giovedì 15 settembre 2016

Terzo mondo

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Alessandro Bozzo aveva trent’anni, Abdesselem el Danaf ne aveva 53 e cinque figli. Uno faceva il giornalista, l’altro l’operaio. Apparentemente niente in comune, fra l’altro abitavano molto distante: uno a Cosenza, l’altro a Piacenza. Eppure una cosa in comune c’è: entrambi sono stati ammazzati dai loro padroni.
Con modalità diverse, ma le loro morti hanno dei responsabili ben precisi.
Alessandro si è suicidato tre anni fa perché il padrone, l’editore di “Calabria Ora”, Piero Citrigno, lo aveva costretto a dimettersi e ad accettare un contratto a tempo determinato. Alessandro sapeva che questo non poteva preludere a nulla di buono, ha preso una pistola e si è sparato: perché sapeva già che il contratto alla scadenza non sarebbe stato rinnovato; perché sapeva che al suo editore quelli come lui che scrivono senza timori reverenziali per nessuno fanno venire l’orticaria e bisogna farli fuori in qualunque modo; perché chissà quanti suoi colleghi aveva già visto, licenziati, trasformarsi in morti viventi. Tanto valeva farla finita prima. Il suo assassino, il suo editore, un paio di giorni fa è stato condannato per violenza privata a soli quattro mesi di reclusione. Difendeva il suo lavoro Alessandro, ed è stato ammazzato.
Lo difendeva anche Abdel la notte scorsa, in presidio davanti ai cancelli della Seam indetto dall’Usb dopo che l’azienda aveva disatteso l’impegno alla stabilizzazione dei precari. Ed è stato ammazzato. Un capo ha dato ordine al conducente di un camion di forzare il picchetto, dare gas e partire, come se invece di uomini là ci fossero stati sassi da superare con un colpo deciso di acceleratore. Tutto visto e documentato dai sindacalisti presenti. Non è difficile pensare che anche stavolta il padrone assassino la farà franca: dirà che non c’era, che ha fatto tutto un dipendente troppo solerte e pure a lui forse daranno quattro mesi di reclusione, pena sospesa e bella vita inclusa, sulla pelle dei lavoratori.
Sembra di essere tornati a Zola, lo sciopero dei minatori, l’esercito che spara sui lavoratori; sembra che il crimine sia diventato lottare per i diritti e non uccidere gli operai che lottano per i loro diritti. E non siamo in Bangladesh dove una fabbrica va in fiamme e tutti noi li guardiamo dall’alto in basso perché loro sono terzo mondo e noi no: siamo in Italia, dove al governo c’è un partito che si chiama democratico ma odia il popolo, dove i diritti sono stati cancellati, dove se ti ribelli il padrone ti ammazza. Tanto sa che resterà impunito. Siamo noi il terzo mondo.

martedì 13 settembre 2016

Sciascia, Albinati e le storie complicate

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Perché 1294 (milleduecentonovantaquattro!) pagine? Perché, Albinati, perché, PERCHÉ? Ne parlavo con mio figlio e, per sintetizzare (!), gli ho spiegato che inquadra il contesto del delitto del Circeo, anni Settanta, femminismo, liberazione dei costumi, borghesia fasciocattolica, niente femmine a scuola (“La scuola cattolica”, appunto, il titolo del libro di Edoardo Albinati). Ha avvicinato i polpastrelli di pollice e indice fino a lasciare uno spazio minimo e ha chiosato: “Il contesto? Sciascia. Cinquanta pagine”. Eh, già, ma Sciascia era Sciascia.
Ora, io non ti dico che ce la dovevi raccontare in cinquanta pagine o poco più, ma che bisogno c’era di raccontarci anche le tue seghe (che, in quanto tali, sono una cosa che si fa in solitudine, a meno di non essere un maniaco frequentatore dei giardinetti) e le tue scopate?
Ti prometto che lo finisco, perché raramente lascio un libro a metà a meno che non faccia proprio cacare, e il tuo oggettivamente è scritto bene (a parte certi pipponi interminabili che ci potevi risparmiare, ché – te l’ho già detto – sono cose che si fanno in privato), e poi ho già superato il 70% (confesso, a costo di far storcere il naso a qualcuno: leggo dal kindle, non ce l’avrei fatta a tenere in mano una delle torri gemelle, soprattutto la sera a letto quando casco dal sonno) e a questo punto è una scommessa con me stessa per cercare di capire perché le cose che ci hai detto non ce le potevi dire in seicento pagine. Lascio sulla tua coscienza – che, data la tua formazione cattolica, dovrebbe essere in piena attività – il peso di tutti i libri che non ho letto nell’ultimo mese dovendo dedicarmi allo studio matto e disperatissimo del tuo.
Disperatissimo perché penso che, per quanto in maniera inconscia e pur condannando, tu una qualche giustificazione sociologica ai crimini del tuo compagno di scuola e dei suoi compari la stia cercando.
Disperatissimo perché, per quanto tu ti definisca uno dei pochi “comunisti” della tua scuola (più per moda che per reale adesione?), noto invece un certo compiacimento del tuo appartenere a una famiglia borghese e a guardare gli altri da sopra in giù.
Disperatissimo perché, malgrado i tuoi sforzi e le tue letture (che so essere stati immensi e giustificano il decennio di stesura del libro e ti fanno onore), io non credo che tu sia riuscito a metabolizzare e a interiorizzare fino in fondo il femminismo. Se non quello radical-chic dei borghesi.
Però non dispero: lo leggo fino alla fine, promesso, e poi ne riparliamo. Disponibile a rivedere le mie impressioni. E comunque: che due palle!

P.S.: Credo che, quando e se mai riuscirò a finire questo libro, mi andrò a rileggere “Una storia semplice” (complicatissima): 70 pagine.

Menzogna con avvitamento

 
Mi dispiace che lei stia male e le faccio i miei auguri di pronta guarigione. Del resto, se l’ha fatto Trump posso farlo pure io. Per quanto, non penso che lei si sia preoccupata molto per la gente che soffriva e soffre per le vostre schifose guerre coloniali ed esportazioni di democrazia.
No, devo ammetterlo: non mi importa molto della sua salute. Diciamo che la mia è stata una bugia a fin di bene o di cortesia. Non mi sembra, invece, che le bugie dell’avvocata Rodham siano a fin di bene. A partire dal cognome che indossa per fare carriera politica: quello di suo marito. Ad arrivare a quella sul suo stato di salute, che ha cercato di nascondere pur di raggiungere il massimo obiettivo del potere e che si è svelato da solo, malgrado la sua volontà, facendola precipitare come un budino con poco amido poco prima di infilarsi in macchina.
Del resto sembra che le bugie siano il marchio di fabbrica della famiglia: al tempo Bill, messo alle strette, ammise di avere avuto una “relazione fisica impropria” (facendo legittimamente incazzare la moglie e il Paese intero). Insomma, come se oggi Hillay ci dicesse di avere una radiografia impropria dei suoi polmoni. Non vorrei dirglielo, ma sempre cazzi sono: amari.
Ma confesso che sono un po’ invidiosa. Perché da quel che si racconta gli americani – che non godono della mia stima, ma qualche riconoscimento in questi casi lo meritano – di solito di fronte alle bugie dei politici s’incazzano e ne sa qualcosa Richard Nixon. No, noi no, come direbbe Claudio Baglioni. Noi – e così vi faccio pure la rima – siamo dei cazzoni. O dei coglioni, fate voi. E più ci prendono per il culo e più ci piace. Metti Matteo Renzi: e i sì e i no, e se vincono i no me ne vado, anzi no se vincono i no non me ne vado più, e faccio le modifiche all’Italicum e col cazzo che faccio le modifiche all’Italicum, e la buona scuola che è una “fitinzia” come si dice dalle mie parti, e il jobs act che serve a licenziare ma lui ti dice che serve ad assumere e tu ci credi, e le elezioni che forse si fanno e forse non si fanno, e il partito che lo chiama di sinistra e invece è di destra (e infatti forse le elezioni non si faranno mai più). O metti Paola Muraro, che ha detto di non essere indagata. Poi si è scoperto che era indagata e quando le hanno chiesto perché non l’aveva detto, con triplo salto mortale carpiato della bugia, lei ha risposto che i giornalisti non le avevano chiesto se fosse indagata ma se avesse ricevuto l’avviso di garanzia. Io, se fossi la Raggi, le Olimpiadi le farei a Roma solo per fare partecipare la Muraro e prendermi il merito di avere introdotto la nuova disciplina olimpica della menzogna con avvitamento. Magari farei gareggiare Matteo nella stessa squadra. Con gli americani che ci guarderebbero con invidia per quanto siamo bravi a raccontare balle.
E noi – dopati dalla nascita - tutti sugli spalti ad applaudire: più menzogne ci raccontano e più siamo contenti. Non vorrei dirvelo, ma pure per noi sono cazzi. Amarissimi.

sabato 3 settembre 2016

Integralisti italici

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Ai funerali c’è sempre qualcuno che dice una battuta ironica e un altro che diventa paonazzo nel tentativo di non ridere in maniera scomposta; ho visto gente ridere inebetita ai funerali di genitori molto amati. È un modo per esorcizzare la morte, persino la propria morte.
Quelli di Charlie Hebdo, i pochi che sono rimasti, l’anno scorso, subito dopo l’attentato alla loro redazione da parte di integralisti islamici, subito dopo essere stati ammazzati, hanno riso sulla loro stessa morte, per vincere la paura, per costringersi a raccattare brandelli di corpi disseminati qua e là, riattaccarseli alla meno peggio e ricominciare vivere. È un giornale satirico, la satira è il suo linguaggio, spesso fa un male cane e arriva al centro della questione, a volte non fa ridere come quando un cantautore che ha sempre scritto canzoni bellissime per un attimo perde la vena o uno scrittore da Nobel partorisce un romanzo che fa cacare. Li vogliamo lapidare per questo?
Quelli di Charlie Hebdo un paio di giorni fa hanno riso di nuovo sulla morte, sulla nostra morte questa volta, e hanno fatto una vignetta (oggettivamente brutta) sui terremotati del centro Italia che ha fatto incazzare il nostro piccolo mondo incapace di chiedersi se c’è vita non su Marte ma in un diametro che superi quello del proprio ombelico. Vorrei tentare un’esegesi di quella vignetta satirica – l’unico codice linguistico, forse è il caso di ripeterlo, per quanto possa fare male, che un giornale satirico abbia a disposizione –: quel disegno con i morti tipo sandwich e condimento “sauce tomate” non era satira contro i morti, ma contro i vivi che li hanno ammazzati. Messi a strati nelle case, nelle scuole, negli ospedali che avrebbero dovuto essere antisismici e antisismici non erano perché ci si sono presi le mazzette sulla costruzione di quegli edifici. A strati in quelle case, in quelle scuole, in quegli ospedali i morti di Amatrice e di Accumoli non ce li ha messi Charlie: ce li hanno messi politici e funzionari corrotti che hanno concesso le licenze edilizie e chi non ha mai attuato in maniera seria il piano nazionale per la prevenzione del rischio sismico. Ma noi italiani ce la prendiamo con Charlie. Che infatti ha dovuto replicare con un’altra vignetta e, visto che siamo scemi, ha dovuto spiegarci che le case agli italiani non le ha costruite Charlie, ma la mafia. Vogliamo dargli torto? In Italia non solo le case, ma le strade, i ponti, gli ospedali e persino le carceri e i tribunali vengono costruiti da mafiosi e paramafiosi, il cemento depotenziato è una nostra specialità come l’arancino per i siciliani e la bagna cauda per i piemontesi, e noi ce la prendiamo con Charlie? Charlie fa il suo mestiere, ride su tutto e se è il caso pure sulla morte; lo ha fatto per la propria, lo ha fatto per la nostra. E forse più che indignarci sui vignettisti che ancora una volta cercano di sconfiggere la paura attraverso la risata, dovremmo incazzarci con noi stessi quando diamo fiducia a politici che fanno affari con faccendieri, palazzinari e maneggioni. Quelli che ridevano sei anni fa dopo il terremoto dell’Aquila, pensando quanto ci avrebbero guadagnato, non  erano vignettisti ma trafficanti di denaro: fiumi di denaro con cui arricchirsi sulla morte degli altri. Eppure noi, da integralisti italici quali siamo, ci indigniamo con Charlie.