tagli non avranno più un lavoro e con quelle anche disabili che saranno costrette ad affrontare viaggi e spese pazzesche perché non hanno più un presidio ospedaliero a una distanza decente, si informi con qualche medico che non ha ottenuto il primariato per avere mantenuto la schiena dritta e non essere andato a inginocchiarsi da Lombardo, senta cosa dicono i medici ospedalieri delle ragioni di zerbinaggio per le quali qualcuno è diventato manager. L’unica differenza rispetto a prima è che mentre prima il sistema di potere clientelare se lo spartivano fra Cuffaro, Lombardo, Firrarello e tutti questi medici o mafiosi (e massoni) essi stessi o amici dei mafiosi, adesso invece il sistema di potere clientelare è tutto nelle mani di Lombardo. Ma, mio caro Lumia, sappia che il problema è la clientela in sé, non chi la gestisce: è il sistema di potere clientelare che è una merda e non è che se viene gestito con l’avallo del Pd è meno merda.
E, a proposito di sistemi, nella sua arringa difensiva dell’indifendibile, a un certo punto Lumia ha persino tentato una motivazione sociologica, legata al consociativismo, del caso Vitrano, il parlamentare regionale del Pd che – in questa fregola di assimilazione al peggio – si dilettava di mazzette. Ebbene, con un linguaggio ancor più avvitato, l’ex antimafioso Lumia ha spiegato: “È il frutto di un sistema consociativo che ci voleva relegati all’opposizione, ai margini, abilitati agli scambi sotto banco, legali o illegali, fuori da ogni decisione istituzionale in grado di incidere sulla Sicilia. L’ordine delle cose garantito dai democratici all’opposizione. Oggi non è più così e pare che qualcuno si senta orfano di questa fruttuosa emarginazione”. Ora, a parte che non si capisce un cazzo di quello che ha detto e ci vorrebbe un volontario coraggioso (si rischia la neuro) che ne facesse l’esegesi, e a parte che Vitrano le bustarelle le ha prese ora che il Pd è al governo della Sicilia (e sarebbe il caso di ricordargli che c’è andato grazie al gioco delle tre carte e non certo per avere preso una valanga di voti), cosa vorrebbe dire Lumia? Che ora il Pd non è più ai margini del sistema consociativo ma ne fa parte a pieno titolo, mazzette comprese? Finalmente un po’ di sincerità! O vuole dire che prima gli scambi li doveva fare sottobanco e ora che è al governo con il dittatore Lombardo – uno che non teme né le urne né i magistrati – li può fare alla luce del sole? Evviva! Questa sì che è la casa delle libertà. O, se preferite, la città del sole immaginata da Tommaso Campanella o ancora, per il candido Lumia, il migliore dei mondi possibili.





























































venerdì 25 marzo 2011

Colpirne uno per educarne cento

Quando, alla fine del 2008, esplose lo scandalo delle morti per tumore – decine di morti per tumore – , avvenute negli anni, di dipendenti e studenti della facoltà di Farmacia di Catania che avevano frequentato assiduamente il cosiddetto “Edificio 2” respirando ogni sorta di veleno, il Rettore Antonio Recca (che pure ai tempi dei fatti contestati non era alla guida dell’Ateneo) si premurò di…far sapere, insomma di “avvertire” i giornalisti che non gradiva si parlasse della vicenda. E, se non fosse chiaro, minacciava querele per chi secondo lui infangava l’immagine dell’Università etnea, senza essere minimamente sfiorato dal dubbio che il fango su quell’istituzione lo aveva versato chi ha permesso che i lavandini (e, dunque, le fognature e, dunque, il mare) venissero usati per uno smaltimento a dir poco approssimativo di mercurio, piombo, arsenico, metalli pesanti.
Dev’essere una fissa per Recca quella della cosiddetta “immagine” e quella dei giornalisti e di tutto ciò che riporta alla stampa se, invece di occuparsi del rilancio e della difesa della qualità di quell’università che per grazia democristiana ricevuta si trova a dirigere, sembra aver passato gli ultimi due anni, con metodicità certosina e anche un po’ maniacale a raccogliere tutti gli articoli di giornale in cui si parlasse di Matteo Iannitti, che altro non è se non uno studente universitario che insieme ai suoi compagni lotta perché l’università non diventi una cloaca come nelle intenzioni del Ministro all’Ignoranza, Mariastella Gelmini. Articoli e comunicati usati da Recca come “prove” per chiedere al preside di Scienze politiche di prendere provvedimenti nei confronti dello studente.
E allora, se non avesse capito, glielo chiedo esplicitamente: “Scusi, Magnifico (e mi perdoni se mi scappa da ridere nel pronunciare quest’appellativo, ma è come dare dell’onorevole alla Minetti), ma non aveva proprio un cazzo da fare che occuparsi di Matteo Iannitti?
Il fatto è che per Recca e per quelli come lui a creare problemi non sono le cose che fanno schifo (ci permetterà una citazione dal suo ex amico di partito, Totò Cuffaro), ma quelli che denunciano le cose che fanno schifo come hanno fatto Iannitti e tutti i ragazzi del Movimento studentesco catanese (colpirne uno per educarne cento?) che in questi mesi si sono impegnati nella più sacrosanta delle battaglie: rivendicare il diritto allo studio sancito dalla Costituzione italiana così come il diritto alla libertà di esprimere il proprio pensiero, che il “Magnifico” Rettore vorrebbe negare agli studenti catanesi.
E così, per esempio, se nessuno ne parlasse nessuno saprebbe che a Catania chiude la facoltà di Lingue – forse colpevole di fare Cultura e di essersi aperta al territorio e di essersi guadagnata con la fatica di anni il prestigio dopo essere stata a lungo una sorta di parente povero di Lettere -; nessuno saprebbe del suo enorme conflitto di interessi determinato dall’essere esponente di rilievo del suo partito oltre che Rettore dell’Università; nessuno saprebbe della vergognosa laurea ad honorem conferita al palazzinaro Francesco Caltagirone, suocero del leader dell’Udc, Pierferdinando Casini; nessuno saprebbe – appunto – quello che è successo negli anni passati all’interno del’Edificio 2 di Farmacia.
Del resto, si sa, le cose non esistono se non se ne parla. Chissà perché, ma mi ricorda qualcosa che in Sicilia non esiste.
P.S.: giusto per far contento il Rettore, allego un articolo che scrissi per Rinascita proprio a fine 2008 sul Laboratorio dei veleni di Farmacia. Che però non è mai esistito.


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Fine anni Settanta, facoltà di Farmacia di Catania, primo giorno di lezione in laboratorio. Carmelo si sente subito investito da un odore “pestilenziale” e chiede se non sia previsto l’uso di mascherine. Gli rispondono: “Non siamo in trincea”. I suoi compagni si mettono a ridere.
Oggi il dottor Carmelo Lanza, farmacista di Acireale, a 53 anni si ritrova malato di leucemia. Gliel’hanno diagnosticata nel 2005. Anzi, se l’è diagnosticata da sé: continuava a dimagrire, pensava fosse colpa delle sigarette, è andato a fare le analisi, le ha ritirate, le ha lette. E nei dieci giorni passati da quella lettura al momento in cui le analisi le hanno viste i medici e gli hanno detto che era una forma che poteva essere controllata e curata con un chemioterapico, ha vissuto nell’angoscia. “Per anni – racconta – io e mia moglie ci siamo chiesti da dove venisse la mia leucemia. Poi è stata proprio lei a suggerirmi che poteva esserci un legame fra la malattia e il laboratorio. Pensavo non fosse possibile. Cominciai a documentarmi, a consultare Internet”. Intanto i medici gli chiedevano se avesse mai lavorato in un petrolchimico o come benzinaio. Ma lui, per sei anni, era stato infilato in quel laboratorio e quando tornava a casa puzzava di zolfo tanto che gli dicevano di non avvicinarsi.
Studiando, ora che ha “strappato quella laurea che mi ha portato soltanto la leucemia” e che si è messo a fare un lavoro che gli piace di più, ha scoperto che la malattia “ha un tempo di latenza che può superare i vent’anni”. Gliel’ha confermato anche il medico che lo cura in un ospedale di Catania: “Mi ha detto che il grosso deve ancora venire: per i prossimi vent’anni dobbiamo aspettarci ancora morti e ammalati”.
Lanza aggiunge di sentirsi in parte responsabile, “perché – spiega - io per primo svuotavo tutto nei lavandini. Ma trent’anni fa non c’era cultura ambientalista e poi ero autorizzato a ritenere che quelli fossero pozzi di raccolta. Potevo pensare che finisse tutto nelle fognature?”. No, non poteva, perché nessuno gli aveva detto niente, né a lui né ai suoi compagni di corso, tutti poco più che ventenni: “Se ci avessero dato delle disposizioni che non osservavamo, in quanto maggiorenni andremmo incriminati domani mattina”. Perché in quei lavandini riversavano mercurio, piombo, arsenico, metalli pesanti: “una bomba biologica” finita nelle falde acquifere e forse – azzarda – “si dovrà vedere nei prossimi vent’anni cosa è accaduto alla popolazione catanese”.
Il laboratorio, infatti, quello della cittadella universitaria di Catania, è rimasto in funzione tale e quale – persino con le viti e i cardini delle porte corrosi, come Lanza li aveva notati già trent’anni fa – fino al novembre scorso, quando è stato messo sotto sequestro dalla magistratura che da più di un anno indagava in seguito a un esposto anonimo. Iniziativa autonoma della procura – precisano gli inquirenti -, perché fino a quel momento non c’erano state denunce.
Da lì è partito l’effetto domino: appena si è diffusa la notizia del sequestro – riferiscono i magistrati – dietro la loro porta “c’era la fila”. E adesso – anche se ancora il nesso è tutto da dimostrare - si parla di decine di persone che si sono ammalate o sono morte per avere frequentato quello che qualcuno chiama il laboratorio degli orrori: studenti, ricercatori, docenti, impiegati, senza distinzione, tutta gente che lì ci passava giornate intere per anni.
Ricercatore era Emanuele Patanè, morto a 29 anni di tumore al polmone alla fine del 2003 dopo avere passato là dentro circa tre anni di vita e avere visto cadere come in guerra, una dopo l’altra, le persone che conosceva. Due mesi prima di morire Emanuele aveva acceso il suo computer di casa e aveva cominciato a scrivere: cinque pagine in tutto in cui faceva i nomi di quelli che erano morti o si erano ammalati, dei tumori che li avevano colpiti, dei veleni riversati negli scarichi dei lavandini, di quelli che avrebbero dovuto provvedere e non lo facevano, e poi l’elenco di tutte le cose che non funzionavano. Poi però si è rivolto all’avvocato sbagliato, codardo o colluso, che gli ha sconsigliato di mettersi contro i baroni dell’università. E quelle cinque pagine erano morte con lui, sepolte in un computer spento che non aveva più ragione di essere acceso.
Fino a quell’8 novembre, giorno del sequestro da parte della procura, che nella prima fase delle indagini ha messo sotto inchiesta per disastro colposo nove persone, fra le quali l’allora rettore dell’università: l’ondivago democristiano Ferdinando Latteri, momentaneamente – dopo passaggi da destra a sinistra e ritorno – in forza all’Mpa di Raffaele Lombardo. Appresa la notizia dai giornali, il padre di Emanuele ha preso quelle cinque pagine e si è presentato nello studio di Santi Terranova, un avvocato di Lentini che segue numerose vicende simili, in prima linea nelle denunce sui troppi casi di bambini leucemici nati nel suo comune, territorio dove ha sede la base militare americana di Sigonella e troppo vicino al polo industriale siracusano.
“Mi fece rabbrividire - racconta, riferendosi alla lettura di quelle carte -, gli chiesi di portarmi il computer e lo allegai alla denuncia come prova”. E comincia ad elencare, uno per uno, i nomi contenuti in quel memoriale e anche quelli delle persone che – una volta scoppiato lo scandalo – si sono presentate a lui: c’era Giovanni Gennaro, un tecnico di laboratorio morto di tumore al polmone che – secondo quanto raccontano quelli che lavoravano con lui – aveva più volte fatto presente il problema e per questo sarebbe stato relegato altrove; e poi Maria Concetta Sarvà, una ricercatrice morta nel 2002 dopo essere entrata in coma proprio mentre si trovava in laboratorio; Agata Annino, una laureata uccisa da un tumore al cervello; la dottoressa Pittalà, incinta di sei mesi, il cui bambino era stato ucciso da mancanza di ossigenazione: e ancora: la professoressa Annamaria Panico, il dottor Gubernale, il signor Alfonso Russo, una studentessa e una laureata di Lentini, colpite tutte e due da tumore al colon; un ragazzo di Lentini e un altro di Ragusa a cui la malattia ha preso i testicoli, e la ragazza della provincia di Enna che ancora combatte con il cancro alla tiroide; quell’altra, ragusana, affetta da linfoma di Hodgkin...nomi su nomi e alcuni senza nome, perché magari lavorano ancora lì e per paura di perdere il posto hanno preferito non presentare denuncia. Un film dell’orrore: “Un numero elevatissimo – secondo l’avvocato Terranova -, almeno una ventina di casi, se rapportato alla popolazione universitaria degli anni fra il 2000 e il 2008”. Cioè più o meno il periodo su cui indaga la procura, che prende gli anni del rettorato di Latteri, dal 2000 al 2006. E chissà che non si debba andare a ritroso ancora di molto, considerato il caso di Carmelo Lanza.
D’altronde i Pm – che finora hanno condotto le indagini prevalentemente esaminando la documentazione in possesso dell’Università e le consulenze tecniche commissionate dallo stesso Ateneo – affermano che ormai da almeno 15 anni l’Università conosceva la situazione di quell’edificio: “I vertici del Dipartimento e della Facoltà – spiegano – avevano contezza che i reflui del laboratorio non venivano smaltiti secondo le norme di legge, ma sversati nelle condutture o mal gestiti”. E confermano “una situazione in cui sostanze chimiche molto pericolose rimanevano a lungo in armadi privi di sistemi di sicurezza, nei corridoi o in frigoriferi quasi ad uso domestico” e soprattutto “lo sversamento nelle condutture”: pratica diffusa a quanto sembra “perché – chiariscono – basata sul concetto della goccia nel mare”, cioè sulla convinzione che quelle sostanze sarebbero state diluite talmente da non creare problemi. Ma per i magistrati non è questo il punto, tanto che si tratta di un aspetto non contestato agli indagati. Il problema, invece, è che condutture fatiscenti non riuscivano a contenere tutta quella roba che negli anni è finita nel terreno sottostante saturandolo e, soprattutto, che i direttori di Dipartimento e i presidi di Facoltà succedutisi negli anni avevano una “precisa conoscenza” dell’inquinamento del sottosuolo perché già dal 2000 quel terreno non conteneva più niente e rimandava su quello che aveva ricevuto: “nuvolette tossiche e irritanti” – riferiscono - tornavano in laboratorio attraverso gli scarichi dei lavandini, il pavimento, le pareti. Questo anche quando non c’erano in corso attività e anche in stanze lontano dai laboratori, come gli “uffici di segreteria, o quelli del personale amministrativo e dei docenti”. E c’erano segnalazioni scritte che parlavano di irritazioni alla pelle, alle vie respiratorie, alle mucose. In un crescendo, fanno notare gli inquirenti, tanto da indurre l’Ateneo a nominare una commissione di vigilanza interna (i cui componenti oggi sono tutti indagati). Ma a questo non seguì “nessun provvedimento, nessuna denuncia agli organi competenti, nessuna richiesta di intervento all’Arpa (obbligatoria da parte dei vertici della struttura, ndr) o all’Asl: parliamo di docenti e tecnici che sanno benissimo, per esempio, cos’è il mercurio e quali sono i suoi effetti”. In realtà qualcosa succede. Chiamano un tecnico per una valutazione e quello dà una risposta assurda: dice che non c’è niente ma è indispensabile procedere con urgenza. Soltanto nel 2005 la commissione di vigilanza decide di affidare una consulenza a una ditta di Milano che solitamente esegue operazioni di bonifica nei poli industriali. Risultato: gli esperti spiegano di avere avuto le stesse percezioni di quando vanno nei petrolchimici (bruciori alla pelle e alle vie respiratorie) e affermano – riferiscono ancora i magistrati - che “sotto il pavimento c’è una grave contaminazione che richiederebbe accertamenti appropriati per la bonifica, chiusura del sito, carotaggi (studi approfonditi del terreno con prelievo di campioni, ndr)”. Intanto hanno già ispezionato le condotte e documentato con foto che i tubi sono corrosi e le condutture sono bucate. L’Università però non vuol saperne di attività di verifica e autorizza soltanto “controlli minimi”. Anzi: qualcuno a un certo punto predispone una delibera per stanziare dei fondi per la messa in sicurezza dei luoghi, ma quell’atto non arriverà mai in consiglio di amministrazione. Ne verrà approvato un altro, invece, in cui si predispone un intervento di sostituzione delle tubature, ma motivato con la presenza di umidità!
E qui – dicono i pm – scatta la responsabilità. E l’accusa di gestione di discarica abusiva, che si verifica “quando si ha contezza di una situazione di inquinamento e si cerca di nasconderla”. Loro la chiamano “tombatura”. Si chiude la verità in una tomba in modo che nessuno ne sappia niente: nemmeno quegli operai mandati lì “a scavare mercurio” convinti di occuparsi semplicemente di umidità.
Il mercurio e tutto il resto saranno rilevati invece, l’estate scorsa, dai consulenti della procura che parleranno di concentrazioni di metalli pesanti centomila volte superiori a quelle consentite per i siti industriali, riscontrando valori molto elevati anche all’interno dell’edificio, nelle pareti, nei corridoi, nelle scale, persino nella terra dei vasi con le piante. E’ a quel punto che i magistrati dispongono il sequestro preventivo. Soltanto in un secondo momento – dopo che, appunto, decine di persone si sono presentate a raccontare storie di familiari morti o malati di tumore – è stato aperto un secondo fascicolo che richiederà più tempo e indagini approfondite per stabilire il nesso fra l’inquinamento e i casi di malattia.
Intanto un paio di cose sono certe: nel suo memoriale, Emanuele Patanè elencava le sostanze più frequentemente usate nel laboratorio di Farmacologia dell’Università di Catania. Fra queste il nichel, il benzene, il butadiene, il cromo, l’arsenico, il cadmio e altre: le stesse inserite nella lista degli agenti cancerogeni o potenzialmente cancerogeni per l’uomo stilato dallo Iarc, l’Agenzia internazionale della ricerca sul cancro, organismo intergovernativo che fa parte dell’Organizzazione mondiale della Sanità e che periodicamente aggiorna la lista del rischio. Nichel, benzene e butadiene – secondo quanto ci ha spiegato Sebastiano Romano, specialista di Medicina del Lavoro – provocano le leucemie, mentre lo stesso nichel, e con esso cromo, arsenico e cadmio, sono all’origine dei tumori ai polmoni. Leucemie e tumori ai polmoni sono le malattie riscontrate prevalentemente nelle persone che hanno frequentato il laboratorio.
Ma c’è un particolare che Romano tiene a sottolineare e che smonta la teoria di quanti sostengono che là dentro “fumavano tutti come turchi”. E cioè che – nel caso di Farmacologia – non si tratta di tumori “naturali”, ma “di tipo ambientale”. Perché – spiega – “l’età delle persone decedute non corrisponde ai tumori riscontrati”, dal momento che il tumore ai polmoni viene quando hanno circa settant’anni al 25% dei fumatori, mentre di casi di ragazzi fra i venti e trent’anni che contraggono quel tipo di malattia se ne verificano “uno ogni diecimila”.

mercoledì 23 marzo 2011

Le griglie intorno a Catania

L’hanno intitolato “Un quartiere difficile” il servizio di Stefania Petix di “Striscia la notizia”, che ha mostrato tutto il suo stupore nello scoprire che nel rione catanese di Librino i cartelli stradali sono protetti da griglie per evitare che vengano divelti o imbrattati; che se giri in moto con il casco pensano che tu non sia normale; che villa Fazio – dove prima c’era un centro sportivo della Uisp all’interno del quale si cercava di dare ai ragazzi un’alternativa a quelle strade prive di verde, di attrezzature, di servizi, di fognature e persino di luce elettrica – è ridiventato un edificio fatiscente; che infine, spostandosi nel centro della città, il sindaco Stancanelli non si è fatto trovare, gli ha dato buca. Vergogna nella vergogna.
Ora, chiariamo subito una cosa: non è che uno nasce stronzo o delinquente per via del Dna. A Librino i ragazzi se la prendono con tutto ciò che gli capita a tiro perché hanno dentro una rabbia sedimentata da generazioni per essere stati sempre considerati esseri inferiori, reietti, meno di bestie a cui basta dare una ciotola d’acqua e un po’ di pane duro.
Dopo di che – omettendo il giudizio sul sindaco più assente e più inutile degli ultimi duecento anni (minuto più minuto meno) – inviterei la Petix a farsi un giro per Catania, per le strade “buone”. Che so, via Etnea, corso Italia, le vie dei cosiddetti signori. Beh, qui i segnali stradali non sono protetti da griglie e infatti non solo vengono divelti, ma poi lasciati lì sui marciapiedi per settimane e mesi (fino ad arrugginirsi) a rappresentare un pericolo costante per i pedoni; qui non solo la gente gira in moto senza casco, ma vanno in tre su uno scooter o posteggiano in terza fila o sui marciapiedi e qui – malgrado i vigili urbani ci siano, diversamente da Librino – nessuno dice niente e anzi fingono di non vedere forse perché così poi passano gli addetti della Sostare perché il Comune è talmente stupido da pensare di risanare con le multe un deficit di bilancio milionario creato da Scapagnini (e dalle spese pazze con le sue puttane allegre e le loro compagnie di ballo, diventate incazzate quando hanno scoperto che l’imbonitore napoletano gli aveva fatto il pacco) e incrementato dall’inettitudine di Stancanelli (l’ultima è stata il licenziamento ingiusto di un funzionario scomodo poi reintegrato dal giudice del lavoro, con notevole danno erariale); qui le case antiche (che un Comune serio e non in bolletta dovrebbe farsi un vanto di recuperare) vengono lasciate marcire finché crollano da sole giustificando così una bella licenza edilizia per un palazzone a più piani, possibilmente da far realizzare in “project financing” da qualche mafioso con la laurea; qui i marciapiedi, mai integri e sempre a rischio di frattura per i pedoni, sono disseminati di merda di cani mentre le strade sono piene di buche grandi quanto il cratere centrale dell’Etna che rischi ogni volta di rompere il semiasse dell’auto o di bucare una ruota. E non è possibile che sia solo stupidaggine o incapacità a governare: perché ci vuole l’intenzione e ci vuole una certa malefica abilità per ridurre una città in questo stato.
Ormai qui è persino inutile andare a Librino (che resta pur sempre una tragedia nella tragedia) per rendersi conto di quanto Catania sia abbandonata a se stessa, terra di conquista non tanto delle schiere di cani randagi che ne invadono indisturbati le strade (e comunque quelli che sporcano le strade sono i cani di razza dei cosiddetti signori) quanto di ben altre bestie fameliche che pensano soltanto a spartirsi consulenze e assessorati, a servirsi dei loro ruoli pubblici per le proprie faccende personali, a sistemare parenti e amici (Berlusconi docet) “prostituti” di voti mentre la gran parte dei cittadini non ha un lavoro ed è alla disperazione e giornalmente i lavoratori scendono in piazza terrorizzati dalla prospettiva di perdere il posto.
Altro che “quartiere difficile” e altro che griglie a proteggere i segnali stradali: qui le griglie dovremmo metterle tutt’intorno alla città, per proteggerla dai sui governanti. E da quelli che li hanno votati, non meno colpevoli.
Mi aspetto un servizio della Petix intitolato “Una città difficile”. Anzi, direi proprio impossibile.

lunedì 21 marzo 2011

Come in un film di guerra

Stanotte gli aerei passavano sui tetti. Troppo tardi perché fossero voli civili: erano quasi le due. Ho guardato la radiosveglia sul comodino, perché c’era qualcosa che non mi convinceva. A quell’ora non ci sono più voli di linea e poi il rumore era diverso, era quello dei film di guerra.
Da bambina devo averne visto uno che mi ha colpita particolarmente, perché soltanto da qualche anno sono riuscita a superare quel bisogno ingovernabile che mi scattava automaticamente ogni volta che sentivo un aereo volteggiare sulla mia testa: sono sempre riuscita a controllarmi, ma l’istinto era di nascondermi sotto il letto come si fa nei film di guerra quando ti stanno bombardando.
A un certo punto devo aver deciso di non guardarli più quei film e poi mi sono abituata a quel rumore, in questa terra in cui aerei ed elicotteri volteggiano fra le antenne dei palazzi alla ricerca di latitanti, in questa guerra continua che la mafia ha ingaggiato contro il futuro della Sicilia. A un certo punto non ci fai più caso: gli elicotteri ti ronzano intorno come zanzare, sollevi un po’ la testa, apri un occhio per vedere se è la Guardia di Finanzia, i Carabinieri o la Polizia, ti chiedi chissà chi stanno cercando. A un certo punto, in questa terra in cui non si viene mai a capo di niente, il rumore delle pale diviene la colonna sonora della tua vita e non ci pensi più ai bombardamenti.
Poi una notte ti svegli o forse non ti svegli e stai avendo un incubo, ma fatto sta che ripiombi nel film di guerra. Perché Sigonella è a un tiro di schioppo da casa tua, come Birgi lo è dalle case dei trapanesi e le bombe – quelle che noi nazioni guerrafondaie lanciamo sulla Libia e quelle che la Libia per ritorsione potrebbe lanciare su di noi – non sono affatto intelligenti, anzi: sono cretine. Cretine come quel deficiente frustrato che in Francia dichiara guerra a prescindere, per dimostrare di avere ancora i coglioni e ricorda tanto quel re d’Inghilterra - sbeffeggiato da Nino Ferrer – che “dichiara la guerra al re del Perù che non lo salutava più”; cretine come quel pazzo esaltato che fa collezione di soldatini di piombo e si eccita all’odore del sangue; cretine come il vecchio maniaco che prima bacia le mani e porge le terga e poi finge (finge e sono certa che prima ha telefonato a Gheddafi e gli ha spiegato che era tutta una finzione: come Totò Cuffaro deve avere concordato con gli amici boss – sperando di fare fessi i magistrati - i manifesti elettorali in cui annunciava che “la mafia fa schifo”) di condannare un dittatore con cui è in affari e il cui essere un dittatore non lo ha mai messo in imbarazzo. Le bombe sono cretine e non colpiscono i dittatori ma centrano in pieno bambini, donne incinte, giovani: colpiscono la vita e il futuro. Sì, certo, a questi che spacciano per missioni umanitarie le loro guerre per il petrolio, così come alla mafia che traffica in droga, importa solo il loro arricchimento. Ma io spero che un giorno il petrolio che hanno amato più dei loro figli e delle loro donne li stringa e li anneghi in un abbraccio mortale.

E ora sto per dire una cosa politicamente scorrettissima: intervistato dal Fatto, per spiegare l’assurdità e l’ipocrisia di una guerra fatta passare per azione umanitaria condotta con l’obiettivo di liberare un popolo oppresso da un dittatore - buona azione che non sfiora le potenze occidentali quando in gioco c’è la democrazia in un Paese nelle cui viscere non si trova il petrolio -, Gino Strada (con cui concordo su tutto, perché anche questa è una guerra di merda, nera come il petrolio) ha detto che è come se la Spagna decidesse di bombardare la Sicilia perché qui c’è la mafia. Ha dimenticato di aggiungere: “al governo”. E purtroppo anche nella pelle di noi siciliani, se è vero il risultato agghiacciante di un sondaggio condotto fra un migliaio di studenti dal quale emerge che Falcone e Borsellino erano due polli, che la mafia non esiste e se esiste bisogna conviverci. E allora, sì: che la Spagna ci bombardi, perché siamo irredimibili e la responsabilità è collettiva dal momento che a un dittatore/governatore che frequenta i boss e ha fatto le sue fortune sulle clientele corrisponde un popolo che si compiace della propria sudditanza. Finché non annegherà nel petrolio. O nella merda mafiosa, che è lo stesso.
In quel caso non ci sarà bisogno di mettersi sotto il letto a proteggersi dalle bombe, tanto siamo già tutti morti.

giovedì 17 marzo 2011

L'indifferenza, una cosa da morti

“Chi vive veramente non può non essere cittadino, e parteggiare. Indifferenza è abulia, è parassitismo, è vigliaccheria, non è vita. Perciò odio gli indifferenti”.
Sì, certo, adesso è diventato più famoso di una rockstar (e chi glielo doveva dire che un giorno avrebbe partecipato a Sanremo!?), ma da quanto tempo colpevolmente molti insegnanti ignorano il letterato Antonio Gramsci per paura di essere additati come seguaci del politico Antonio Gramsci, comunista, praticamente l’orco in questo mondo all’incontrario che è l’Italia, dove l’orco – quello vero, che paga prostitute minorenni e parlamentari maggiorenni per le loro prestazioni sessuali – sta al governo, cancella la Costituzione, riduce sul lastrico la scuola pubblica per favorire quella privata, riforma i magistrati per piegarli al suo volere, smantella il Ministero dei Beni culturali: che crollino tutti in modo da attuare un infinito e redditizio piano di cementificazione da Aosta a Marsala.
Quello che l’orco ha già fatto, lo ha potuto fare grazie all’indifferenza: “L’indifferenza – dice Gramsci - è il peso morto della storia…..il male che si abbatte su tutti non è tanto dovuto all’iniziativa dei pochi che operano, quanto all’indifferenza, all’assenteismo dei molti. Ciò che avviene, non avviene tanto perché alcuni vogliono che avvenga, quanto perché la massa degli uomini abdica alla sua volontà, lascia fare, lascia aggruppare i nodi che poi solo la spada potrà tagliare, lascia promulgare le leggi che poi solo la rivolta farà abrogare, lascia salire al potere gli uomini che poi solo un ammutinamento potrà rovesciare”.
Una sorta di fil rouge lega lo scritto di Antonio Gramsci all’accorato urlo di Stéphane Hessel, “Indignez-vous!” – Indignatevi! -: saggio di una ventina di pagine (che riporta in parte anche l’appello firmato dai resistenti francesi nel 2004), scritto con entusiasmo giovanile da questo novantatreenne partigiano per ricordarci come proprio l’indignazione sia “il motivo di base” della Resistenza contro il nazismo e il fascismo e come non manchino nemmeno oggi i motivi di indignazione in “questa società dei sans-papiers, delle espulsioni, del sospetto nei confronti degli immigrati”, in questa società che rimette in discussione le conquiste sociali e nella quale “i media sono nelle mani dei benestanti”. Motivi di indignazione che Hessel sintetizza in due grandi sfide: lo scarto “immenso” e che non smette di aumentare fra poverissimi e ricchissimi e poi – insieme, strettamente legati – i diritti (sempre più negati) dell’uomo e lo stato del pianeta. Anche il vecchio partigiano ebreo naturalizzato francese, come Gramsci, non ha dubbi in proposito: l’indifferenza, dire “non posso farci niente”, è il peggiore degli atteggiamenti perché una delle “componenti essenziali” dell’essere umano è invece l’esatto contrario: la capacità di indignarsi e “l’impegno che ne è la conseguenza”.
In Francia, nella Francia di Sarkozy, come nell’Italia di Berlusconi, come nella Sicilia della mafia, di Totò Cuffaro, di Raffaele Lombardo, del clientelismo elevato a sistema, virus letale e contagioso alimentato proprio da quel “se débrouiller” di Hessel, quel lavarsene le mani e pensare solo per sé, quel “non posso farci niente”, alibi per la piccola raccomandazione, per il tirar dritto di fronte alle ingiustizie e all’illegalità, per l’indifferenza appunto. Odiosa indifferenza, una cosa da morti.
E allora ecco che, però, il filo rosso che lega Gramsci ed Hessel arriva anche nell’Isola, con una frase un po’ più lunga del gramsciano “Odio gli indifferenti” o del partigiano “Indignez-vous!”, ma altrettanto breve e altrettanto dirompente: “Raccontare questa Sicilia vuol dire prendere posizione”. Sembra buttata lì per caso (ma è chiaro che non lo è affatto) eppure contiene l’essenza di quella che - non per frase fatta ma per dare il senso di quanto coraggio ci dev’essere voluto – non è esagerato definire una nuova avventura editoriale: “I quaderni dell’Ora”, mensile appena nato a Palermo, che si richiama allo storico quotidiano del secolo scorso e alle sue battaglie antimafia.
Quella frase - “Raccontare questa Sicilia vuol dire prendere posizione” - è esattamente al centro dell’editoriale del primo numero (uscito il mese scorso), strettamente concatenata ad altre due frasi, una subito prima e l’altra immediatamente dopo, che non lasciano dubbi sull’impegno civile e sulla necessità di indignarsi e impegnarsi, di prendere posizione. Nella prima, il Comitato di direzione lo afferma senza timore: “La Sicilia è preda delle più bieche tentazioni autonomiste che, in nome di un fantomatico riscatto del Sud, ci trascinano verso un’impostura separatista dalle pericolose potenzialità eversive”. L’altra è un impegno di onestà intellettuale: “Non facciamoci prendere in giro da chi sostiene i meriti alti di un’informazione anglosassone che non esiste nel mondo, figuriamoci in Italia”.
Un attualissimo intellettuale del secolo scorso, un giovanissimo partigiano di 93 anni e un neonato giornale storico ci dicono che, se non vogliamo che questo nuovo secolo di appena 11 anni sia dichiarato “nato morto”, abbiamo il dovere di avere il coraggio di vivere, e cioè di non essere indifferenti e di indignarci di fronte all’ingiustizia e all’illegalità dilagante.
E mi piace sottolineare che del Comitato dei garanti di questo nuovo/vecchio giornale appena (ri)nato a Palermo faccia parte Antonio Ingroia - oggi al centro di attacchi volgari da parte di una classe politica indegna, solo per aver difeso la vecchia, avanzatissima, straordinaria Costituzione italiana -: un magistrato equilibrato e rigoroso, certamente “schierato”, ma dalla parte della legalità. Dunque, un “eversore” in questo Paese all’incontrario dove i delinquenti stanno al governo.

domenica 13 marzo 2011

In difesa della Costituzione, ma senza lentiggini

Io mi sono messa una sciarpa rossa che mi era appena stata regalata e mi sentivo come Linus quando la sua coperta se la avvolge intorno al collo pur di portarsela dietro. Un’altra compagna aveva un foulard. Rosso. Un compagno intorno al collo aveva uno straccetto, poco più di un nastro. Rosso. Un altro si era organizzata una cosa più sofisticata: un triangolo di stoffa da bandiera – rossissima – chiuso da una coccarda tricolore che lo faceva sembrare un vecchio partigiano (un vecchio partigiano non è mai un partigiano vecchio, perché i partigiani hanno sempre negli occhi la luce giovane dell’utopia).
Noi ci siamo dovuti andare così alla manifestazione in difesa della Costituzione a Catania, perché qualcuno ha infangato le bandiere di partito e qualcun altro non ne vuole più vedere in giro, perché pensa che siamo tutti uguali. Abbiamo rispettato le indicazioni, ma ci sentivamo spaesati. Perché, per colpa di qualcuno, tutte le bandiere di partito devono essere bandite? Perché si deve fare passare l’idea che ormai si possa manifestare indossando un pullover viola, una sciarpa gialla, un ombrello a pois, tutto ma non una bandiera rossa? Io non mi vergogno della mia bandiera rossa che mi avvolge e mi protegge come la coperta di Linus fin da quando ero ragazzina e che continua ad emozionarmi come un grande amore, né la mia identità nazionale italiana (per quanto io senta più come mia patria il mondo e ritenga che qualunque cosa accada nel posto più remoto del mondo mi riguardi) viene inficiata dalla mia identità comunista. E’ come se mi dicessero che per manifestare devo rinunciare alle mie lentiggini. Io sono io con le mie lentiggini, un altro è lui con i suoi occhi azzurri, ma questo non ci impedisce di manifestare per valori comuni e nessuno ci chiede di avere occhi e capelli dello stesso colore o, peggio, senza colore, per scendere in piazza.
Quanta ipocrisia in questo manifestare senza bandiere di partito. Alla manifestazione ieri c’erano pure quelli che non hanno il senso della vergogna, quelli che sostengono un governo guidato da un frequentatore di mafiosi, quelli la cui tessera sbiadita ha la stessa anima di una carta di credito (cioè nessuna): quando sentono aria di campagna elettorale escono come le lumache dopo la pioggia, strisciano e sbavano. Sono quelli che la loro bandiera è meglio se non la espongono.
E c’erano anche quelli che alimentano l’incazzatura indiscriminata e irrazionale e bandiscono le bandiere con l’obiettivo di convogliare il malessere sotto la bandiera con la faccia dell’uomo qualunque.
Per fortuna, però, come accade sempre più spesso e persino a Catania che sembrava in coma irreversibile, c’era una sacco di gente a manifestare in difesa della Costituzione e c’erano facce mai viste alle manifestazioni.
A un certo punto, con i compagni ci siamo messi a leggere fra di noi gli articoli della Costituzione.
Articolo 1: l’Italia è una Repubblica democratica fondata sul lavoro....CASSATO.
Articolo 3: Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali....CASSATO.
Articolo 9: La Repubblica promuove lo sviluppo della cultura e la ricerca scientifica e tecnica...CASSATO
Articolo 11: L'Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali....CASSATO.
Articolo 21: Tutti hanno diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione.
La stampa non può essere soggetta ad autorizzazioni o censure....CASSATO

Eccetera. Li hanno già cancellati tutti e hanno cominciato proprio dai principi fondamentali, quelli che sembravano intoccabili. Loro – B&B, Bossi e Berlusconi - l’hanno fatto. E dev’essere per questo se ormai nelle piazze a manifestare in difesa della Costituzione c’è gente che non si era mai vista. Perché forse, all’improvviso e inconsapevolmente, gli è riaffiorata alla memoria la frase di un comunista, Umberto Terracini (che - il 27 dicembre 1947, insieme al Capo dello Stato e al Presidente del Consiglio – mise la sua firma in calce alla Costituzione della Repubblica italiana appena riemersa dalla dittatura fascista): “L’Assemblea ha pensato e redatto la Costituzione come un patto di amicizia e fraternità di tutto il popolo italiano, cui essa la affida perché se ne faccia custode severo e disciplinato realizzatore”.
Ecco, ieri quella gente che non ha mai partecipato a una manifestazione è scesa in piazza a farsi “custode severo” di quel patto, alla cui stesura i comunisti – quelli delle bandiere rosse – hanno partecipato da protagonisti.

sabato 12 marzo 2011

Catania nascosta ai catanesi

Documenti segreti. No, non il frutto di indagini dei servizi di intelligence coperte dal marchio “top secret”, ma relazioni pubbliche riguardanti l’attività del comune di Catania che vengono sistematicamente insabbiate e nascoste ai cittadini.
Ne hanno parlato oggi, nel corso di una conferenza stampa, i Comunisti italiani – Orazio Licandro, dell’esecutivo nazionale della Federazione della Sinistra, e Salvatore La Rosa, segretario provinciale del Pdci – sottolineando come a firmare quei rapporti che inchiodano l’amministrazione comunale siano state istituzioni al di sopra di ogni sospetto comunista o giacobino.
A partire dalla Corte dei Conti, che ancora una volta è stata costretta a muovere rilievi pesanti su un improbabile riequilibrio del bilancio comunale. Più che improbabile, dal momento che – come ha riferito La Rosa citando gli stessi giudici contabili – si è coperto il disavanzo (solo sulla carta) inserendo voci “di dubbia esigibilità”: come le multe agli automobilisti, delle quali si sa che viene pagato soltanto il 5%, o come la Tarsu già caduta in prescrizione. Somme iscritte in bilancio come già incassate – ha spiegato Licandro – ma così non è. E intanto, da quando la Corte dei Conti ha emesso la sua sentenza (novembre 2010), sono passati i 90 giorni concessi al comune per adottare misure urgenti anche in relazione all’indebitamento delle partecipate, Multiservizi e soprattutto Amt i cui debiti gravano pesantemente sul bilancio comunale mentre si parla di privatizzazione senza però essere in grado di stilare un piano per la mobilità.
Ma c’è anche un’altra istituzione, l’Autorità garante della concorrenza e del mercato, non certo tenera nei confronti dell’amministrazione guidata da quello che Orazio Licandro chiama “il sindaco-galleggiante”, e cioè Raffaele Stancanelli, il cui operato è in totale continuità con quello delle giunte Scapagnini-Lombardo. La vicenda è quella dei parcheggi, bloccati dall’azione della magistratura: nella sua relazione il presidente dell’Antitrust, Antonio Catricalà, sottolinea come avere fatto delle varianti al progetto in corso d’opera abbia impedito ad altre aziende di partecipare alla gara e dunque limitato “artificiosamente il confronto concorrenziale”. Adesso il comune chiede il dissequestro di quei parcheggi e Licandro esprime perplessità sull’andamento di un processo basato su un’unica perizia per di più affidata a un uomo di parte: l’ingegner Guido Mutier, candidato negli anni passati alle elezioni europee e alla presidenza della provincia di Lucca per Forza Italia. Forse, dice Licandro, ragioni di opportunità politiche avrebbero dovuto sconsigliare il tribunale dal fare una scelta simile.
Fosse solo questo. Licandro e La Rosa hanno ricordato come ancora siano sospese diverse questioni che riguardano l’assetto della città e la vita stessa dei cittadini. Il Prg, innanzitutto. “Che fine ha fatto?”, si chiedono. E poi la storia di corso dei Martiri della Libertà e ancora quella del lungomare, dove l’amministrazione sembra voler fare gli interessi di pochi privati e non quelli dei catanesi. “Ennesimo scandalo”, per Licandro, quello della cementificazione del lungomare, con “gli squali che continuano i loro giri di morte intorno alla preda”, e cioè la città stessa, mentre l’amministrazione sta ferma e aspetta. Mentre, appunto, i privati sollecitano la nomina di un commissario ad acta che come conseguenza avrà il pagamento di penali salatissime o l’ennesima devastazione ambientale con annessa cementificazione.
Costi che vanno ad aggravare il deficit (di cui già pagano le conseguenze i dipendenti comunali e quelli delle cooperative sociali, questi ultimi senza stipendio da sei mesi) del comune e che – fa notare La Rosa – “pagheremo in quota tutti noi” dal momento che prima il duo Scapagnini-Lombardo e ora Stancanelli “amministrano i soldi nostri e non rispondono mai dei danni”. Se la gente sapesse, se fosse informata, forse le sue scelte politiche sarebbero diverse.

mercoledì 9 marzo 2011

Il conte Ugolino e il pedaggio autostradale

La Spagna ci ha messo tre minuti: appena si è capito che uno dei primi effetti della cosiddetta “crisi libica” sarebbe stato l’aumento del prezzo del petrolio, ha messo in piedi un paio di misure semplici semplici per non fare ricadere tutto sulle spalle dei cittadini. Per esempio: ridurre il prezzo del biglietto del treno, così si incentiva l’utilizzo di quel mezzo. Oppure: abbassare il limite di velocità nelle autostrade, con un risparmio stimato del 15% di benzina e dell’11% di gasolio per ogni veicolo. E un’altra serie di cose simili: pochi punti concreti, alcuni a carattere temporaneo. Perché quando c’è un problema, non si cincischia: lo si affronta.
Cose normali che un governo normale – non necessariamente “comunista”, come sicuramente Berlusconi giudica quello (appena appena socialdemocratico) di Zapatero -, comportandosi con la diligenza del buon padre di famiglia, come si diceva una volta, mette in campo per tutelare i suoi concittadini.
Invece in Italia non soltanto il presidente del consiglio bacia le mani, tituba, tuba, non disturba, balbetta, si mette ad angolo retto, eccetera, ma ieri alla radio ho sentito il ministro dei Trasporti, Altero Matteoli, dire che quei provvedimenti non lo convincono e che i nostri tecnici “ci stanno studiando” . Ci stanno studiando? E quanto tempo pensano di impiegare? Cosa aspettano, la fine della nuova “missione di pace” che certamente vedrà questo governo di servi mettere a disposizione basi militari, uomini, armi, carburante a prezzi maggiorati per caccia e carriarmati?
Come se non bastasse, il Ministro ha aggiunto che i pedaggi autostradali li devono pagare tutti e, quando gli è stato chiesto a chi si riferisse, non ha avuto nemmeno il coraggio di parlare chiaro affermando che diceva così, in generale. A occhio, possiamo immaginare che la questione riguardi le autostrade siciliane o la Salerno-Reggio Calabria. Perché se dici “tutti” vuol dire tutti. Ora, a parte che poco più di un mese fa lo stesso Matteoli aveva escluso che si sarebbero pagati i pedaggi su quella che è ancora e da molti anni soltanto un’idea di autostrada calabrese, comunque suggerirei di fare il calcolo degli anni di costruzione e del numero di autoveicoli che hanno subìto ogni sorta di disagio a causa dei lavori mai finiti e fare pagare tutto alla ‘ndrangheta che ci ha messo le mani e ai politici corrotti che gliel’hanno permesso.
Quanto alla Sicilia, vorrei ricordare al ministro delle Infrastrutture che rispetto al piano autostradale dell’Iri risalente all’inizio degli anni Sessanta, non sono venute meno le ragioni per non far pagare il pedaggio: la Sicilia è sempre area depressa. Ed è sempre terra di rapina, da dove i giovani hanno ripreso ad emigrare esattamente come cinquant’anni fa, derubata da un governo nazionale che qui fa il pieno di voti e poi toglie i soldi per la ricostruzione agli alluvionati del messinese, derubata da un governo regionale che non crea posti di lavoro perché è più comodo pagare stipendi milionari a consulenti portatori di voti e ingrossare gli eserciti di schiavi ai quali promettere un lavoricchio per garantirsi la rielezione, derubata dalle industrie che se ne sono andate lasciando qui soltanto disoccupazione e inquinamento ormai irreversibile, derubata dalla mafia politica e imprenditrice che apre ricicla e richiude.
E dovremmo pure (e dovrebbero pure, i “fortunati” che per lavorare devono spostarsi da un capo all’altro dell’Isola e spendere metà dello stipendio in benzina) pagare il pedaggio per camminare su autostrade che sono una roulette russa? O dobbiamo pagare il pedaggio solo perché siamo nati in questa terra?
Qui al Sud - a seguito della cosiddetta “crisi libica” e degli speculatori del petrolio - la benzina è già arrivata a più di 1,6 euro al litro, siamo seduti su una polveriera (da un lato il gasdotto di Gheddafi, dall’altro la base militare americana di Sigonella), probabilmente partirà da qui gran parte dei militari che dovranno andare a morire in “missione di pace” – e cioè nell’ennesima guerra per i giacimenti petroliferi – e non per vicinanza ma perché i meridionali sono quelli che si arruolano di più (e, come se non bastasse, Bossi li vuole cacciare dagli Alpini) proprio perché sono quelli che hanno meno lavoro, e in più vorreste farci pagare il pedaggio?
Altro che buon padre di famiglia. Al confronto il conte Ugolino impallidisce.

martedì 8 marzo 2011

8 marzo: il negazionismo di Sacconi

In Europa i salari delle donne sono il 17% in meno rispetto a quelli degli uomini, in Italia la disoccupazione femminile è a livelli raccapriccianti (in fondo alla classifica, appena prima di Malta), dopo il primo figlio sono tantissime quelle che perdono il lavoro e dopo il secondo tante di più quelle che tornano a casa definitivamente.
Però il ministro del Welfare, Maurizio Sacconi, in occasione della giornata internazionale della donna (di cui si sono impossessati il mercato e i maschi fascisti, chiamandola “festa”), sostiene che le donne sono penalizzate dalla crisi meno degli uomini. Il ministro non è sfiorato dal dubbio che forse questo dipende dal fatto che i padroni bastardi al momento di assumere – se proprio devono farlo - preferiscono assumere una donna perché costa meno e al momento di licenziare – entusiasti di farlo - preferiscono licenziare un uomo perché costa di più. E soprattutto non è sfiorato dal dubbio che sono meno penalizzate – come dice lui – perché non hanno proprio niente da perdere, dal momento che già il lavoro lo hanno perduto (assunte a tre mesi, sottopagate, non assunte affatto e sfruttate in nero se sono in età fertile, assunte facendo firmare loro contestualmente la lettera di dimissioni da tirare fuori appena restano incinte…) oppure che non lo hanno mai avuto.
Intanto da qualche giorno c’è un bastardo, fascista e negazionista, che su Facebook va sostenendo la falsità della storia dell’incendio dell’8 marzo 1908 in una fabbrica americana in cui morì oltre un centinaio di operaie tessili: il pazzo sostiene che il rogo è una bufala inventata dai comunisti. E dunque, dopo avere negato lo sterminio degli ebrei - così come dopo averci ripetuto per decenni che se una donna viene stuprata è perché indossava una minigonna -, adesso si arriva a negare pure l’assassinio di quelle operaie per mano del loro padrone.
Ormai il gioco è chiaro ed è quello di Berlusconi e dei comunisti, responsabili di tutto: di mangiare i bambini, di farli bolliti, di travestirsi da giudici e volerlo processare, di inventarsi una crisi che non esiste ed è soltanto psicologica….basta lanciarla lì la “notizia”, un petardo fra i piedi dei passanti/polli che ci cascheranno con tutte le scarpe.
E da oggi (e oggi, 8 marzo) ci toccherà sentire pure: tanti auguri (ma de che?), beata te che non senti gli effetti della crisi!