giovedì 27 aprile 2017

Forse?

Nel 2002 - un anno dopo l’inchiesta di Repubblica che svelò il naufragio di quasi 300 migranti avvenuto nel 1996 - Corrado Scala, comandante del peschereccio “Cicho” di Portopalo di Capo Passero, mentre si trovava in mare salvò altre 151 persone che rischiavano di andare a ingrossare le fila di quel gigantesco cimitero in fondo al Mar Mediterraneo. Risultato? Premi, encomi, riconoscimenti? Macché. La procura di Modica lo iscrisse nel registro degli indagati per favoreggiamento dell’immigrazione clandestina in concorso con i cinque uomini del suo equipaggio e, come se non bastasse, sequestrò il peschereccio: lo strumento di lavoro di quei sei uomini che dava da mangiare ad altrettante famiglie.
Meno di un mese prima il Parlamento aveva varato la famigerata legge Bossi-Fini, frutto di odio razziale più che di necessità di regolamentazione. E così i salvatori di vite umane divennero delinquenti, forse per un eccesso di zelo di un magistrato nei confronti di una maggioranza di governo in carica.
C’è un forse e un sospetto di eccesso di zelo nei confronti di una futuribile maggioranza di governo anche nella storia che oggi a Catania trasforma in delinquenti le Ong che salvano i migranti da morte certa.
Forse. Dice il procuratore Zuccaro, assecondando nei fatti la sete di voti razzisti del pentastellato Di Maio, che “forse” le Ong che salvano i migranti in mare sono d’accordo con i trafficanti libici. Specifica che forse “alcune” sono d’accordo con i trafficanti libici. E rilancia: potrebbe esserci dietro un piano per destabilizzare l’economia italiana. Potrebbe. «So di contatti», dice durante un’intervista ad Agorà, ma precisa: per avanzare un’ipotesi «dovrei in teoria prima fare degli accertamenti».
Dovrei? In teoria? Prima? Dobbiamo dedurne che “prima” di ricoprire di uno spesso strato di fango indiscriminatamente tutte le Ong, salvo poi metterci una pezza con un “forse” e derubricandole ad “alcune”, non ha letto carte, non ha intercettato conversazioni, non ha interrogato sospetti o persone informate sui fatti, insomma non ha indagato? Procuratore, “so di contatti, forse e potrebbe”, lo posso dire io – forse - che non sono nessuno; me ne vado al bar e comincio a dire che uno è cornuto o che un altro ha rubato le caramelle a un bambino o un altro ancora è amico di un boss. E non è detto che mi vada bene, perché magari qualcuno mi denuncia per calunnia e farebbe pure bene.
Uno che esercita la giustizia e dovrebbe – forse – essere migliore di tanti di noi e sicuramente più autorevole di noi, non dovrebbe pesare le parole mentre rilascia un’intervista invece di lanciarle in aria come fossero dadi? Perché il rischio è che le sue parole vengano prese per oro colato trasformando in delinquenti i tanti volontari che mettono a repentaglio la propria vita per salvare quella dei migranti. E questo fare di tutta l’erba un fascio, alimentando sfiducia e rancore, non fa bene nemmeno quando si parla di furbetti del cartellino, figurarsi quando in gioco ci sono vite umane.

Il procuratore il giorno del suo insediamento a Catania si è detto consapevole delle responsabilità che lo attendevano. Ecco: continui ad essere consapevole e responsabile e non dimentichi che un magistrato, il capo di una Procura importante, non è e non deve essere come il tizio che passa per strada e, intervistato all’improvviso, dice la prima cosa che gli passa per la testa giusto per compiacere amici e parenti che lo guardano in tv. E non dimentichi che per la legge del mare non si nega l’aiuto agli esseri umani in difficoltà. Oppure ci toccherà ancora sentire le parole di Corrado Scala, indagato di umanità: «Cosa dovrò fare la prossima volta che incrocerò una barca in difficoltà? Dovrò soccorrerla o chiudere gli occhi?»

mercoledì 5 aprile 2017

Il nome del padre

Vorrei parlarvi di Maria Rita. No, non è del tutto vero: vorrei parlare con Maria Rita. Però non c’è più tempo.
Maria Rita Lo Giudice, figlia di boss e nipote di boss – uno in galera, il secondo capo dei capi della zona, il terzo pentito -, domenica mattina si è alzata presto come se dovesse andare all’Università, pochi mesi dopo una laurea triennale in Economia con il massimo dei voti, ha aperto la finestra della sua stanza e si è lanciata: suicida perché si vergognava di appartenere a una famiglia di ‘ndrangheta. Così sembra abbiano riferito il suo ragazzo e alcuni amici: quel cognome, che in Calabria conoscono tutti e si identifica con una ‘ndrina, era un peso impossibile da sostenere. Come uno di quei massi enormi che di tanto in tanto si staccano da un costone e precipitano sulla strada affossando l’asfalto e bloccando la circolazione per settimane, mesi, anni finché qualcuno non si decide a rimuoverli e forse non succede mai. E intanto la gente è costretta a sfidare la sorte passandoci accanto, oppure a cambiare strada.
Ma qui c’è qualcosa che non quadra, perché Maria Rita la sua strada alternativa se l’era costruita, una strada dritta, senza intoppi, inciampi, avvallamenti: tutti in questi giorni parlano della sua carriera universitaria e tutti riferiscono che non aveva mai cercato scappatoie e vie traverse, che ogni esame lo aveva fatto puntando sulle sue sole forze, che era brava, che aveva già cominciato il corso per la laurea magistrale.
Ecco, se avessi potuto parlarle avrei voluto dirle delle cose semplici: che, per esempio, avrebbe potuto scegliere di andare a fare la specialistica fuori e liberarsi da quel nome infamante; che, per esempio, avrebbe potuto andare all’anagrafe e dare uno schiaffo alla più patriarcale delle famiglie, quella mafiosa, cancellando il nome del padre; che, per esempio, non era lei a doversi vergognare, ma suo padre e i suoi zii e tutta la famiglia che a Reggio Calabria non si è fatta mancare niente del campionario criminale, dalle rapine al traffico di armi passando per gli attentati ai giudici.
La stessa famiglia che adesso chiede “un’autopsia completa”, precisando che la ragazza non aveva mai fatto uso di droghe ma che la sera prima di uccidersi era strana. Quasi a volere insinuare che qualcuno l’abbia uccisa o spinta al suicidio, pur di non ammettere le proprie colpe.
E sembra che preferirebbero sapere che l’hanno ammazzata piuttosto che ammettere che lei non ne voleva sapere più di loro, anche a costo di morire.

Avrei voluto parlare con Maria Rita: per dirle che avrebbe dovuto essere lei a cancellare quel cognome di merda e non avrebbe dovuto permettere a quel cognome di merda di cancellarla.