giovedì 21 novembre 2019

That is the question

Pilchards or not pilchards? That is the question. Se sia più nobile sopportare le percosse e le ingiurie di un fascio di merda oppure prendere le armi dell’ironia contro un mare di guai che ci siamo procurati da soli e risalire la china.
Scrivo senza certezze, confusa e infelice, perché a me questa cosa di una manifestazione spontanea magari poco politicizzata (o, per essere precisi, poco “partitizzata”) e però consapevole che il problema è questo nuovo fascismo, questa piazza che cantava Bella ciao ben sapendo che significa proprio Resistenza al fascismo e ai fascismi, beh, a me questa cosa piaceva. Mi piacciono moltissimo le piazze dove si canta Bella ciao, dalla Francia alla Grecia al Cile, perché sono quanto di più politico e consapevole possa esserci. Come succedeva fino a qualche anno fa anche da noi, in Italia. Io me lo ricordo bene quando uscivamo in macchina a fare speakeraggio durante le campagne elettorali e, appena partiva Bella ciao, c’era un mondo che cantava con noi: dai marciapiedi qualcuno – pochi – salutava a pugno chiuso, ma tutti, proprio tutti, cantavano. E dal labiale si capiva che conoscevano a memoria tutte le parole, come si conviene a un “inno nazionale”. Era un segnale che ci autorizzava ad aumentare il volume e credo che nessuno (a parte i fascisti, che borbottavano e ci guardavano torvi) di quelli che cantavano o battevano le mani a tempo pensasse che quel canto partigiano potesse dividere o dubitasse del fatto che si trattava di un’ode alla democrazia.
Ho avuto – e credo di avere ancora – alcune riserve sulla piazza delle sardine. Intanto il timore che poi si ripeta la storia dei girotondi, svaniti nell’aria come bolle di sapone. Poi che si tratti soltanto di un piccolissimo segnale di ripresa di un corpo in coma, che alimenta la speranza e al tempo stesso fa temere che si tratti del miglioramento di un attimo prima che il cuore si fermi. Ma soprattutto: ci sono quelli del Pd in mezzo o addirittura dietro? È possibile e non mi rende felice, perché il Pd – per quanto derenzizzato – continua a essere il partito di Minniti che fa accordi con la Libia sulla pelle dei migranti o che troppo spesso è stato dalla parte dei padroni e non da quella dei lavoratori, come la definizione di “sinistra” richiederebbe. E quindi, no: se hanno intenzione di metterci il cappello non mi piace. Ci sono quelli dei 5Stelle in mezzo, che pensano o sperano di ricostruire il loro imene politico? Grazie, no. Qualcuno ha obiettato che forse ci sono, ma sono quelli “di sinistra”. Di sinistra? E se erano di sinistra perché non si sono (metaforicamente) fatti esplodere sotto casa di Di Maio quando il Movimento ha deciso di andare al governo con Salvini?
C’è qualcosa che non torna. E però, c’è anche qualcos’altro che non torna, che per di più mi fa essere incerta, confusa e infelice. Parlo della mia parte; parlo a voi, compagni, e vorrei che qualcuno mi aiutasse a capire: perché da qualche giorno sembra che la vostra principale occupazione sia quella di denigrare e affossare questo nuovo movimento? Sono confusa perché ho visto post di compagni che stimo molto vomitare disprezzo verso le sardine e quindi mi chiedo e vi chiedo: cos’è che non ho capito? Ma non posso fare a meno anche di pensare che forse tutto questo rancore è il segno della nostra frustrazione: perché noi non riusciamo più a parlare con tanta gente e a mobilitare tanta gente; perché noi siamo quelli che ai cortei i volantini ce li diamo fra di noi e ai sit-in rivolgiamo il megafono verso noi stessi invece che verso la strada e la gente che passa. Siamo sicuri, compagni, che invece di essere così manifestamente ostili non dovremmo con umiltà cercare di capire dov’è che abbiamo sbagliato, perché non riusciamo più a parlare né fisicamente né virtualmente con il nostro popolo? Siamo sicuri che il nostro popolo non sia anche là, in mezzo a tutte quelle sardine, a mobilitarsi contro un pericolo reale, pratico, mentre noi facciamo teoria? E che magari vorrebbe che ci fossimo anche noi a fare le sardine, a stringerci tutti insieme contro i nuovi fascismi? Siete sicuri che non siamo pieni di rabbia perché non riusciamo più a “fare egemonia” e perché magari anche noi – come quegli altri – avremmo voluto metterci il cappello?









sabato 26 ottobre 2019

Fallimenti

Sembra un enorme groviglio di fallimenti la vicenda dell’omicidio a Roma di un giovane di 24 anni. Come un gomitolo finito fra le grinfie di un gattino giocherellone, e non sai come venirne a capo.
C’è il fallimento di un’intera società se due ragazzi di 21 anni se ne vanno in giro con una P38 convinti di stare dentro un videogioco e mirano alla testa pensando, forse, che la vittima alla scena successiva si sarà già rialzata e il gioco potrà riprendere.
C’è il fallimento di un’intera società e anche della stampa se altri due – un ragazzo e una ragazza, la vittima e la “sua” ragazza - se ne vanno in giro con duemila euro in mazzette da venti e cinquanta euro in uno zainetto per comprare una partita di droga e lei, insieme a un avvocato e ai giornali che fanno da megafono, può inventarsi la storia del bravo ragazzo che non fa uso di stupefacenti (e che anzi si trova davanti a un pub per tenere d’occhio il fratellino) ucciso come un cavaliere d’altri tempi per proteggere dai malintenzionati la pulzella indifesa.
C’è il fallimento dello Stato se un poliziotto di esperienza come Antonio Del Greco, che ha indagato sulla banda della Magliana, dice delle cose che possono risultare pericolosissime. L’ho letta e riletta l’intervista rilasciata a Carlo Bonini di Repubblica, perché c’è un passaggio che trovo inquietante e non credevo ai miei occhi. Speravo di avere capito male, continuo a sperarlo. Del Greco parlava di quello che chiama «il grande disordine» in contrapposizione all’ordine dei decenni passati: un «doppio, capillare controllo», quello garantito dallo Stato, dalle forze di polizia, e quello in mano alla criminalità organizzata, l’altro Stato. È un fallimento se un poliziotto pronuncia parole che possono essere interpretate come rimpianto: «Noi sapevamo a quali porte bussare dopo una rapina, dopo una rissa, dopo una morte per overdose. E dall’altra parte avevamo chi, a sua volta, aveva interesse a che la strada non fosse lasciata in balia di ragazzini fuori di testa».
C’è il fallimento (ma anche il grande coraggio e lo strazio di riconoscerlo) di una madre, che sa di non essere riuscita a seguire il proprio figlio come avrebbe dovuto e sceglie di andare a denunciare il ragazzo e, con lui, la propria stessa incapacità. Sembra che la mamma del giovane assassino, presentandosi in commissariato, abbia detto: «Temo che mio figlio abbia fatto una cazzata». E c’è un contrasto stridente come un gessetto sulla lavagna fra la prima e l’ultima parola di questa frase, fra quelle prime due sillabe – temo –, timide e timorose, e la durezza rabbiosa di quelle due zeta che solitamente si nascondono dietro due asterischi per ipocrisia e falso pudore.
C’è infine persino il fallimento della vittima, «uno sportivo» secondo un collega della palestra in cui faceva il personal trainer (come se essere uno sportivo fosse a prescindere garanzia assoluta), che invece non soltanto evidentemente si accompagnava a gente poco raccomandabile, ma non disdegnava di pubblicare sulla sua pagina Facebook i post razzisti dell’assassino di umanità Matteo Salvini: Luca Sacchi non è stato ammazzato dai “negri” che odiava tanto, ma da due bianchi esattamente come lui.    
Bisognerà cercare di districarla tutti insieme questa matassa di fallimenti, individuare il bandolo e tentare di riavvolgerla, lentamente, sciogliendo i nodi. Ammesso che non sia troppo tardi; ammesso che a imbrogliarla non sia stato un gattino giocherellone, ma una belva impazzita. E in questo caso l’unica soluzione è buttarla via questa matassa che è il nostro paese, portare i libri contabili in tribunale, chiudere per fallimento.

giovedì 3 ottobre 2019

Pari stereotipità

Non ci volevo credere. Ho visto uno screenshot su Facebook e ho pensato che fosse una bufala, una provocazione, una burla, insomma Lercio e succedanei. 
Comune di Codogno, provincia di Lodi, amministrazione a trazione leghista. Ma mi sembrava troppo pure per loro. Sicuramente qualcuno si era divertito a costruire una notizia falsa per farci ridere o per farci indignare. E invece. Invece sono andata sul sito del comune e ho letto le “linee programmatiche” per il quinquennio 2016-2021, alla voce “Pari opportunità”: «Nell’obiettivo di perseguire la parità di genere» eccetera, fino a «iniziative di informazione e socializzazione nei luoghi particolarmente frequentati dalle donne». E già un po’ ti preoccupi: esclusi l’andrologo e il ginecologo, ci sono luoghi frequentati da uomini e luoghi frequentati da donne? Una specie di apartheid o di ballo di paese anni cinquanta? Niente paura, te lo spiegano loro, fra parentesi ma te lo spiegano: «supermercati, estetiste, parrucchiere». Se tanto mi dà tanto, i luoghi frequentati dagli uomini dovrebbero essere bordelli, barbieri (con tanto di calendari con foto di donnine nude), stadi di calcio. Per pari stereotipità.
E credete che sia finita qui? «Si proseguirà inoltre la collaborazione con le associazioni per quanto concerne l’organizzazione di cineforum e iniziative». Immagino, date le premesse, che i film in cartellone saranno commediole rosa con tanto di lacrime ed happy end (il matrimonio, presumo) e che le “iniziative” prevedano corsi di burraco e scala quaranta, oltre che ricette di cucina.
Sì, lo so quello che state pensando: che sono la solita rompicoglioni, che non è detto necessariamente che stessero pensando a queste cose, che vedo maschilismo anche dove non c’è, eccetera. Fidatevi, ho una certa età.
Anche perché, parlando di violenza e graniticamente certe che avvenga solo fuori dalle mura domestiche, subito dopo le linee guida ci guidano lungo i binari di una ferrovia annunciando l’intenzione di prendere contatto con associazioni di pendolari «per valutare le azioni da mettere in atto per tutelare le donne che utilizzano il treno». Tutelare. Capito? Minus habens. Tutelare.
Non vi basta? Vi racconto quello che segue e poi vediamo se avrete ancora il coraggio di dirmi che sono esagerata. Sempre in tema di violenza, ma proprio il rigo appresso, fra le azioni di prevenzione da intraprendere si parla di corsi di autodifesa e insieme di «corsi per riscoprire attività in disuso quali uncinetto e lavoro a maglia».
Quindi se uno mi aggredisce lo posso prendere a colpi di aghi di calza? Oppure il suggerimento, neanche troppo velato, è di rinchiudermi a casa a fare la maglia invece di andarmela a cercare fuori?
Ah, ho un amico che non sa come si avvita una lampadina: potreste, per piacere, inserire nelle linee guida anche corsi base di elettricità per uomini? Per pari stereotipità, s’intende.

giovedì 1 agosto 2019

Sulle spalle di un bambino

Quanto sono larghe le spalle di un bambino di tre anni? Voi lo sapete? Io sono andata a controllare su quei siti che ti danno tutte le misure per cucire un vestitino a casa: le spalle di un bambino di tre anni sono larghe una ventina di centimetri, millimetro più millimetro meno. Prendete un righello, se non avete a portata di mano un bambino, e guardate con i vostri occhi quanto possono essere pochi venti centimetri. Non sono spalle per sollevare pesi quelle di un bambino di tre anni, nemmeno quando il bambino è tutto intero e le spalle sono ben nutrite e tornite: mettiamo un bambino occidentale, di famiglia agiata, che già fa piscina e allena i muscoli.
Poi c’è un bambino che viene dalla Libia, fame, guerra, detenzioni, salvato insieme ad altri 39 naufraghi dalla nave Alan Kurdi della ong Sea Eye: ha tre anni (proprio come il bimbo siriano morto annegato a cui l’imbarcazione è intitolata), ha più o meno anche lui una ventina di centimetri di spalle, ma un c’è un problema: di quello spazietto che si misura con un righello metà è squarciato da una ferita. Dieci centimetri di ferita alla spalla provocata da un’arma da fuoco proprio in Libia. Dieci centimetri. Tre anni. Mentre Salvini prende e mostra le proprie misure da macho impotente facendo lo sguardo truce e impedendo (ancora una volta) di sbarcare nei porti italiani ai quaranta naufraghi salvati da Sea Eye che preferirebbero annegare pur di non tornare in Libia, c’è un bambino di tre anni che sulle proprie spalle porta tutto l’orrore del mondo.
Forse dovrebbe bastare questo a qualunque essere umano per vergognarsi di esistere. Forse dovrebbe bastare questo per fare svegliare un intero paese e dire che no, noi sulle nostre spalle il peso di tutta questa cattiveria non vogliamo più portarlo. 

lunedì 15 luglio 2019

Boubakar stanco di guerra

Boubakar non sopporta di vedere le persone morire. Il suo è quasi un riflesso condizionato: se vede uno che si getta sotto un treno, gli si tuffa appresso e non schioda finché non l’ha tirato via da lì sano e salvo. Quest’anno lo ha fatto già due volte in pochi mesi: all’inizio di luglio si è lanciato sui binari, si è spalmato a mo’ di coperta (come testimoniano i filmati esaminati dalla polizia ferroviaria) su una donna che aspettava l’arrivo del treno, è rimasto fermo e presumibilmente senza respirare insieme a lei fin quando non ha visto il convoglio allontanarsi e poi l’ha riportata a galla. Fra «stare sotto un treno», con il carico di disperazione che questa espressione porta con sé, e «passare sotto un treno», in mezzo c’è la vita che riprende a vivere.
Boubakar questa storia probabilmente non l’avrebbe raccontata, se non fosse che gettandosi sui binari si era ferito a un piede ed è stato necessario portarlo al pronto soccorso, come non aveva raccontato quella di cui è stato protagonista circa sette mesi fa quando insieme a un amico aveva trascinato fuori dalla strada ferrata un uomo, poco prima che venisse falciato da un treno: quella volta erano arrivate subito l’ambulanza e la polizia e lui si era dileguato prima che qualcuno potesse capire chi aveva salvato quell’uomo disperato. 
Boubakar ha soltanto diciannove anni, è arrivato ancora minorenne dalla Libia su un barcone: la Sicilia, poi la Liguria, lo Sprar di Arenzano dove vive con un permesso di soggiorno che fra non molto scadrà.
Boubakar non ama il clamore e le luci dei riflettori, quando gli dicono che ha fatto un grande gesto (due grandi gesti in pochi mesi), lui si schermisce, dice che non è niente: «Niente di speciale» dice. Niente di speciale: è solo che non ne può più di vedere morti, Boubakar stanco di guerra, dopo aver visto gli amici morire a grappoli in Libia; Boubakar che in meno di diciannove anni ha visto morire più persone che se avesse vissuto cent’anni. «Non sopportavo l’idea di vedere una persona morire davanti a me», ha detto a chi gli chiedeva perché l’avesse fatto. Ma anche questa domanda dovrebbe farci riflettere: chiedere a Boubakar perché l’ha fatto e non a tutti gli altri – a tutti quelli che «aiutiamoli a casa loro» e Carola «amica degli scafisti» – perché non l’hanno fatto. 
E forse per questi, da Salvini in giù, bisognerebbe organizzare una specie di viaggio premio con «cura Ludovico» compresa nel pacchetto: giorni in Libia, costretti a vedere quello che succede, come lo ha visto Boubakar, a non chiudere gli occhi fino ad esserne straziati.

venerdì 21 giugno 2019

Liberate quei libri

A Stromboli c’è solo un istituto scolastico, dove vanno i bambini delle elementari e quelli delle medie. A volte, d’inverno, può capitare che la lezione salti perché a causa del mare mosso non arriva l’aliscafo e di conseguenza qualche insegnante. 
Però c’è una biblioteca, che per i bambini isolani e isolati è un punto di riferimento. Ha un nome bellissimo: Scuola in mezzo al mare si chiama, gestita dall’omonima associazione di volontari, e offre ai bambini, in un’isola dove non c’è nient’altro che il mare, una serie di servizi, attività extrascolastiche, lezioni di vulcanologia, laboratori di ceramica, museo del cinema, proiezioni di film e naturalmente tanti libri, oltre 3.500 donati nel corso degli anni dai residenti.
Bello, no? Beh, non proprio: perché in realtà la biblioteca non c’è più, chiusa da mesi e, se non si trova in fretta una soluzione, svanirà la speranza di riaprirla.
La questione è che per otto anni la Scuola in mezzo al mare è stata ospitata gratuitamente all’interno di un edificio di proprietà della curia di Messina, che però a un certo punto pare abbia deciso di farci altro e non risponde alle richieste dei volontari, malgrado abbiano dichiarato la volontà di «regolarizzare» la loro presenza come scritto sul loro profilo Facebook. Il risultato è che da mesi i libri e tutto il resto sono prigionieri dentro quella casa senza che nessuno possa aprire la porta e liberarli. 
Dalle informazioni in rete non è possibile capire cosa intenda fare la curia, se affittare a un prezzo che i volontari non potrebbero permettersi oppure vendere escludendo in automatico l’associazione. 
Ma ciò che risulta più oscuro, almeno per me e a meno di smentite, è il perché l’amministrazione comunale non si sia attivata per trovare un posto alternativo da destinare a sede dell’associazione. A meno che l’obiettivo non sia sempre il solito: negare la cultura ai bambini per non rischiare di trovarsi in futuro ad avere a che fare con adulti pensanti. 
Intanto i volontari hanno lanciato su Change una petizione, che appare più come un grido di aiuto, un disperato grido di aiuto come sono spesso le petizioni: ultima spiaggia per tentare di ottenere risposte da istituzioni indifferenti o insensibili, quando non in mala fede.
Lascia il tempo che trova, ma forse farla diventare virale può servire. Io ho firmato: https://www.change.org/p/amici-la-biblioteca-di-stromboli-non-deve-chiudere

venerdì 14 giugno 2019

La lettura dei giornali in classe? Una perdita di tempo

C’è una prof, in un liceo di provincia, che fa leggere i giornali ai suoi alunni del biennio. Tutti i giorni: «preghiera laica del mattino» la chiamava Hegel. A turno, in ordine alfabetico, mi ha raccontato, a ciascuno o a ciascuna tocca portare un quotidiano – sì quello di carta - in classe. A scelta dello stessa ragazza o dello stesso ragazzo. Pluralismo dell’informazione.
Ovviamente non è l’unica in Italia, altrimenti questo paese sarebbe definitivamente perduto, e mi ha fatto ripensare alla mia insegnante di Lettere del ginnasio che, ormai quasi cinquant’anni fa, ci faceva fare la lettura comparata dei giornali stimolando il nostro spirito critico, che poi dovrebbe essere il compito primario della Scuola. Insegnante fra le più brave di quel liceo molto ambito della mia città, dove (quasi) tutti gli insegnanti erano di alto livello. E dove quel metodo allora innovativo era molto apprezzato dal corpo docente, dagli alunni e dalle alunne, e dai genitori.
Ma il metodo della prof di quel liceo di provincia evidentemente dà fastidio, tanto che qualcuno con una lettera anonima l’ha accusata di trascurare il programma (oh, il programma, totem inviolabile della mediocrità e spesso alibi per non affrontare la vita) e di «perdere tempo» con la lettura dei giornali. Il che la dice lunga sulla mutazione genetica del nostro paese, dove una volta i genitori mandavano i figli a scuola perché si affrancassero, perché progredissero, imparassero a stare al mondo, diventassero donne e uomini migliori. E dove oggi invece genitori cresciuti (e rincretiniti) a merendine prefabbricate e grandi fratelli credono alle fake-news degli odiatori di professione ma non agli insegnanti, soprattutto a quelli bravi (e sono tanti), che vengono umiliati, insultati, puniti solo perché cercano, malgrado stipendi offensivi, di fare al meglio il loro lavoro. Visti come nemici che potrebbero minare il precario potere da quattro soldi che esercitano sui propri figli. 
Del resto, è emblematica la vicenda non ancora conclusa della professoressa palermitana Rosa Maria Dell’Aria, privata per quindici giorni non solo dello stipendio ma soprattutto della possibilità di incontrare i suoi ragazzi e confrontarsi con loro, e poi derisa, presa in giro, usata mediaticamente da ministri che non hanno alcun senso delle istituzioni e che i ragazzi li vogliono, appunto, ignoranti e ottusi, a loro immagine e somiglianza. E che vivono l’informazione e la cultura come una bestemmia. Altro che preghiera laica.

lunedì 20 maggio 2019

Legittima difesa

Ho letto la storia di Deborah, la studente del liceo artistico di Monterotondo che durante una lite ha ucciso il padre violento. Ho letto che era bravissima a scuola - selezionata per le olimpiadi di Filosofia -, che qualcuno si chiedeva perché una ragazza così carina fosse sempre triste, che dell’inferno che viveva a casa non parlava con nessuno.
Ho letto la storia di Deborah e mi sono tornate in mente tutte le storie di ragazze e ragazzi che hanno avuto la vita devastata da un padre violento: quelli più grandi, che facevano i turni per uscire la sera pur di non lasciare la mamma nelle mani del suo potenziale assassino, e quelli più piccoli che durante le liti si frapponevano fra il padre e la madre, a fare scudo con il loro corpo. 
«Meg ha venticinque anni e tre cicatrici sul braccio» scriveva la mia amica e collega Roberta Fuschi nel libro a cui abbiamo lavorato insieme qualche anno fa incontrando alcune donne che l’hanno scampata, uscite vive dalla violenza dei loro compagni. Meg parlava di suo padre definendolo «quell’uomo». Quell’uomo da cui, insieme ai suoi fratelli, aveva salvato la madre beccandosi le coltellate.
Ho letto la storia di Deborah, l’ho incrociata con quella di Meg e ho ripensato a quella di G: studente liceale bravissima che viveva nello stesso inferno, chiamava suo padre «quello», non raccontava la sua storia in giro come se fosse lei a doversi vergognare, era sempre triste e la notte faceva la pipì nel letto. Una di quelle notti, mentre suo padre stringeva le mani al collo di una moglie che non riusciva a sottomettere, e niente e nessuno riusciva a distogliere quell’uomo dal suo proposito femminicida, lei afferrò una bottiglia di Coca-Cola e gliela diede in testa. 
Gli fece male, abbastanza da fermarne la violenza, ma non lo uccise e certamente non era quello il suo intento. Come non lo era per Deborah. Ma se anche lo avesse ucciso, certamente a lei sì, come a Deborah, si sarebbe dovuta riconoscere la legittima difesa: della madre e della propria stabilità psichica.

martedì 30 aprile 2019

La festa della mamma

Quando fui licenziata avevo quarantotto anni. Da allora, solo qualche lavoretto: collaborazioni giornalistiche a pochi euro ad articolo quando mi andava di lusso, qualche editore che mi chiamava per propormi l’assunzione salvo poi sparire dai radar senza lasciare in fondo al mare neppure una scatola nera; oppure mestieri che non c’entravano niente con la mia professione, sottopagati o in nero, o sottopagati e in nero. Inframmezzati da lunghi periodi in cui non uscivo più da casa, ferma a fissare il soffitto o a scavare disperatamente nella rete alla ricerca di improbabili e assurdi annunci di lavoro. Troppo vecchia, quattordici anni fa, troppo vecchia. Cominciai a raccoglierli quegli annunci sessisti, sgrammaticati, offensivi, volgari – cercando almeno di cogliere l’aspetto ironico della questione – e alcuni diventarono un pamphlet e poi uno spettacolo teatrale. Ma se ne accorsero in pochi. Cominciai a scrivere libri. Ma se ne accorsero in pochi. Provai a reinventarmi un mestiere con i libri, bello, bellissimo. Ma se ne accorsero in pochi. E di quelli che se ne accorsero solo pochi pensavano realmente che il lavoro per essere lavoro, per avere dignità, deve essere retribuito: c’era chi scroccava un posto a teatro e chi pensava che il libro dovessi regalarglielo in virtù di qualche presunta autorità o autorevolezza. Nessuno che si sia accorto che non mi si vede più in giro e, di quelli che se ne sono accorti, nessuno che abbia collegato la mancanza di un lavoro retribuito (a meno che non si pretenda di definire retribuzione poche decine o un paio di centinaia di euro al mese) con l’impossibilità di fare le cose normali di chi ha un lavoro e uno stipendio normali. Nessuno che si sia mai chiesto come facevo a campare: i giornalisti e gli scrittori nell’immaginario collettivo sono ricchi, per grazia ricevuta. E nessuno che sembri rendersi conto del fatto che ormai la gran parte dei giornalisti e degli scrittori e in generale la gran parte dei professionisti è costretta ad accettare lavoretti del cazzo retribuiti con elemosine. Parto da me, ma parlo di molti. Io sono fortunata: mi aiuta mia madre. La dignità me la sono giocata da un pezzo, ma se non fosse per lei chissà da quanto sarei finita a dormire sotto i ponti. Non sono sola: il paradosso di cinquantenni e sessantenni ancora (o di nuovo) a carico di mammà è più diffuso di quanto non si pensi. Dunque, invece di quelle feste cretine per regalare cioccolatini, profumi e gioielli in nome di cristi e madonne, inventate per sancire lo strapotere di chiesa e capitalismo, proporrei – in un paese in cui il lavoro non c’è più per nessuno (e non puoi nemmeno prendertela con quelli che comandano ora e con i loro stupidi redditi di cittadinanza perché sono il frutto di quelli che comandavano prima e le loro odiose leggi contro il lavoro e contro i lavoratori) –, di eliminare l’ipocrita festa del lavoro. E magari, anticipando di qualche giorno rispetto al calendario delle madonne, di sostituirla con la festa della mamma, o del papà per chi ne ha avuto uno decente, o dei genitori, degli zii, dei fratelli, degli amici, insomma di quelli che la dignità del lavoro non possono dartela ma fanno in modo da garantirti almeno di sopravvivere. Che comunque non è vivere. 

venerdì 26 aprile 2019

Furgiuele, l'ultras cattolico

«Dalla destra sociale proviene anche il segretario della sezione calabrese della Lega-Noi con Salvini. Si chiama Domenico Furgiuele, un passato nella Destra di Storace, e, ora, candidato alla Camera. Di mestiere fa il geometra, a tempo perso lavora nella tv locale di famiglia. Le sue passioni, il calcio e la storia. Quando era un ultras del Sambiase ha collezionato un Daspo, che la Questura affibbia solo ai tifosi più agitati. Sulla storia recente ha le sue idee. Ritiene, per esempio, il neofascista Stefano Delle Chiaie, fondatore della fuorilegge Avanguardia Nazionale, “più una vittima che un carnefice”».
Quello che avete appena letto è un brano di un articolo pubblicato sul settimanale «L’Espresso» nel febbraio del 2018, riguardante trasformisti e fascisti nelle liste di Salvini, firmato da Giovanni Tizian e Stefano Vergine.
Perché ve lo propongo? Perché sappiate chi è l’«onorevole» (sì, nel frattempo è stato eletto, ahinoi) primo firmatario di una proposta di legge che mira a incrementare i matrimoni religiosi fra giovani che abbiano meno di 35 anni, attraverso una «detrazione del 20 per cento delle spese connesse alla celebrazione del matrimonio religioso». Cioè, spiega il testo, calcolato un costo di ventimila euro, la detrazione sarebbe di quattromila euro sulle spese per «ornamenti in Chiesa, tra cui i fiori decorativi, la passatoia e i libretti, gli abiti per gli sposi, il servizio di ristorazione, le bomboniere, il servizio di coiffeur e di make-upe, in fine, il servizio del wedding reporter», che altri non sarebbe se non il fotografo. In pratica, quattromila euro di minchiate che, a voler essere pignoli, non è che c’entrino granché con la fede. Ora, a parte che evidentemente il fascista Furgiuele non sa che un matrimonio in chiesa costa molto di più dei ventimila euro ipotizzati e a parte che evidentemente il fascista Furgiuele non sa che i giovani sotto i 35 anni in Italia non si sposano (né in chiesa né altrove) perché non hanno un lavoro stabile, ci sarebbe da chiedersi se il fascista Furgiuele conosce la Costituzione italiana («Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge», eccetera, ha presente?) e se sa che l’Italia – almeno sulla carta – è uno stato laico. E ci sarebbe anche da chiedersi se questa proposta di legge – un'operazione che dovrebbe costare sessantacinque milioni di euro per il 2019, settantacinque milioni per il 2020 e ottantacinque milioni dal 2021 – non derivi dalla necessità di onorare qualche debito elettorale. Usando soldi degli italiani che potrebbero essere destinati a qualcosa di più serio.
Comunque è divertente notare come la pdl parli di «matrimonio religioso» e non di matrimonio cattolico. E se, per assurdo, ad accedere al beneficio alla fine fossero i musulmani? Mi piacerebbe vederlo diventare nero di rabbia. Di più, sempre per assurdo: pensate se a chiedere gli sgravi fiscali dovesse essere qualche seguace di una religione che consente la poligamia. Dieci matrimoni, quarantamila euro di sgravi? Oppure cifra piena per la prima moglie e poi a scalare? Insomma, sconti per comitive? Offre Furgiuele, ultras cattolico. 

lunedì 15 aprile 2019

Il business della disperazione

Quanto può essere disperata una persona per decidere di farsi spezzare una gamba o accettare il rischio di finire per sempre su una sedia a rotelle? Quanto può essere disperato un migrante per scegliere di rischiare la vita due volte, la prima su un barcone e la seconda facendosi fare a pezzi per pochi spiccioli? Che pacchia, eh! Hanno scelto i più deboli fra i deboli – disoccupati, ragazze madri e immigrati – i bastardi che a Palermo avevano avviato il fiorente business della disperazione rompendo braccia e gambe per incassare il premio assicurativo di poveretti a cui lasciavano solo le briciole e a volte nemmeno quelle. Truffa alle assicurazioni, l'hanno chiamata, ma era una truffa alla vita. Mille euro per una gamba, cinquecento per un braccio. Era il tariffario degli «spaccaossa» (quarantadue quelli arrestati oggi, ma l’inchiesta coinvolge ben duecentocinquanta criminali, fra i quali anche alcuni medici e un avvocato), che le ossa le rompevano davvero ma poi i soldi non glieli davano. Un business da due milioni di euro l’anno per gli organizzatori; qualche centinaio di euro, quando andava bene, per le loro vittime anche se restavano menomate a vita o la vita la perdevano, come Hadry Yakoub, un tunisino che per lo troppe fratture c’è morto ed è stato lasciato in mezzo a una strada per simulare un incidente.
Una vicenda raccapricciante, e un film dell’orrore in cui venivano usati pesanti dischi di ghisa per provocare le fratture, che non può essere considerata «soltanto» come il frutto della perversione di pochi, ma affonda le proprie radici nello stato di prostrazione in cui sono state artatamente gettate le persone più povere delle regioni più povere del nostro paese, per asservirle e renderle manipolali. Che siano politici che ti promettono un posto di lavoro in nero a pochi euro e senza tutele o i mafiosi che ti assumono come manovalanza per lo spaccio di droga oppure i bastardi spaccaossa, la storia non cambia: ti vendi il cervello, la coscienza, la dignità, un braccio, una gamba, la vita stessa perché tanto non hai alternative e perché tanto non hai più voglia di crederci nella possibilità di avere un’alternativa. Perché, tanto, senza la possibilità di un futuro decente, la vita più merdosa di così non può essere. E ne uscirai sempre con le ossa rotte.

giovedì 14 marzo 2019

Bella ciao per l'ambiente

Un’anziana signora di quelle che spacciano per diritti i loro privilegi non sempre eticamente sostenibili era ferma da mezz’ora in un parcheggio nella sua auto con il condizionatore a palla. Scesa dalla macchina per incontrare qualcuno, non era stata minimamente sfiorata dal dubbio che forse lasciare acceso l’impianto in sua assenza potesse essere un po’ esagerato. Mi avvicinai e le chiesi di spegnere. Mi rispose di no. Replicai: «Inquina». La sua risposta fu spiazzante, una botta in testa, una coltellata in pieno petto, un aerosol caricato a monossido di carbonio: «E che me ne frega: importante che stia bene io». Così, come se non avesse figli, nipoti e addirittura pronipoti. Come se la sua famiglia non avesse già pagato all’inquinamento il più insopportabile dei prezzi.
Ogni volta che ripenso a quella scena mi viene in mente Taranto, l’Ilva, la famiglia Riva. I Riva che hanno ammazzato l’ambiente, gli operai dello stabilimento, gli adulti e i bambini che abitavano in zona, e gli animali che respirano quel fumo nero e pesante: tutto in nome del profitto, dell’arricchimento qui e ora. Come se anche loro non dovessero respirare quella stessa aria, come se non avessero figli, nipoti e pronipoti: condannati a morte appena nati.
Chissà quanti anni, decenni, forse secoli ci vorranno – ammesso che ci sia la volontà – per restituire l’azzurro al cielo di Taranto. E chissà quanto ci vorrà prima che si possa riparare il danno fatto dalle industrie, dalla benzina delle nostre auto, dal gasolio per il riscaldamento, da quegli obbrobri estetici ed ecologici attaccati sui muri di palazzi ai cui balconi non fioriscono più le piante. Chissà quanto tempo passerà prima che le vecchie generazioni si rendano conto del disastro. Ottusi, egoisti, sordi e ciechi, il cervello obnubilato dallo smog, continuiamo a prendere a martellate l’ambiente pur di non rinunciare nemmeno a un briciolo dei nostri effimeri privilegi. Per questo le nuove generazioni ci disprezzano, perché spesso quelli diopatriaefamiglia che definiscono l’aborto un crimine non si fanno scrupolo di abortire i loro figli facendogli respirare la merda pur di accumulare strati di denaro, perché dovranno pagare il prezzo della nostra vita smodata e irresponsabile. Per questo si stanno mobilitando in tutto il mondo e domani faranno sciopero per il Global Strike for Future: saranno marea e saranno rivoluzione, saranno una nuova Resistenza contro i guasti del capitalismo. Non è un caso se questi ragazzini, nostri figli, nostri nipoti, hanno realizzato per l’occasione un video con le loro parole d’ordine cantate sulle note di Bella ciao.
E noi dovremo esserci. Io ci sarò: lo devo a Greta, questa ragazzina buffissima che somiglia a Pippi Calzelunghe e che con la forza delle sue idee ha sollevato un problema molto più pesante di un cavallo à  pois; lo devo a Ludovico e Jacopo, lo devo a tutti i bambini che non hanno chiesto di nascere e almeno potremmo usargli la cortesia di farli crescere in un mondo meno schifoso, dove vivere non significhi rischiare la vita.

mercoledì 13 marzo 2019

Giudici che odiano le donne

Secondo la giudice che a Genova ha ridotto notevolmente la pena a un femminicida, il suo stato emotivo era non «umanamente del tutto incomprensibile» perché la sua compagna gli aveva promesso che avrebbe rotto con l’amante e poi invece non lo aveva fatto. Non aveva mantenuto la promessa e lui era deluso. Insomma, il bambino c'è rimasto male e ha reagito male. Niente di più. 
Se fossi uno di quei politici che non mantengono le promesse, mi preoccuperei. Se fossi una cittadina ingannata da uno di quei politici che non mantengono le promesse, mi avrebbero offerto le attenuanti su un piatto d’argento. O forse no. 
In quanto donna, e pure povera, sono certa che mi raddoppierebbero la pena. E mi darebbero anche dell’incomprensibile isterica. 
«Giudici che odiano le donne» li ha definiti il direttore di Radio Capital, Massimo Giannini. E come dargli torto, dopo che – appena qualche giorno fa – altre tre giudici (altre, sì, con la e: donne) hanno assolto uno stupratore perché secondo loro la vittima non era avvenente e dunque non poteva suscitare il desiderio in un uomo? Come se uno stupratore scegliesse la propria vittima per desiderio e non per volontà di sopraffazione. Come se le donne non fossero vittime di femminicidio o di stupro anche se sono brutte, se sono vecchie, se indossano il burqa invece che la minigonna o se calzano le ballerine invece del tacco 12. Incomprensibile.
Però quello che mi risulta davvero incomprensibile è a cosa servono i corsi di formazione. Quelli per i giornalisti che definiscono «love story» l’abuso su una bambina di tredici anni da parte di un uomo di 23 e quelli per i giudici che considerano una donna la vera imputata per la sua uccisione, colpevole a prescindere. Ma forse quel giorno erano assenti giustificati.

giovedì 28 febbraio 2019

È intelligente, ma non si applica

Francamente non vi capisco. Sto parlando con voi, prof di ogni ordine e grado, perché a volte mi fate rabbia. Alcuni di voi passano la vita a lamentarsi di studenti svogliati, poi arriva una studente che fa un lavoro perfetto e voi, invece di premiarla, la mortificate. E il sospetto è che gli svogliati siate proprio voi.
No, non tutti: non mi piacciono le generalizzazioni e non comincerò certo ora. Però qualcuno è intelligente ma non si applica: dovrebbe impegnarsi di più.
La storia è talmente assurda che mi viene il dubbio e persino la speranza che si tratti di una fake-news: in un istituto tecnico di Cagliari, l’insegnante di diritto ha assegnato un compito scritto e una ragazza è stata cazziata in malo modo, stando alla denuncia della mamma, perché lo ha scritto a penna. Cinque ore ci ha messo, a scrivere, cancellare, andare di labor limae, forse appallottolare e ricominciare di nuovo, fino alla fatidica «bella copia». Niente Ctrl+C o Ctrl+X e poi Ctrl+V, niente errori di ortografia cancellati dal correttore automatico, nessuna riga rossa a segnalare lo strafalcione, niente di niente, solo mani e cervello. Eppure la prof non ha trovato niente di meglio da fare che umiliarla, accusandola di «mancanza di voglia e di rispetto» perché quel compito avrebbe dovuto scriverlo al computer e stamparlo.
Ora io non dico che l’insegnante di diritto avrebbe dovuto fare come la mia maestra delle elementari che pretendeva (si era all’incirca nel giurassico) che scrivessimo esclusivamente con la penna stilografica e per di più diventava una belva rabbiosa se ci veniva la macchia blu nella parte interna della falangetta del dito medio, ma apprezzare lo sforzo sì. 
Non so quanti anni abbia questa insegnante, ma forse – se per caso fosse troppo giovane – potrebbe farsi raccontare da una mamma o una zia l’impegno del cercare le cose su un’enciclopedia (già, che strano animale sarà?), le sottolineature, gli appunti (scritti a mano), la scaletta (idem), la prima stesura, la seconda stesura, le cancellature, il non ce la farò mai e poi il «prodotto finito», bello come tutte le cose su cui hai sudato. E poi, già che c’è, la prof si faccia spiegare quant’era emozionante ricevere una lettera e sapere chi era il o la mittente sin da subito, solo guardando la busta, riconoscendone la grafia. Alla fine si faccia anche insegnare da qualcuno migliore di lei che saper analizzare la grafia potrebbe aiutarla a conoscere la personalità dei suoi studenti, addirittura avere il privilegio di entrare in sintonia con loro, e magari a non insultarli e a non tarpare loro le ali se fanno una cosa fuori dai suoi schemi, rigidi come quelli della mia maestra del giurassico.
Dopo di che, dovrebbe ringraziare qualcuno (magari gli insegnanti delle elementari e delle medie) se nella sua classe c’è un’alunna a cui piace scrivere, e scrivere a mano per di più.
P.S.: Se tutta questa storia è vera, l’insegnante non ci fa una bella figura e non oso pensare a cosa potrebbe fare se i suoi allievi dovessero ribellarsi a qualche ordine che lei ritiene inappellabile.
Ma c’è un altro dettaglio che mi rende odiosa questa vicenda: a casa di quella ragazza non c’è una stampante. Forse la prof di diritto (diritto!) prima di insultarla e mortificarla, avrebbe potuto chiederle perché non ha una stampante e quindi riflettere sul fatto che, per quanto costi relativamente poco, non tutti hanno la possibilità e dunque il diritto di comprare una stampante.


venerdì 22 febbraio 2019

L'olocausto dei bambini

Il mese scorso, quando Malta teneva sequestrati i migranti salvati dalla Sea-Watch3, Luigi Di Maio ha affermato che l’Italia era pronta ad accogliere donne e bambini. Un modo per provare (inutilmente) a dare una lucidata alla propria coscienza e per fare la parte del poliziotto buono. Un esempio lampante di quanto le parole, separate dai fatti, restino nient’altro che aria fritta.
Perché i fatti, negli ultimi tempi, in Italia, sono che i bambini – migranti o percepiti come stranieri anche quando sono nati e cresciuti nel nostro paese –, grazie al governo giallo-verde monopolizzato da Matteo Salvini e popolato da odiatori di professione, subiscono lo stesso odio che travolge i loro genitori. E forse anche di più, perché hanno tutta la vita davanti e un sacco di tempo per dimostrarci di essere migliori di noi. Già, i trogloditi al potere si dicono a favore della vita, ma per loro la vita di questi bambini vale meno di una frittella.
E allora vediamoli questi fatti, a partire proprio dalle frittelle: è di poco più di una settimana fa l’uscita del fascistissimo consigliere comunale di Mantova Luca de Marchi, ex (?) esponente di Casa Pound eletto nelle file di Fratelli d’Italia, che annunciava la sua presenza al luna park della città per distribuire i dolci della tradizione locale ai più piccoli. Ma solo agli italiani. Con la motivazione che «le famiglie extracomunitarie… godono, per quanto riguarda l’infanzia, di numerose agevolazioni, mentre le famiglie mantovane troppo spesso devono rinunciare ai momenti di svago con i figli perché subissate di pensieri riguardanti le difficoltà finanziarie». Un modo come un altro per mettere gli uni contro gli altri, per scatenare l’odio e la guerra fra poveri.
Che infatti è arrivata, puntuale come un orologio extracomunitario, nel senso di svizzero, seminando veleno da una parte all’altra d’Italia. 
A Roma un bambino egiziano di 12 anni è stato picchiato e mandato in ospedale, solo perché egiziano, da un gruppo di ragazzi. A quanto si sa, gli è successo tre volte in due mesi e adesso lui ha detto alla mamma che vuole andare via perché ha paura.  
La storiaccia di Foligno è venuta fuori ieri anche se risale a un paio di settimane fa: un bambino nero costretto dal suo maestro a guardare fuori dalla finestra della classe per non essere guardato in faccia dai suoi compagni perché «brutto»; la sorellina, in un’altra classe della stessa scuola, chiamata «scimmia» dallo stesso presunto educatore. Che si è difeso parlando di esperimento sociale e chiamando in causa la Shoah. Forse si era dimenticato di avvertirli, però, perché adesso, come ha detto il papà dei due bambini, «i miei figli stanno male». Fra l’altro ha aggiunto che è la prima volta che gli succede dopo tanti anni che stanno in Italia. E questo qualcosa vorrà pur dire, a proposito del clima che è cambiato.
Ma c’è un’altra storia altrettanto brutta ed è di oggi, fresca di giornata, rancida e puzzolente come il razzismo. È successo ancora a Roma, città «multiculturale», dove un italiano di 29 anni ha aggredito e ferito alla testa un bambino rom di 11 anni perché sosteneva di essere stato derubato. Ora, a parte che tentare di uccidere un bambino per poche decine di euro non è esattamente legittima difesa e a parte che il bambino rom potrebbe benissimo essere italiano come il suo aggressore, vorrei fare un paio di riflessioni: il bambino è stato perquisito dopo essere stato medicato, come se non gli fosse bastato lo choc dell’accoltellamento, e questo tradisce l’equazione rom=ladri che forse alberga anche in chi in quel momento avrebbe dovuto preoccuparsi di non procurargli altri traumi (e comunque non aveva addosso i soldi che secondo l’uomo gli aveva rubato); l’uomo, che ha passato una notte in cella e già stamattina era a piede libero con obbligo di firma, prima di essere bloccato ha avuto il tempo di urlare il suo manifesto politico: «Voglio ammazzare gli zingari perché mi hanno rotto il cazzo». 
Qualcuno ha detto che quando le vittime sono bambini è segno che si sta abbassando ulteriormente l’asticella, ma forse non è abbastanza: se pensiamo che qualche mese fa a Lodi i bambini «stranieri» – per ordine della sindaca leghista Sara Casanova e con la benedizione di un prete che li ha paragonati alle «zecche dei cani» – sono stati esclusi dalla mensa scolastica e segregati altrove, qui siamo all’Olocausto, all’uccisione dei bambini, «inutili bocche da sfamare», perché alle cosiddette «razze inferiori» venga negato il futuro oggi come allora. Qui siamo al nazismo e, se continuiamo a fingere di non averlo capito, non si salverà più nessuno.


martedì 5 febbraio 2019

I mémoires di un casanova squallido

In Italia c’è un coglione che scrive libri. Beh, sì, in Italia ci sono molti coglioni che scrivono libri (e molte case editrici che li pubblicano, perché il coglione – si sa – è redditizio), ma è uno in particolare il coglione di cui voglio parlavi e di cui non vi dirò il nome per non fargli troppa pubblicità, perché da un paio di giorni circola in rete la foto di una pagina del suo cosiddetto libro. Che, a giudicare da quelle poche righe, si potrebbe intitolare Lo sborone, che comunque fa inevitabilmente e inesorabilmente rima con coglione.
Il tizio in questione infatti non disdegna di farci conoscere le sue avventure erotiche, qualcuna addirittura – come fosse una gazza ladra attratta dal luccichio dell’oro – suscitata dalla vista di un Rolex, e di fare nome e cognome delle donne che «si è fatto». Il capitolo si intitola «Fighe». La parte per il tutto. 
Ma io non mi accanirei tanto su di lui, che già ha la sventura di essere un coglione, anche se ha la fortuna di avere trovato una casa editrice attratta solo dal profitto che ha scelto di pubblicare il suo libro di merda. Perché – ammettiamolo (ammettetelo) – in fondo il poco signorile signore in questione non fa altro che quello che fanno molti uomini ai quali non dispiacerebbe affatto pubblicare un elenco del telefono di tutte quelle che si sono scopate o di farne manifesti 6x3 da affiggere per le strade e che, in mancanza, si accontentano di farlo, fra un rutto e una grattata di palle, durante una serata fra soli maschi. Tredicenni, anche se hanno sessant’anni.
A volte qualcuno più temerario si spinge anche oltre: ha appena finito di scopare e, siccome non fuma, invece di accendersi una sigaretta, prolunga il piacere accendendo la lista di quelle con cui è stato. Cioè, è lì ancora con lo sguardo languido da innamorato, l’occhio annegato in un mare di beatitudine che manco al centro benessere, e intanto però comincia a fare nomi e cognomi. «Fighe». La sua collezione di francobolli. Le teste di cervo appese alla parete. Trofei da mostrare a se stesso per convincersi di essere «un vero uomo».
Un po’ frustrato dal fatto di non poterlo fare pubblicamente, magari per via di un certo ruolo sociale da difendere, e oggi finalmente «vendicato» dal libro (!) di mémoires di un casanova squallido e tatuato a cui vorrebbe tanto somigliare. E a cui guarda con ammirata invidia perché finalmente qualcuno ha messo in pubblico i bassi istinti. Come Salvini, che ha fatto diventare programma di governo l’essenza di molti italiani: cattiveria, maschilismo, misoginia, voglia di vendetta e di rivalsa. Del resto, dev’essere per questo che il marito (in carica: al momento non ha nemmeno l’alibi di essere un ex) di Cécile Kyenge ha deciso di candidarsi con la Lega. E magari un giorno scriverà un libro in cui racconterà quanti «negri» ha menato.

lunedì 28 gennaio 2019

Non lo fo per piacer mio

È ufficiale: le donne servono solo a fare figli. Dopo si possono buttare. No, non è quello che penso io, ma quello che pensa evidentemente un giovane cosiddetto «scienziato» americano dall’aspetto da babbeo, tal Damian Murray, che ha condotto una ricerca sugli effetti dell’amore sul corpo di donne innamorate. Quarantasette, per l’esattezza, monitorate per due anni. Tutte giovani, come se dopo non ci si potesse innamorare. 
Scuola Yann Moix, l’attore francese che le donne di cinquant’anni neanche le vede perché sono troppo vecchie per andarci a letto. Un altro con la faccia da babbeo, che farebbe meglio a guardarsi allo specchio prima di darsi arie da tombeur de femmes.
Ma torniamo a Murray: il cosiddetto scienziato ha preso le sue quarantasette cavie giovani, le ha osservate sia mentre erano innamorate che quando non lo erano e ha dedotto che il sistema immunitario delle donne si rafforza, preservandole da virus e infezioni, quando sono innamorate. E fin qui non discuto e anzi potrei anche confermare, malgrado i miei oltre sessant’anni che evidentemente – per Murray come per Moix – sono disdicevoli e non adatti all’innamoramento. Ma immagino che a Murray e all’équipe che ha lavorato con lui non interessi il parere di un’ultrasessantenne.
Perché in realtà quello che a quanto pare a Murray premeva dimostrare – ed è questa la sua conclusione – è che «il rafforzamento del sistema immunitario delle donne, quando innamorate, non è altro che una sorta di preparazione del corpo nel caso di un eventuale parto» e questa – secondo i siti che hanno riportato la notizia (!) – sarebbe «una risposta istintiva dovuta all’effettivo aumento della possibilità di diventare madri». Capito perché le ha prese solo giovani? 
Fine della discussione. Anzi no, perché c’è anche un non detto facilmente deducibile: se scopi, lo devi fare solo per fare figli (non lo fo per piacer mio, eccetera) e quindi non ti montare la testa, ché dopo la menopausa non hai più diritto di scopare.
Comunque io grazie ai risultati di questo studio almeno ho capito perché quest’anno mi sono beccata un’influenza che non me la scordo finché campo.