sabato 30 aprile 2011

Buon primo maggio, ma non a tutti

Buon primo maggio, nel Paese in cui la disoccupazione giovanile è al 30%.
Buon primo maggio a chi muore sul lavoro.
Buon primo maggio a chi il lavoro non ce l’ha più e a chi lo sta perdendo.
Buon primo maggio a chi il lavoro non lo ha mai trovato.
Buon primo maggio a chi è sottopagato.
Buon primo maggio a chi è costretto a gettare nel cesso la propria professionalità e a fare un lavoro di merda pur di sopravvivere.

Pessimo primo maggio a Marchionne e Berlusconi.
Pessimo primo maggio ai padroni.
Pessimo primo maggio ai sindacati gialli.
Pessimo primo maggio a quei sindacalisti che fanno clientelismo invece di tutelare i diritti dei lavoratori.
Pessimo primo maggio, nella Sicilia in cui la disoccupazione giovanile supera il 40%, a un governo regionale che gli unici posti di lavoro li crea in cambio di voti e che va a braccetto con i boss, assassini di futuro.
Pessimo primo maggio ai complici di questo governo regionale, quelli che hanno dimenticato la lotta alla mafia e la tutela dei diritti dei lavoratori.

Onorevoli e scassapagghiari

Vogliamo cominciare dagli scassapagghiari? Almeno ci divertiamo un po’, perché dopo – quando ci imbatteremo in criminali veri e briganti – ci sarà da incazzarsi sul serio.
Sto parlando degli innumerevoli consiglieri comunali, consiglieri provinciali, assessori, deputati regionali che in Sicilia – forse con minor frequenza rispetto a qualche anno fa e probabilmente perché si sono fatti più furbi – finiscono in carcere per i reati più disparati e molti per premio vengono anche ricandidati dai loro partiti o – scilipoteggiando – da altri che li accolgono come salvatori della patria. E – spigolando sul web in cerca di notizie – si scopre che non si salva nessuno, da centrodestra a centrosinistra sia pure con nettissima prevalenza dei primi. Non si salvano ovviamente nemmeno gli ex Pci, quelli diventati Ds e poi Pd, seguendo quella che il presidente Napolitano chiamerebbe “naturale evoluzione” e che forse sarebbe più esatto assimilare a una mutazione genetica di quelle pesanti o un’aberrazione come è quella di chiamare pace la guerra. Si salvano solo quelli che di questa “innaturale” evoluzione non hanno voluto sentir parlare, cioè quelli che sono rimasti veramente di sinistra e comunisti (e non perché non ci siamo più a causa di una legge assassina – quella sullo sbarramento al 5% - voluta anche dal Pd per fare fuori gli unici che avrebbero fatto opposizione sul serio, ma perché la nostra “cifra” è la questione morale). E dire che un sobbalzo - seguito da irripetibile esclamazione, dal momento che Berlusconi può bestemmiare perché dà i soldi alla chiesa cattolica mentre se lo faccio io, che vorrei darli a Emergency o a Libera, mi arrestano - l’ho avuto imbattendomi nella notizia dell’arresto di un esponente Fds: ovviamente si tratta di Forza del Sud, il partito di Gianfranco Miccichè, e non della Federazione della Sinistra.
Dunque, torniamo agli scassapagghiari, ai ladri di polli. Ce n’è uno che farebbe perfino tenerezza per quant’è sfigato, se non venisse voglia di prenderlo a calci in culo per l’ennesima offesa alle istituzioni arrecata dalla sua presenza all’interno di una di esse. Il tipo in questione è poco più di un ragazzo, si chiama Vincenzo Riccardi, oggi venticinquenne, arrestato il 3 dicembre del 2008 a Caronia di cui era (ed è, almeno a quanto si apprende da un sito che fornisce informazioni sul comune e la sua amministrazione) consigliere comunale, eletto in una lista civica a sostegno della maggioranza guidata dal sindaco Giuseppe Antonio Collura. Ebbene, Riccardi è finito in manette praticamente in flagranza di reato mentre – con la refurtiva in spalla - andava via a piedi dalla casa di un professionista del suo paese dalla quale aveva appena rubato un televisore, un ventilatore e altre cazzate del genere. Ma la cosa più esilarante della vicenda è quello che si legge sul blog del Pd di Caronia (partito che sostiene la maggioranza) in un’analisi del voto amministrativo fatta qualche tempo prima: vi si fa notare che, rispetto allo scenario devastante di un centrodestra vincente dappertutto, “non mancano ancora quelle isole ‘felici’ del centrosinistra messinese come la nostra Caronia (il Pd è il primo partito con il suo 25% di consensi...” Esticazzi!
Assegnata la palma d’oro della coglioneria al giovane consigliere comunale, per pari opportunità è il caso di dare un’occhiata all’altra metà della galera. Una donna e avvocato per di più, anche lei molto giovane: all’inizio del 2008 a provare l’ebbrezza del sole a scacchi è stata la trentatreenne Caterina Vitello, consigliere comunale ad Alcamo, eletta con una lista civica (o civetta?) legata all’Udc, accusata di estorsione e turbata libertà degli incanti.
Non si contano poi gli spacciatori. Solo per citarne alcuni cercando di rispettare la par condicio per quanto lo consenta la situazione politica di un’Isola in cui tutti si alleano con tutti, è il caso di ricordare Cristian Giuffrè, giovanissimo consigliere comunale di Lipari (25 anni), trovato nell’aprile dello scorso anno con una cinquantina di grammi di hashish che avrebbe dovuto spacciare a Filicudi. Esponente del Movimento per l’Autonomia di Raffaele Lombardo, Giuffrè girava pure con un coltello di genere vietato. Del Pd invece il suo “collega” spacciatore Giampiero di Venti, impiegato della prefettura e consigliere comunale ad Enna, che una parte della droga destinata allo spaccio (hashish e cocaina) la teneva nel suo ufficio del palazzo del governo. Consigliere uscente al momento dell’arresto – avvenuto nel maggio del 2010 – e ricandidato nelle elezioni amministrative che si sarebbero tenute da lì a qualche giorno, malgrado fosse già stato coinvolto in un’inchiesta della squadra mobile della sua città proprio su un giro di cocaina. Il Pd valorizza sempre i suoi uomini migliori.
Come un buon padre di famiglia, stava invece instradando il figlio sulle orme paterne in vista di un fulgido avvenire il consigliere comunale di Porto Empedocle, Giacomo Lombardo, del Pdl: nel dicembre del 2009 li hanno arrestati tutti e due, padre e figlio, per detenzione e spaccio di stupefacenti.
E, giusto per non farci mancare niente, c’è pure uno arrestato un paio di mesi fa nell’ambito di un’indagine per sfruttamento della prostituzione: ex An transitato a Forza del Sud (proprio il partito di Gianfranco “polverina”, quello secondo il quale intitolando l’aeroporto di Palermo a Falcone e Borsellino si sarebbe trasmessa un’immagine negativa; fosse stato per lui, forse l’avrebbe intitolato a Vittorio Mangano), il consigliere comunale di Trapani Giuseppe Ruggirello è accusato anche di corruzione e concussione. Dall’inchiesta emergerebbe che Ruggirello, oltre a godere dei “favori sessuali” (non so perché li chiamino così: di solito un favore si fa gratis) di ballerine russe con permesso di soggiorno falso che si esibivano in due night-club della città, avrebbe anche informato i proprietari dei ritrovi di accertamenti dell’Agenzia delle entrate e in cambio avrebbe chiesto anche voti.
Tutte personcine per bene, non c’è che dire, ma nell’elenco - in crescendo e a completare il catalogo delle tipologie criminali - non può mancare uno degli ultimi arrestati: un assassino. Anche se solo parente di un esponente politico. Vincenzo Bonfanti, l’uomo che qualche giorno fa a Palma di Montechiaro avrebbe ucciso con una decina di colpi di pistola Nicolò Amato, che aveva messo i lucchetti a una pizzeria di sua proprietà gestita dal congiunto moroso del primo cittadino. Quest’ultimo, Rosario Bonfanti, alle amministrative era sostenuto da una coalizione variegata di pezzi dell’Udc e del Pdl (mentre un altro pezzo di Pdl, insieme all’Mpa, sosteneva un altro candidato) riunita sotto un nome che è tutto un programma: “Svegliamoci risorgiamo con Lui Sicilia”. Così, Lui scritto maiuscolo. Con quel “risorgiamo” gli si devono essere intrecciate le idee.
Mandante di omicidi, ma per storie di mafia, era invece Salvatore Di Giacomo, ex segretario dell’Udeur e consigliere provinciale a Caltanissetta, che a Gela decideva l’affidamento degli appalti agli stiddari. Ci sarebbe proprio l’esponente politico arrestato nel febbraio scorso dietro il tentato omicidio di Nunzio Renato Mauro, dirigente del settore Lavori pubblici della cittadina nissena, “colpevole” di voler fare le cose rispettando la legge.
E così siamo arrivati al perverso intreccio fra criminalità organizzata, affari e politica che – come una nube tossica – avvelena la Sicilia dal più piccolo consiglio comunale fino al governo regionale.
Qui francamente la voglia di buttarla sul ridere ti passa, anche perché a permettere che questo governo regionale abitato da criminali (non solo politici) – come dimostrano inchieste giudiziarie e arresti recenti – possa sopravvivere e, anzi, primo responsabile morale della permanenza di un governo basato sui rapporti criminali e sulle clientele è quel partito che millanta la propria appartenenza al centrosinistra e che si è liberato dei valori morali e di quelle che dovrebbero essere le classi sociali di riferimento. E ha un bel dire, soltanto adesso, il segretario di quel partito – il Pd - in Sicilia, Giuseppe Lupo, che se Lombardo dovesse essere rinviato a giudizio loro si ritirerebbero dal governo. Ma che cosa devono aspettare ancora, di trovarlo con una carica di tritolo da piazzare sotto l’auto di un magistrato? Complici. Al mio paese, quelli che consentono a un governo di vivere sulla base di rapporti con la mafia e di clientele (traendone essi stessi indubbi benefici) sono soltanto complici, colpevoli in ugual misura. E questo temporeggiare non fa che aumentare le loro responsabilità e la loro chiamata in correo.
C’è bisogno di ricordarglielo? Sì, evidentemente sì. Raffaele Lombardo – del quale uno dei più appassionati sostenitori è l’onorevole Beppe Lumia, molto ex presidente della Commissione antimafia e molto ex comunista per avere calpestato i diritti dei lavoratori (il suo ex addetto stampa lo accusa di averlo pagato in nero e persino minacciato di licenziamento se avesse rivendicato ciò che gli spettava) – è indagato dalla procura di Catania, insieme al fratello Angelo, parlamentare nazionale dell’Mpa, di rapporti con la mafia. Indagini sostenute da quintali di carte, dossier, intercettazioni, dichiarazioni di pentiti e perfino ammissioni dello stesso Lombardo che – in spregio al ridicolo – ha detto di avere incontrato i boss effettivamente, ma solo per ragioni politiche. Cioè, appunto, non per preparare una carica di esplosivo da lasciare davanti al portone di un giudice, ma per avere voti e aumentare il suo potere assoluto.
Se i dirigenti del Pd siciliano non fossero troppo presi a rincorrere il potere, gli basterebbe dare una sbirciatina a quelle carte e scoprirebbero, per esempio, che il pentito Maurizio Avola – interrogato dalla procura catanese il 25 febbraio 2010 – ha riferito agli inquirenti di avere incontrato un paio di volte negli anni Novanta l’attuale presidente della regione a San Giovanni La Punta, nella villa dove il capomafia Benedetto Santapaola trascorreva la sua latitanza e di avere saputo da un altro boss che si trattava di un amico. Aggiungendo: “un amico che si incontra da Santapaola non è più un amico ma è una persona fidatissima no fidata”.
Non so se capiscono, non ne sono sicura, ma certamente si adeguano gli esponenti del Pd siciliano. E infatti dev’essere stato per farsi accettare ed entrare a pieno titolo a far parte della classe dirigente siciliana che Gaspare Vitrano, deputato regionale di Lupo e Bersani, si è fatto cogliere con le mani nella marmellata proprio mentre incassava una mazzetta. Arrestato due mesi fa. Di qualche giorno fa invece l’arresto per truffa di Riccardo Minardo, presidente della prima sezione Affari istituzionali dell’Assemblea regionale siciliana e uomo di punta del partito di Lombardo, l’Mpa, in provincia di Ragusa. Dove i suoi amici di partito si sono affrettati a mettere l’arresto in relazione alle prossime amministrative - insomma, tutta colpa dei magistrati che fanno le inchieste ad orologeria – mentre quelli del Pd subito hanno precisato che questo non mette in discussione le alleanze (e figurarsi!). Per restare nel ragusano, del lungo elenco di esponenti della destra siciliana – intendendo per destra non solo il Pdl, ma anche Mpa e Udc (e, estensivamente, secondo la logica aristotelica, se destra=Mpa e Mpa=Pd, Pd=destra) – fa parte Giuseppe Drago, prima dell’Udc proprio come Minardo e ora del Pid (il partito che ha accolto anche Fausto Fagone, il deputato regionale arrestato per concorso esterno in associazione mafiosa nell’ambito dell’inchiesta Iblis in cui è coinvolto Lombardo), che qualche anno fa, da presidente della Regione, fu accusato di essere scappato con la cassa un attimo prima di lasciare la carica. Insomma, forse un po’ più sofisticato del consigliere Riccardi, ma pur sempre ladro.
Ma, per restare ad oggi, dei 90 onorevoli (!) deputati dell’Ars, in base a una ricostruzione fatta qualche mese fa dalla rivista “S”, poco meno di un quarto ha avuto a che fare con la giustizia: 17 per l’esattezza, alcuni al momento solo indagati, altri condannati in primo grado. Troppi. E sarebbe troppo anche uno soltanto, dal momento che né i loro colleghi né quelli che li hanno votati si premurano di mandarli via a calci nel sedere.
Li ricordo in ordine alfabetico, per non far torto a nessuno, sottolineando di nuovo che per alcuni non c’è ancora stata una sentenza definitiva e precisando, però, che difficilmente la magistratura apre un’inchiesta perché non ha niente di meglio da fare:
Giuseppe Buzzanca (Pdl) – peculato d’uso e abuso d’atti d’ufficio.
Salvino Caputo (Pdl) – coinvolto nell’inchiesta sulle talpe alla Dda di Palermo.
Totò Cascio (Pid) – rapporti elettorali mafia/politica.
Michele Cimino (Forza del sud) – assegnazione di appalti pubblici a imprese mafiose.
Giovanni Cristaudo (ex Pdl ora gruppo misto) – coinvolto nell’inchiesta Iblis sui rapporti fra mafia e politica.
Fausto Fagone (Pid) - coinvolto nell’inchiesta Iblis sui rapporti fra mafia e politica.
Giuseppe Federico (Mpa) - rapporti elettorali mafia/politica.
Elio Galvagno (Pd) – falso in bilancio
Raffaele Lombardo (Mpa) – rapporti mafia/politica.
Rudy Maira (Pid) – appalti pubblici in cambio di soldi.
Fabio Mancuso (Pdl) – corruzione e mobbing.
Riccardo Minardo (Mpa) - truffa ai danni dello Stato e dell’Unione Europea.
Franco Mineo (Forza del sud) – rapporti con la mafia.
Giuseppe Picciolo (Pd) - simulazione di reato e calunnia aggravata (per capirci, quand’era consigliere comunale, invece di fare la battaglia politica in consiglio, sembra mandasse lettere anonime per denunciare illegalità nella gestione dei rifiuti).
Paolo Ruggirello (Mpa) - istigazione alla corruzione, minaccia a pubblico ufficiale e
oltraggio a un corpo politico amministrativo.
Riccardo Savona (Mpa) – mafia e appalti.
Salvatore Termine (Pd) – falso in bilancio.
Facendo un rapido calcolo, un terzo appartiene all’Mpa, il partito del “governatore” della Sicilia. Gli altri, comunque, sono più o meno in gran parte democristiani. Gli uni e gli altri accusati di reati gravissimi come avere rapporti con la mafia. Meno gravi le accuse nei confronti dei deputati del Pd. E per avere un ruolo da scassapagghiari continuano a mantenere in vita questo governo regionale?
Oggi, almeno oggi, ventinovesimo anniversario della morte del segretario regionale del Pci, Pio La Torre, ucciso dalla mafia, i dirigenti del Pd che sostengono un presidente della Regione che non disdegna i rapporti con i boss, avrebbero dovuto avere la decenza di astenersi da dichiarazioni e commemorazioni.

venerdì 29 aprile 2011

Knockin' On Vatican's Door

A volte penso che dovrei tenere una sorta di rubrica quotidiana sulla manipolazione e la distorsione delle notizie da parte dei telegiornali di regime. In realtà non basterebbe nemmeno tre volte al giorno prima dei pasti e bisognerebbe dedicarsi a fare questo tutto il giorno: guardare i tg e sputtanarli notizia per notizia. Ovviamente, potendo vivere di rendita (o da direttore generale della Rai, che poi è lo stesso) e non prima di avere fatto scorta di confezioni giganti di Maalox.
Sicché spesso rinuncio. Ma questa ve la devo dire. Ieri Novella 2000 - cioè quel tg che trasmettono sulla seconda rete televisiva della Rai e che parla solo di matrimoni reali (anzi, no: di royal wedding, che fa fine), della razza di animale morto indossato dai puttanoni milanesi ingioiellati come la “vara” di sant’Agata quando vanno a fare le vasche a Cortina, della dieta per dimagrire, di quella per allungare (magari l’avessero inventata!) e di quella per farselo allungare, and so on – fra i suoi “servizi” (nel senso di Ruby e le altre) aveva anche quello alla (alla, non ho sbagliato) chiesa cattolica in cui si parlava della beatificazione di Wojtyla, delle magnifiche sorti e progressive del sistema di sicurezza messo in piedi per evitare attentati, del cordone di protezione, del numero di gente che andrà a Roma in aereo, in treno, a piedi, in mongolfiera, dei gadget con la faccia del beatificaturo e via così banaleggiando. Ora, il punto non è tanto questo, cioè il fatto che ne parlino, né adesso voglio sollevare la questione di incostituzionalità e la violazione dell’articolo 21 perché imponendomi i riti del cattolicesimo questo Paese vorrebbe vietarmi di pensarla diversamente. Il punto è che vorrei soltanto fare due domande al giornalista che ha “cucinato” il servizio, decidendo – immagino – anche la musica da usare come sottofondo. Prima domanda: ma Bob Dylan lo sa? Seconda domanda: ma il giornalista lo sa?
Formulo meglio: Bob Dylan, notoriamente ateo, sa che per accompagnare una marchetta al Vaticano è stato usato il suo brano scritto per “Pat Garret e Billy The Kid”, “Knockin’ On Heaven’s Door”? Io al suo posto mi incazzerei. E poi: il giornalista lo sa che Bob Dylan, per la sua storia, non è esattamente uno da usare per uno spot della chiesa cattolica e che ha detto una puttanata anche sul piano di quello che credono i cattolici? Infatti, se non sbaglio, uno che secondo loro ha fatto persino i miracoli quand’era in vita, appena muore ci va dritto dritto in paradiso e non deve aspettare cinque anni e poi mettersi là dietro a bussare prima di entrare. E dov’è stato finora Wojtyla, ha galleggiato in purgatorio? E poi un papa non dovrebbe essere uno che usa le armi come un vicesceriffo qualsiasi.
Ci sarebbe anche una terza domanda: il Vaticano lo sa che quel “comunista” di Dylan ha prestato (senza saperlo) la sua canzone a questo evento? Fossi in loro, questo giornalista “sovversivo” (o forse soltanto ignorante e superficiale) lo scomunicherei.

sabato 23 aprile 2011

25 aprile: in piazza per i "beduini"

Qualche tempo fa ho sentito un selvaggio catanese...sì, lo so, è pleonastico - e nel compito in classe sarebbe segnato rosso e blu - come quando dici “ma però” o “fascio di merda” o “maschio cretino”....va bene è pleonastico, ma ci sta...insomma, ho sentito questo selvaggio catanese definire Gheddafi, con occhio pieno di rancore, “bbiduino”. Dunque, il problema di Gheddafi non sarebbe quello di essere un dittatore sanguinario che opprime il proprio popolo (e, in quanto tale, amico dell’efficientissimo signor ghe pensi mi, Silvio Berlusconi, che non gli fa la guerra – comunque, sempre sbagliata – non per improvvisa sensibilità pacifista, ma certamente per difendere chissà quali interessi economici personali), ma un beduino, appunto. Che nel particolare vocabolario del suddetto catanese non indica un abitante del deserto, ma un selvaggio (come dire?, il bue che dà del cornuto all’asino) perché pratica una religione diversa dalla sua e, in quanto tale, sbagliata; perché parla una lingua diversa dalla sua e, in quanto tale, sbagliata; perchè porta abiti diversi dai suoi (ricordate Montesquieu e le sue Lettres persanes?) e, in quanto tali, sbagliati; perché sottomette le donne, ma non tanto quanto vorrebbe fare – se non rischiasse di essere arrestato – il beduino etneo. Inglobando in questo termine a cui dà valenza spregiativa chiunque abbia un colore di pelle diverso dal suo (e se anche praticasse la sua stessa religione) e gli “invasori” che secondo la vulgata vengono a toglierci il lavoro, migranti – come lo erano i suoi avi – venuti a trovare la morte mentre cercavano la vita.
Che poi, siccome ha superato gli ottant’anni e non ha mai superato gli esami di terza media (corso di studi seguito andando a scuola dai preti, che gli hanno “inculcato” questi bei valori di amore per il prossimo), può essere in fondo anche compatito perché vive nel ricordo della sua infanzia e dunque nel mito di un regime maschio e colonizzatore come tutti i catanesi maschi di una certa età (gli allora giovani sbeffeggiati da Vitaliano Brancati) vorrebbero essere.
Il fatto è che, qualche settimana fa, fermandomi a prendere un caffè ad un chiosco di bibite – dove non andrò mai più -, ho sentito i due giovani gestori, poco più che ventenni (e i vent’anni dovrebbero essere quelli dell’elasticità mentale e dell’apertura al mondo) dichiarare senza vergogna e all’unisono, mentre un gr dava notizia di centinaia di disperati finiti in fondo al mare: “io gli immigrati li odio”.
Così come, mentre facevo la spesa al mercato di Catania, ho sentito una gentildonna indigena, involontariamente urtata da uno straniero, vomitare: “Stu cinisi di mmerda mi stava fascennu cascari”, questo cinese di merda mi stava facendo cadere. Dimentica, la gentildonna, dei suoi conterranei di merda che sistematicamente e con grande generosità ti elargiscono urti, spintoni e sgambetti se hai la sventura di condividere con loro lo stesso marciapiedi.
Domani tutti questi saranno a messa a celebrare uno dei riti dell’ipocrisia, pronunciando parole come solidarietà e fratellanza.
Io dopodomani, il 25 aprile, sarò in piazza per ribadire i valori della Resistenza, per difendere la Costituzione, per ricordare chi è morto per rendere questo Paese libero dal fascismo e civile. E sarò in piazza anche per i “beduini”, per liberarci – tutti – dal nuovo fascismo, dall’ignoranza, dalla cattiveria e da un governo di selvaggi: solo ultimo in ordine di tempo, il sottosegretario Giovanardi, che non riconosce come famiglia una coppia gay e perseguita gli omosessuali proprio come fece il fascismo, ma non sembra minimamente preoccuparsi delle performance erotiche del vecchio porco a capo del governo.

lunedì 18 aprile 2011

Non habent papam

E che palle ‘sta pietas. Da qualche giorno, da quando è uscito “Habemus papam”, il nuovo film di Nanni Moretti, sento molti pronunciare questo termine e parlare di sguardo caritatevole e cristiano del regista nei confronti delle debolezze della chiesa, nel tentativo di iscriverlo d’ufficio nel “partito dei folgorati sulla via di Damasco” al quale essi stessi – ormai avanti con gli anni e per il “non si mai” – hanno aderito con l’obiettivo di guadagnare qualche punto nell’ipotesi remota che ci sia qualcosa “dopo” (“oltre”, come direbbe il Pd che – del tutto inutile nell’al di qua – potrebbe sperare di dare un senso alla sua vita nell’aldilà).
Ora, io ammetto di essere condizionata dal mio anticlericalismo viscerale e dal mio disprezzo per la gerarchia cattolica, ma secondo me Moretti li prende per il culo dalla prima all’ultima scena. A partire da quella - una delle prime, appunto – in cui la luce (divina?) va via proprio nel momento in cui i cardinali sono riuniti in conclave, per decidere chi di loro dovrà succedere al papa appena morto, lasciandoli nel buio dell’incertezza. E li vedi, come alunni di un liceo classico davanti a un compito scritto di matematica particolarmente ostico, che scrivono, cancellano, riscrivono, strappano il foglio, si girano da una parte e dell’altra in cerca di aiuto; e ce n’è persino uno che tenta di sbirciare il “compito” del compagno di banco.
E se, come qualcuno ha detto, Moretti non documenta la predisposizione all’intrigo tipica della chiesa cattolica, certo è che la ridicolizza quando il portavoce della santa sede, disperato per essersi fatto scappare il papa neoletto in preda ad una crisi di nervi e consapevole delle più imprevedibili reazioni di fronte alla “vacatio”, ingaggia una delle guardie svizzere perché stia nella stanza del “successore di Pietro”, si muova, faccia qualcosa per far credere ai cardinali in ambasce che il pontefice sia proprio lì, magari un po’ in crisi e in meditazione, ma in preghiera e che è solo questione di tempo e poi scenderà da lì e accetterà l’incarico. Per la serie: il papa è vivo e lotta insieme a noi. Sicché vedi la guardia svizzera, prima un po’ timorosa (“posso guardare ogni tanto la televisione?”), via via più disinibita, che si ingozza di dolci, beve, fuma, saltella da una finestra all’altra sventolandone le tende come bandiere, ascolta musica a palla (musica profetica, che contagerà i cardinali e darà la chiave di lettura del film) e lentamente ti sembra che le righe della sua giacca si tramutino nei rombi della casacca di Arlecchino mentre lo psicoanalista, rimasto senza il suo paziente, intrattiene in un torneo di pallavolo i porporati per evitare che venga a loro stavolta la crisi di nervi, prigionieri in Vaticano finché (e non si quanto durerà il finché) non verrà annunciato ai fedeli il nome del nuovo pontefice.
Sguardo non pelosamente caritatevole, ma ironicamente umano, quello di Moretti nei confronti del papa in crisi, che non si sente all’altezza del compito appena ricevuto e al quale proprio nel momento della nomina affiora ancora indefinito tutto il rimosso esplodendo in un urlo con conseguente fuga. Moretti (grande regista e straordinario attore, che potrebbe benissimo recitare restando immobile e mettere in scena un intero trattato di filosofia soltanto attraverso lo sguardo e i muscoli del viso) lo manda in giro a ritrovare se stesso perdendosi nelle strade della città, aiutato da una psicoanalista dallo sguardo smarrito come quello di Margherita Buy e soprattutto dall’incontro con una compagnia di attori. “Volevo fare l’attore, ma non mi hanno preso, perché non ero bravo”, confiderà un maestoso Michel Piccoli ai suoi nuovi amici durante una scena in osteria, con un occhio ai tg che tentano invano di dipanare il mistero del papa scomparso. Costretto a lasciare Cechov – che conosce a memoria, parola per parola – per altre recite, l’attore mancato si ritrova così a vestire da attore (υποχριτες, in greco) i panni del papa e scegliere un’altra finzione, salvo poi ricevere il suo primo applauso proprio in teatro durante un’irruzione quasi militare dei cardinali che vanno a riprenderselo. E salvo poi minare inaspettatamente le basi di un’istituzione inattaccabile e sempre uguale a se stessa (un auspicio, forse, da parte di Moretti, più che uno sguardo alimentato dalla pietas), con un “no” a un tempo fragoroso e carico di umiltà che fa risentire allo spettatore nel sottofondo della memoria quel brano musicale – “Todo cambia”, cantato da Mercedes Sosa - ascoltato dalla guardia svizzera e lascia la gerarchia ecclesiastica nello sconforto e senza papa.
Su tutto, l’ironia elegante, problematica e anche un po’ impacciata di Moretti, che non dimentica di mettere in scena un siparietto con giornalista coglione, talmente accecato dal suo bisogno di apparire da non riuscire a distinguere una fumata nera da una fumata bianca.
E comunque, siccome io Moretti lo accetto per fede, sappiate che lo adoro. Qualunque cosa abbia voluto dire, dimostrare o anche soltanto mostrare.

domenica 17 aprile 2011

Concime per le piante

Ieri ho preferito tacere. Il nuovo, pesantissimo, attacco di Berlusconi contro i magistrati, accompagnato dai manifesti di cui il capo del governo è il mandante; il nuovo, gravissimo attacco agli insegnanti e alla scuola pubblica; quel suo ridurre l’omosessualità a barzelletta...meglio tacere, meglio non commentare, perché i sentimenti che ogni giorno di più mi suscitano le parole di quest’uomo mi avrebbero indotta a dire cose da Br, io che ho sempre pensato che i brigatisti fossero terroristi e che non bisognasse indulgere nei loro confronti – come molti negli anni Settanta – definendoli “compagni che sbagliano”. Ho preferito tacere, perché avrei detto – con Asor Rosa -: “chiamate i carabinieri”. E avrei aggiunto: “chiamate la neuro” e altre cose che non dirò, altrimenti mi arrestano, ma che bisognerebbe dire, perché quando si arriva al regime, non c’è altra strada.
E non posso non ricordare quando ci prendevano per pazzi, noi comunisti, quando dicevamo che si stava andando verso un regime. Cosa sono l’omofobia, il bavaglio alla stampa, la persecuzione degli insegnanti, i libri all’indice, l’ossessione di distruggere la magistratura, se non gli ingredienti essenziali di un regime? Adesso se ne sono accorti anche gli altri, ma intanto noi ci hanno messi fuori (dal Parlamento, dalla tv, dai giornali, dalla vita stessa), ma a lui hanno permesso di spingersi oltre e oltre e oltre, fino a un punto di non ritorno. Mentre ancora aspettiamo (temo invano) che il capo dello Stato e presidente del Csm faccia sentire la sua voce.
Oggi se c’è un brigatista, se c’è un eversore, si chiama Silvio Berlusconi e con lui i suoi servi, da quello che gli confeziona e gli offre su un piatto d’argento una riforma “epocale” della Giustizia utile solo a cancellare i suoi innumerevoli e raccapriccianti reati a quello che mette nero su bianco (bianco su rosso) e affigge sui muri la condanna a morte nei confronti dei magistrati: quel Roberto Lassini, candidato del Pdl alle amministrative di Milano, che (forse dietro lauto compenso) si è assunto la paternità dei manifesti che paragonano i giudici alle Br e che oggi dice di non aver avuto intenzione di offendere e che, insomma, si è trattato di una specie di “voce dal sen fuggita”. Eh, no, Lassini: uno può dire una cosa sconveniente quando parla a braccio, ma per ideare dei manifesti e farli affiggere ci vuole qualche giorno: bisogna ragionare sullo slogan, decidere il carattere e il corpo, il colore dello sfondo, andare in tipografia, stamparli, aspettare che si asciughino, chiamare gli attacchini. Non è una frase che scappa in un momento di rabbia: è un proclama politico, di cui Lassini è l’esecutore materiale e Berlusconi il mandante. E bene ha fatto il procuratore Bruti Liberati a ricordare subito che in procura a Milano le Br c’erano state, ma per uccidere i magistrati che credevano nello Stato; e bene ha fatto oggi Il Fatto a mettere le foto dei magistrati uccisi dal terrorismo rosso e nero. Ma hanno dimenticato di aggiungere tutte le foto di tutti i magistrati che credevano nello Stato uccisi da nord a sud (e soprattutto a sud) per aver combattuto la mafia che a Berlusconi ha fornito voti e protezione: terrorismo politico e terrorismo mafioso, non fa differenza.
E avrebbero fatto bene (ma non sarebbe bastato un giornale intero e nemmeno un’enciclopedia) a mettere i nomi e le foto di tutti quegli insegnanti delle scuole pubbliche che in questo Paese hanno svolto – loro sì – sempre “eroicamente” il loro lavoro, oltre che con passione, dedizione e senso del dovere, concetto ormai sconosciuto ai più. Insegnanti che ci hanno messo il cuore, per uno stipendio da fame, per dare un futuro dignitoso ai loro allievi.
E chiunque può testimoniare. Io potrei parlarvi della mia maestra delle elementari, una che aveva due lauree quando bastava solo un diploma. Secondo me era fascista (e io la odiavo quando dava le bacchettate sulle gambe alle mie compagne che non avevano avuto la fortuna di nascere in una famiglia in cui si padroneggiasse l’Italiano), ma le brillavano gli occhi quando insegnava. E potrei parlarvi della mia insegnante di Lettere del ginnasio che sprizzava passione per la sua professione e di quella di Greco del liceo che si emozionava leggendoci l’Antigone e persino del prof di Italiano che era asino ma ce la metteva tutta per essere all’altezza di noi liceali esigenti, anche se non bastava indossare un pullover a collo alto per essere come il professore di Storia dell’Arte grazie al quale, in occasione di una ricorrenza, ti ritrovavi a chiedere in regalo non un vestito, ma un proiettore per studiare la sua materia con l’ausilio delle diapositive. E potrei parlarvi di mia madre che per decenni, fino al suo ultimo giorno da insegnante, ha speso soldi in libri per migliorare le proprie conoscenze e condividerle con i suoi alunni e ogni sera prima di dormire “studiava” la lezione per l’indomani. Come se, dopo quarant’anni, uno le cose non le avesse già fradice in testa. E posso parlarvi di un mio amico insegnante che, dopo una giornata trascorsa fra lezioni in classe, corsi, viaggi da una scuola all’altra trascurando la famiglia pur di non farle mancare niente, conclude la sua serata – quand’anche fossero le due di notte – preparandosi la lezione per l’indomani, proprio come faceva mia madre. E alle loro aggiungerei le foto delle schiere di insegnanti giovani-non più giovani la cui unica stabilità consiste nella precarietà e che non smettono di amare il loro lavoro e di credere nella scuola pubblica e nello Stato, proprio come i magistrati uccisi dai terroristi e della mafia.
Questi sono gli eroi, non Vittorio Mangano, e queste sono le persone di cui non ci si può dimenticare. Quanto a Berlusconi e ai suoi servi, non saranno buoni nemmeno da morti, nemmeno come concime per le piante.

venerdì 15 aprile 2011

Après lui, le déluge

L’avrà detto? Non l’avrà detto? L’avrà detto in italiano ed è stato frainteso perché il traduttore simultaneo ha tradotto fischi per fiaschi? L’avrà detto in inglese e, siccome il suo è un inglese maccheronico, il cronista britannico non ha capito? Avrà detto “al nano” e il suddetto cronista britannico, debole d’udito, ha capito “al fano”? Era un ballon d’essai per vedere di nascosto l’effetto che fa?
E chi lo sa. Neanche una schiera di oracoli della sibilla cumana, di presaghi, auspici e aruspici, di lettori di fondi del caffè, di carte e di linee della mano, di maghi con la palla di vetro, di indovini e previsori del tempo (per non parlare di psicologi, psichiatri e psicanalisti, che hanno già gettato la spugna da un pezzo), può dire con certezza cosa passi per la testa a Berlusconi quando fa dichiarazioni, come quella – appunto – rilasciata alla stampa estera per annunciare il suo futuro ritiro dalla politica, l’investitura di Angelino Alfano come nuovo leader del Pdl e la propria ambizione a ricoprire il ruolo di “padre nobile” del centrodestra.
Ora, a parte quest’ultima affermazione doppiamente inquietante sia con riferimento al termine di padre (pedofilo?) sia relativamente alla cosiddetta nobiltà (e miseria?), innanzitutto lui non ha detto quanto sia futuro il suo futuro ritiro dalla politica. E, siccome è convinto di essere immortale, può darsi che per lui il pensionamento sia fra quarant’anni: così, superato Mussolini, oltre ad essere il premier più perseguitato dalle procure di tutto il mondo e il miglior presidente del consiglio degli ultimi centocinquant’anni, sarà anche il dittatore più longevo del sistema solare – battendo il suo compagno di merende Muhammar Gheddafi - e lo scriveranno nel guinness dei primati, cosa che lo fa andare in brodo di giuggiole. Nel frattempo Angelino Alfano sarà un ottantenne con l’alzheimer, dunque non più in grado di governare, forse persino ricoverato in una casa di riposo per anziani, sicché il piccolo dittatore potrà uscirsene nominandolo simbolicamente – a mo’ di ringraziamento – alla guida del partito. Ma intanto l’obiettivo primario sarà stato raggiunto. E forse è inutile che commentatori e politologi si affannino nelle interpretazioni. Sapete che c’è? Forse non è nemmeno la presidenza della Repubblica che gli interessa.
E’ sufficiente un codice a sua immagine e somiglianza. Perciò ad Angelino si fa vedere il premio finale in modo che, passo dopo passo, glielo cucia addosso quell’abito che chiamano riforma epocale della Giustizia. Già un bel pezzo è pronto, ma – step by step – Angelino lo completerà, con il miraggio della leadership. Alla fine tutte le leggi saranno state cancellate e ci sarà solo una legge: il dittatore potrà rubare, corrompere, non pagare le tasse, possedere tutti i mezzi di comunicazione di massa, licenziare tutti i magistrati, nominare senatore il proprio cavallo e deputata la propria troia, violentare le minorenni, e nessuno potrà metterlo sotto inchiesta, indagarlo, condannarlo e nemmeno esprimere giudizi morali. Vietato criticare, vietato pensare. Così non ci sarà nemmeno bisogno di fare il presidente della Repubblica. Ma sai quanto gliene frega! Importante non essere arrestato per i prossimi quarant’anni. Après lui, le déluge.

Arrigoni: restiamo umani. E carichi di rabbia

Quelli come noi che ancora si ostinano a pensare e avere reazioni, quelli come noi che non vogliono rassegnarsi all’idea di mettere in formalina il cervello, quelli come noi che preferiscono la gastrite alla demenza autoindotta e consapevole, la sera si coricano con la sensazione di annegare nel mare delle notizie, soffocati dall’incazzatura per una guerra che vogliono farci bere come missione di pace, per un ragazzo siciliano emigrato in Sardegna per lavorare e morto sul lavoro poco più che ventenne, per un prefetto che disonora lo Stato, per un dittatore corruttore che quello stesso Stato sta saccheggiando, per gli onorevole disonorati, per la chiesa dei pedofili che carica sulle spalle dei gay tutte le colpe del mondo, per un sedicente scienziato che sputa sulla scienza attribuendo una fuga radioattiva di proporzioni immani e tutte le catastrofi a una presunta “voce paterna della bontà” del suo dio.
Ti corichi così, con quel senso di soffocamento, di rabbia e di impotenza, e tutto si fonde e confonde in un magma indistinto. Ma ieri, al momento di spegnere la luce, da quel mare di rabbia e notizie, è emerso il volto bendato e ferito di Vittorio Arrigoni. E’ stato un attimo, un lampo quello che mi è passato davanti agli occhi, e una certezza: non un superstizioso presentimento, ma una consapevolezza carica di angoscia. “Farà la fine di Enzo Baldoni”, mi sono detta. E sono rimasta per tutta la notte turbata, a risentire quella frase pronunciata fra me e me. Fino al primo gr del mattino.
Trenta ore gli avevano dato e non ne hanno aspettate nemmeno dodici. Forse sono bastati quei “passi” annunciati (e forse solo annunciati) dal nostro Ministero degli Esteri ad accelerare l’esecuzione, a fare più danno. Oggi come allora, ai tempi dell’uccisione di Baldoni (rapito e assassinato nel 2004, nel corso della guerra in Iraq), alla guida della Farnesina c’è l’inutile Franco Frattini: incapace persino di farsi restituire in tempi accettabili un corpo senza vita. Lo stesso Frattini che un anno fa esatto, quando in Afghanistan furono sequestrati i volontari di Emergency, tentò di farli passare per terroristi.
Ora forse Frattini ci dirà che anche Vittorio Arrigoni non si sa bene cosa ci facesse nella Striscia di Gaza e tenterà di farci credere che se l’è cercata. Come Peppino Impastato, infangato per anni, accusato di essere saltato in aria mentre preparava un attentato, invece ucciso dalla mafia e da uno Stato complice.
La storia si ripete. E la rabbia di fronte alle ingiustizie pure. Forse perché quelli come noi sono ancora capaci di restare umani, come ci incitava a fare Arrigoni alla fine di ogni suo articolo.

sabato 9 aprile 2011

Associazione culturale Coppola e marranzano

Quand’ero piccola, nelle nostre famiglie borghesi e con la puzza sotto il naso, con i bambini non si parlava in dialetto. I grandi magari fra di loro, soprattutto quando erano in cucina a perpetuare una tradizione secolare, con gli stessi gesti e gli stessi ingredienti, usavano il dialetto, il registro linguistico della familiarità, ma davanti a noi abbassavano la voce e a noi si rivolgevano in italiano. Anzi (e la cosa mi faceva molto ridere), c’era una vecchia zia, abituata a parlare in dialetto, che usava l’italiano per parlare con noi bambini e con i gatti. Con i nostri, però: con i suoi e quando era a casa sua, nel suo paese, parlava in dialetto. Gatti (e bimbi) da compagnia quelli di città; gatti lavoratori i suoi, che servivano a cacciare i topi.
In fondo erano passati pochi anni dalla fine della guerra e forse quel bisogno di italiano era – soprattutto per i siciliani – un bisogno di riscatto, di darsi una possibilità, di sentirsi italiani come gli altri italiani che continuavano ad emarginare i nostri conterranei, i “terroni”, al solo sentirne l’accento ed era anche però un sentimento vero di italianità che in quel momento coincideva pure con il ruolo unificatore e didattico (dal maestro Manzi ai grandi sceneggiati dei capolavori della letteratura) detenuto dalla televisione.
Io il dialetto lo ascoltavo (non dico che fosse severamente vietato parlarlo, ma non c’è dubbio che fosse quasi un tabù), ma iniziai a usarlo soltanto nell’adolescenza, cominciando a fare politica, andando nei quartieri popolari a parlare con le donne e recandomi nelle fabbriche a parlare con gli operai: stavo – e sono sempre stata - dalla parte loro, dalla parte delle donne e dalla parte dei lavoratori, dalla parte di quelli che non avevano avuto la fortuna di studiare, volevo essere come loro, volevo entrare nella loro pelle, volevo che non mi vedessero come un corpo estraneo, e – lo confesso – il dialetto mi piace da morire, trovo che alcune espressioni del siciliano siano geniali e altre di una poeticità che non basta un vocabolario intero a tradurle in italiano e soprattutto a trasmettere la stessa vibrazione. Vi faccio un esempio, il primo che mi viene in mente e che mi dà un’emozione impagabile: aiu na addinedda nto cori. Ho una gallinella nel cuore. Sta a indicare, appunto, un’emozione, l’ansia, il cuore che ti batte forte e lo stomaco in subbuglio per un esame importante all’università, per un incontro con il tuo grande amore, per l’attesa di un risultato elettorale che premierà un tuo compagno di partito (un’èra geologica fa, quando i comunisti erano in Parlamento e quando il Parlamento era ancora un’istituzione rispettabile). La senti la gallinella che starnazza saltando qua e là sul tuo cuore e invadendoti il petto, senti le sue ali che sbattono dentro di te, ma non la puoi tradurre quella frase e, se non avete mai provato quella sensazione, potrei rimanere ore ad aggiungere vocaboli su vocaboli senza riuscire a spiegarvi di che si tratta.
Io con mio figlio, per consuetudine familiare, ho sempre parlato in italiano, ma non gli ho mai lesinato il dialetto. Il siciliano mi piace (come mi piacciono tutti gli altri dialetti e mi piace moltissimo ascoltarli, impararne le espressioni, scoprire con il mio similitudini e differenze), ma mi sembra assolutamente demenziale questo disegno di legge presentato all’Assemblea regionale siciliana dal leghista de noantri Nicola D’Agostino, esponente – ça va sans dire – dell’Mpa dello sgovernatore Raffaele Lombardo, e approvato all’unanimità dalla Commissione Cultura del cosiddetto “parlamento” siciliano popolata da personaggi di destra che, seguendo il principio dei vasi comunicanti, vengono eletti nel Pdl e passano all’Mpa; si candidano con l’Mpa e si ritrovano ai Popolari Italia domani; stanno in lista nel partito di Berlusconi e si trasformano in Futuro e Libertà o Forza del Sud; si fanno eleggere spacciandosi per centrosinistra e kafkianamente si tramutano nello scarafaggio autonomista senza nemmeno necessità di cambiare sigla (Pd si presta benissimo ad aggiungere qualunque lettera: Pds, partito dei servi; Pdz, partito degli zerbini; Pdr, partito dei rinnegati, Pdp, partito dei parassiti…et coetera pantoufle); qualcuno addirittura eletto con Lombardo si iscrive al gruppo “Udc verso il partito della Nazione”, fascistissimamente con la N maiuscola, e intanto vota “all’unanimità” per l’insegnamento della “lingua siciliana”, ulteriore passo verso lo sbrindellamento della nazione. Tutti fungibili, comunque. E tutti insieme appassionatamente a sancire il nostro isolamento, con la benedizione del separatista Lombardo, campione di clientele e frequentatore-di-boss-ma-solo-per-ragioni-politiche (nel senso dei pacchetti di voti) e dell’assessore regionale all’Istruzione, Mario Centorrino, esponente del Pds-Pdz-Pdr-Pdp, che invece di occuparsi dei gravissimi tagli della Gelmini che colpiranno in maniera particolare la Sicilia, per lodare il ddl D’Agostino si profonde in una serie di cazzate e parole vuote che val la pena di riportare per rendersi conto da soli. Intanto il disegno di legge viene definito “opportuno e tempestivo”, chissà perché e “tempestivo” rispetto a che. Gli scappava? Non c’erano altre priorità? Che so, per esempio, creare posti di lavoro e fare di tutto perché non lo perdano gli operai della Fiat di Termini Imerese. Boh! E poi sentite questo capolavoro di aria fritta: “si viene così a realizzare, sotto un profilo legislativo, uno dei punti programmatici della politica scolastica di questo assessorato nel contesto dell’azione riformatrice del governo Lombardo. Il modulo D’Agostino, infatti, non riguarda, se non all’interno di una narrazione più complessa, l’insegnamento del dialetto, ma piuttosto quello della storia della Sicilia, della sua letteratura, della sua lingua. Inoltre sarà presto integrato dalla proposta di altri moduli didattici così da completare il ‘pacchetto’ affidato dalla legge Moratti sull’autonomia della Regione”. E figurati se mancava la “narrazione”, termine di moda che piace tanto e che significa solo che ci stanno prendendo per il culo. Però intanto ci raccontano le favole, così non ce ne accorgiamo.
Ora, io per esempio è proprio all’assessore Centorrino che vorrei ricordare come di solito per lingua si intenda quella di un Paese intero (e, anzi, secondo qualcuno “una lingua è un dialetto con un esercito e una marina militare”; a meno che non sia proprio a questo che mira lo sgovernatore della Sicilia: tanto qui i mitra – con i quali Lombardo avrebbe voluto accogliere gli immigrati – e i kalashnikov ci sono già) mentre il termine dialetto è circoscritto a una regione. Ed è proprio all’assessore Centorrino che vorrei chiedere come intendano organizzarsi, a chi intendano affidare l’insegnamento dato che gli insegnanti li stanno mandando tutti a casa. Che fanno, licenziano gli insegnanti di sostegno per i ragazzini disabili e trovano i soldi per pagare quelli che insegneranno il dialetto? O forse licenziano quelli di Inglese (visto che sembra che l’analfabeta alla guida del Ministero dell’Istruzione si stia accanendo proprio su questi ultimi), che è meno piacevole ma più utile del siciliano per farsi capire nel mondo. Oppure l’idea è quella di affidare la formazione ai tanti enti fabbrica-voti. Mi aspetto di vedere spuntare come funghi nuovi enti di formazione e vedere affissi sui muri i loro manifesti: “Associazione culturale coppola e marranzano: corso per 15 insegnanti di dialetto siciliano – variante palermitana –, interamente finanziato dalla Regione, docenti madrelingua, sbocco professionale immediato...”. Ripetuto per la variante catanese, quella del centro dell’Isola, la messinese e così via.
E poi, sempre a Centorrino e al fiero Lombardo – che parla di “tesoro inestimabile da salvaguardare” ma non sembra preoccuparsi dell’abusivismo edilizio nelle zone archeologiche o della cementificazione delle coste -, vorrei chiedere: ma ci vanno in giro fra la gente, lo sentono come parlano i ragazzini, li leggono i giornali, qualcuno gliele riferisce le notizie di agenzia? No, perché, se non lo sapessero, li informo che qualche mese fa la Commissione europea ci ha comunicato che oltre il 34% dei quindicenni siciliani (dato che sale al 43, se si parla solo dei maschi) è semianalfabeta, non è capace di leggere e di capire quello che legge. E non è colpa degli insegnanti, che combattono e fanno i salti mortali fra un futuro da precari e il senso di impotenza che li pervade di fronte a questi ragazzi vittime di una politica che li vuole acquirenti dei centri commerciali e degli outlet perché se non sei griffato non sei, disposti a tutto tranne che a studiare, e di una televisione – strumento di quella politica – che ha capovolto il suo ruolo originario divenendo diseducatrice e artefice dell’impoverimento linguistico con conseguente riduzione del numero di parole conosciute (per non parlare dei tempi verbali) a occhio e croce a un massimo di trecento, forse meno. Ricordate Dario Fo? “L’operaio conosce trecento parole, il padrone mille per questo lui è il padrone”. E per questo il padrone continuerà a fare in modo che l’operaio continui a conoscere sempre e soltanto un massimo di trecento parole. Li informo anche, i due entusiasti, che da qualche tempo i giovani – non solo i cervelli – hanno ripreso ad emigrare dalla Sicilia e se non sanno nemmeno l’italiano (e la storia) il destino che li aspetta è ancora una volta il lavoro nelle miniere del Belgio. Oppure un vestito gessato e un paio di scarpe con le ghette. Rientrando in Italia, potranno così assicurare ai loro figli un posto nell’esercito siciliano: i mitra li fornisce Lombardo.
Per finire: nella sua relazione sul ddl il “deputato proponente” D’Agostino spiega che l’obiettivo è di “ridare dignità alla Sicilia ed ai siciliani”. Non ho nemmeno voglia di commentare, anche perché mi ripeterei. Comunque, la dignità, per esempio, è accedere a un posto di lavoro per concorso dopo aver studiato e non per raccomandazione o per clientela. Comincino da questo – eliminando il problema alla radice e cioè togliendosi dai coglioni – Lombardo e il suo esercito mercenario di indipendentisti, separatisti, autonomisti, centristi, destri e fintisinistri che costruiscono le loro fortune politiche sulla disperazione della gente, elargendo surrogati di posti di lavoro come favori. Dopo, solo dopo, quando si saranno ripristinate le condizioni minime del vivere civile – il diritto allo studio, il diritto al lavoro, il diritto a una formazione qualificata – potremo permetterci il lusso di affiancare il dialetto siciliano alla lingua italiana.

giovedì 7 aprile 2011

Fora dai ball

Ci sono due notizie (e forse ne aggiungerò una terza), uscite in questi giorni, che mi fanno pensare a un “disegno” del governo Berlusconi: una sorta di epurazione per lasciare in giro soltanto ignoranti, spettatori di soap-operas o sit-com e seguaci di tg senza notizie (che sembra un ossimoro, ma in quest’Italia all’incontrario non ci si stupisce più di niente) da manipolare a piacimento.
La prima notizia – che ormai non è più una notizia, perché ci siamo abituati, e questa forse è la cosa più spaventosa - è che anche il prossimo anno scolastico (il terzo consecutivo) sarà caratterizzato dai tagli voluti dal ministro Gelmini per favorire le scuole dei preti e i diplomifici. E forse prima o poi i diplomi li venderanno nei centri commerciali: si troveranno negli scaffali, fra gli assorbenti e i kleenex, al posto della carta igienica. Tanto, per fare carriera (nel senso della strada), cioè – secondo i loro parametri - per diventare parlamentare, è sufficiente essere zoccola. Così come per essere zoccola (che oggi sembra la massima aspirazione possibile) è sufficiente essere parlamentare. E’ reversibile. Ma torniamo ai numeri di quei tagli, cioè l’aspetto più raccapricciante: in tutta Italia la scuola pubblica dovrà fare a meno di 19.700 insegnanti e la regione più penalizzata – secondo quanto reso noto dalla Flc Cgil – sarà la Sicilia, dove resteranno a casa più di 2.500 docenti, compresi quelli della scuola primaria e dell’infanzia. Vuol dire – come ha detto il segretario della Flc siciliana, Giusto Scozzaro – che “vengono meno le condizioni minime per garantire il diritto allo studio”, ma vuol dire anche che le giovani mamme, già costrette a fare i conti con i gravi problemi di disoccupazione dell’Isola, non potranno nemmeno provare a cercarlo un lavoro se non potranno mandare i bimbi al nido e dovranno, come sempre, occuparsene in prima persona. “I fimmini, a casa”, come si diceva una volta (e si continua a pensare tuttora) qui da noi.
E, a proposito di disoccupazione, la seconda notizia (anche questa, ormai, una non notizia, ma una giaculatoria che si ripete stancamente e con rassegnazione) è che in Italia la disoccupazione giovanile tocca il tasso altissimo del 30% - mentre Berlusconi si occupa di scrivere leggi per salvarsi dalle leggi e non un solo provvedimento è stato adottato dal suo governo per incentivare il lavoro – con una punta insostenibile del 43% per la Sicilia. Altro che tsunami dell’emigrazione! Lo tsunami dell’emigrazione non è (solo) quello dei tunisini talmente disperati da scegliere per il loro approdo la più disperata delle regioni italiane, ma quello dei giovani italiani – e siciliani in particolare – obbligati ad andarsene: giovani ricercatori universitari, giovani docenti, giovani registi, giovani letterati, giovani qualificati, con la prima e anche la seconda laurea, giovani colti, teste pensanti, che questo governo vuole – proprio come gli immigrati – “fora dai ball”. Fosse per loro, per questo governo, li imbarcherebbero tutti, gli uni e gli altri, e li farebbero scaricare in mare come un carico di pesce marcio.
Il “disegno”, nell’uno e nell’altro caso, è chiaro: meno scuola pubblica, meno insegnamento qualificato, meno studenti preparati, meno laureati teste pensanti, meno figli di operai che “pretendono” (secondo Berlusconi e i padroni) di diventare ingegneri o medici, meno gente che vota dall’altra parte, meno oppositori.
E chissà che non sia finalizzata anche a questa epurazione (ed ecco la terza notizia) la presentazione di un disegno di legge per cancellare la disposizione transitoria e finale della Costituzione italiana che vieta la ricostituzione del partito fascista. Così, passo dopo passo, prima ricostituiscono il partito fascista, poi lo dotano di olio di ricino e riprendono con tutto il loro repertorio. Ci manca solo che facciano un altro pacchetto di leggi razziali, ed è fatta.
Anzi, già che ci sono, potrebbero anche decidere una bella sterilizzazione di massa, come si fa con i cani randagi e i piccioni di piazza San Marco, per impedire ai “comunisti” (termine che comprende dai neri ai magistrati, agli studenti universitari e a tutti quelli il cui cervello non si è ancora atrofizzato) di riprodursi. Ma sì, tutti fora dai ball: che loro possano continuare nel loro perenne carnevale di Rio e calpestare ogni tipo di regola come fosse uva da mosto.