sabato 31 ottobre 2015

Inattivismo


Un giorno non troppo lontano probabilmente Paola diventerà una "inattiva" e ci racconteranno che in Italia c'è una disoccupata in meno. E' l'andazzo della propaganda di regime: le parole che acquisiscono un significato opposto a quello originario; la stampa - quasi tutta - che si fa strumento di un gigantesco inganno.
Ieri ci hanno detto con troni trionfalistici, come si conviene a una dittatura, che la disoccupazione è in calo. Titolo "sparato". Poi è venuto il resto: aumentano gli inattivi. Ma già l'attenzione del lettore/spettatore medio era altrove e quasi nessuno si è accorto che gli inattivi non sono un'altra categoria di lavoratori né tanto meno seguaci del dandismo, ma gente che non ci crede più.
Fino a qualche anno succedeva dopo una certa età e un certo numero di porte in faccia: ogni anno che si aggiungeva a quello in cui ti avevano detto che per quel posto di lavoro c'era un limite di età, significava un anno in meno di speranza. Finché la speranza non è diventata sottile come un foglio di carta velina e si è strappata al primo soffio di vento. I ragazzi di oggi sono precoci anche in questo: ci arrivano molto prima di noi a capire che è finita.
E Paola, che ha soltanto 28 anni, forse l'ha già capito. Altrimenti non avrebbe deciso di raccontare la sua storia a Facebook, quindi praticamente al mondo, come chi sa di non avere più nulla da perdere. O da trovare.
La sua storia è uguale a quella di tante donne che si sono presentate a un colloquio di lavoro: il padrone che fin dal primo momento ti manca di rispetto arrivando in ritardo e dandoti del tu - avendo già deciso di farti sua schiava -, a dispetto della tua professionalità e del numero di lingue parlate fluentemente, poi le domande sulla vita privata: marito, figli. Ma saranno cazzi suoi? E lei questo ha chiesto, ma molto più educatamente. Aggiungendo che si trattava di informazioni riservate che avrebbe preferito non dare e sentendosi dire che il colloquio era terminato, con tanto di questionario strappato platealmente in faccia. Lei ha reagito, ha chiesto se anche ai maschi viene fatta la stessa domanda, e ovviamente no, ha chiesto al tipo se gli interessasse conoscere le sue competenze, e ovviamente no. Probabilmente l'unica cosa che interessava al "dottor M. M." - come lo chiama Paola - era la carne fresca e l'aveva chiamata curandosi solo di controllare nel curriculum l'età e quasi certamente la foto, in attesa di verificare prima di ogni altra cosa la sua potenziale "disponibilità". Non a lavorare indefessamente (si sa che le donne lo fanno), ma forse a farsi dare una bottarella.
E' possibile che Paola, quando ha deciso di raccontare su Facebook la sua storia poi finita sui giornali, abbia fatto un po' di conti e abbia valutato il rischio di renderla pubblica. Chi se la prende una che rivendica i propri diritti? E poi: "max 28 anni". E' già tempo di dedicarsi all'inattivismo.

lunedì 19 ottobre 2015

Cicero pro tele sua


Ai miei tempi il "bollo" tecnicamente si chiamava tassa di circolazione. Poi cominciarono a proliferare gli italici furbi che sostenevano di non usare la macchina e di tenerla sempre parcheggiata, messa lì, proprio sotto casa, fissata al suolo come fosse una fioriera: l'auto immobile. Sicché a un certo punto, per farla pagare a tutti (non prevedendo l'evasione di necessità di questi anni di crisi, più forte della paura di essere beccati), le cambiarono nome: tassa di possesso. Insomma: hai l'auto, paghi il bollo. Poi quello che ci fai, se la usi per pomiciare o per fare le rapine, sono fatti tuoi. Un'auto, un bollo; due auto, due bolli. E così via. Non solo: più è grande e più paghi. Principio elementare di equità fiscale, direi. Ma a quei tempi il brufoloso che vuole togliere la tassa sulla prima villa forse non era neanche nato e siccome non è neppure tanto intelligente non può capire. Oltretutto, lo pagano per fingere di non capire.
Mettiamo la storia del canone Rai che lui vuole fare pagare in bolletta a tutti nella stessa misura: a chi ha un solo televisore in soggiorno e a chi ne ha uno per ogni stanza, a chi ne ha uno gigantesco nella prima villa nella villa al mare nella villa in campagna e persino nello yacht, a chi lo tiene acceso tutto il giorno e a chi lo accende il minimo indispensabile.
Ecco, prendete me, per esempio. Non vorrei essere accusata di fare Cicero pro tele sua o, peggio, del reato di interesse privato in atti di blog, ma io perché devo pagare quanto quello che accende la tv all'alba e la spegne alle due di notte, oppure di uno che ha tanti televisori che nemmeno in un negozio di elettrodomestici? Io l'accendo all'una e mezza per vedere il tg dell'ora di pranzo e spengo; la riaccendo alle otto di sera per vedere il tg dell'ora di cena, guardo qualcosa e, qualunque cosa sia, esattamente due ore dopo mi spengo; e un secondo prima lo spengo. E perché io, che ho un televisore di dimensioni normali, dovrei pagare quanto uno che ha un televisore a tutta parete che manco al cinema? Soprattutto: perché io e i milioni di io disoccupati, pensionati, sottopagati, pagati in nero, poveri insomma, dovremmo pagare quanto lo stronzo con il villone e lo yacht comprati evadendo le tasse?

Il brufoloso dice che abbassare le tasse non è di destra né di sinistra, ma è "giusto". Pagare il canone in base al reddito sarebbe giusto. E pagarlo in base al consumo sarebbe un modo, per esempio, per spingere la gente a fare altro, andare al cinema, leggere un libro, andare a teatro. Certo, questo per voi comporterebbe il rischio di non essere votati. Non è forse per instupidire gli italiani e raccogliere il loro consenso che Berlusconi ha inventato la tv? Ma, già, tanto Renzi è andato oltre B. per arrivare ad M. e ormai in Italia non si vota più. "A coloro che pretenderebbero di fermarci con carte o parole, noi risponderemo col motto eroico delle prime squadre d'azione ed andremo contro chiunque, di qualsiasi colore, tentasse di traversarci la strada". *

 

* Dal discorso di Mussolini ad Eboli, il 6 luglio 1935, passando in rassegna quattro battaglioni di camicie nere. Confrontare con: "Dialogo? Non ci faremo fermare da nessuno". Matteo Renzi a Palazzo Chigi il 6 agosto 2015 passando in rassegna numerosi battaglioni di giornalisti della Stefani.


giovedì 8 ottobre 2015

Il messaggio nella bottiglia

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"Una donna che denuncia per stalking viene spesso tacitamente considerata la vera responsabile delle persecuzioni che subisce. Quando chi ha il dovere di portare avanti seriamente le indagini capirà che non è così forse le cose cambieranno, ma ci credo poco".
Uno dei tanti messaggi, si dirà (comunque mai abbastanza per attirare l'attenzione su una mattanza senza fine), pubblicati ieri su Facebook da molte donne e anche da qualche uomo dopo la notizia dell'uccisione di Giordana Di Stefano, una ragazzina di vent'anni, una mamma bambina, scannata come un animale al macello dal suo ex, animale rabbioso che non voleva mollare la sua preda. Un messaggio - si dirà - di analisi della situazione, scritto in maniera asettica e razionale; un messaggio di denuncia, politico, distaccato come (forse) si conviene a un discorso che dovrebbe toccare tutti e che riorganizza in pensiero il raccapriccio universale. Ma c'è una frase, l'ultima, che non ho ancora riportato, che di quelle considerazioni generali fa un messaggio nella bottiglia: "E parlo per esperienza personale".
Quel messaggio nella bottiglia lo ha lanciato nel grande mare aperto di Facebook una mia amica. Anche lei, come Giordana, da tempo vive in quello stato di strangolamento dovuto a telefonate, messaggi, pedinamenti, minacce, quello che un'altra donna vittima di violenza ha definito di "pre-morte", lo stalking che diventa morte civile quando ci aggiungi l'ostilità della famiglia e la sottovalutazione - se non la derisione - di inquirenti, avvocati e presunti esperti.
Io non so cosa fare per la mia amica. Le ho consigliato di andare al Centro antiviolenza e la incito continuamente a non mollare, ma di più non so fare, non posso fare, se non farmi carico della sua angoscia come se fosse mia.
Altri dovrebbero fare, ma non fanno. I giornalisti, per esempio, che dovrebbero smetterla di parlare di omicidio come hanno fatto anche in questa occasione, e soprattutto chi fa e chi applica (o non applica) le leggi. Non sono andata e non andrò sulla pagina Facebook di Giordana, non mi piace farlo, mi ricorda il voyerismo morboso di quelli che intasano l'autostrada dopo un incidente o di quelli che si imbucano ai funerali violentando il dolore altrui, ma so che in questi casi giornalisticamente è doveroso farlo. E infatti molti giornalisti lo hanno fatto, riportando le parole di Giordana: delusione, disillusione, accuse, richieste di aiuto. Giordana il suo messaggio nella bottiglia lo aveva lanciato ripetutamente in diversi post, ma i giornalisti - anche quelli animati dalle migliori intenzioni - non hanno potuto far altro che riferire quelle parole quando non c'era più niente da fare. Da quei messaggi e dalle interviste successive al femminicidio si deduce che la giustizia andava a passo di lumaca e che gli amici non avevano capito la portata della tragedia.
Oggi sentiamo che l'assassino, in lacrime, parla di raptus, dice che non voleva ucciderla e che aveva paura che lei gli portasse via la bimba. Eh, no, basta: non c'è raptus perché altrimenti non saresti tornato a casa a salutare tua madre e a cambiarti prima di partire per luoghi lontani; se non volevi ucciderla non ti portavi dietro un coltello; della tua bambina non te ne importa niente altrimenti non le avresti tolto in un colpo solo la madre e il padre.
Non andrò nemmeno a guardare il profilo del maschio femminicida, perché non voglio rischiare di leggere messaggi di vicinanza a lui e di comprensione nei suoi confronti che aumenterebbero la mia rabbia e il mio senso di impotenza. Quello che posso fare è condividere il messaggio nella bottiglia della mia amica, come ciascuna delle amiche di Giordana avrebbe dovuto fare con i suoi messaggi e come ciascuno è ancora in tempo a fare con i messaggi nella bottiglia delle amiche perseguitate dai loro ex. Prendeteli tutti questi messaggi che sembrano frasi buttate lì a caso, metteteli ciascuno in una bottiglia e lanciateli nel mare dei social, trascriveteli e portateli in caserma, in tribunale, in questura, fateli girare più che potete. Sono queste le cose che dovremmo fare diventare virali.
"Una donna che denuncia per stalking viene spesso tacitamente considerata la vera responsabile delle persecuzioni che subisce. Quando chi ha il dovere di portare avanti seriamente le indagini capirà che non è così forse le cose cambieranno, ma ci credo poco. E parlo per esperienza personale".

lunedì 5 ottobre 2015

La Sicilia in mongolfiera


Mio figlio ha cominciato a parlare in dialetto siciliano quando, ormai molti anni fa, si è trasferito a Roma per fare l'università. Credo che fosse il suo modo per non creare una frattura fra sé e la sua terra. Dall'Italia è passato in Spagna, ha imparato a parlare fluentemente altre lingue, ma la Sicilia e il siciliano erano sempre lì, nella sua testa, nelle cose che leggeva, nei lavori che faceva: lui ci infilava sempre la sua isola.  
Finché è tornato: determinato ad investire soldi, tempo, intelligenza e competenze. Lo ha fatto, ha lottato come un leone, lavorando dodici ore al giorno, facendosi imprenditore di se stesso; ha puntellato questa terra con le sue stesse braccia, ha dimostrato che se una cosa la vuoi, la puoi ottenere tenendo dritta la barra senza cercare vie traverse. Ma non è bastato. Mio figlio - metafora dei nostri figli educati all'onestà - non è bastato. A un certo punto è crollato tutto: l'idea di trovare interlocutori, la speranza di contribuire a cambiare la mentalità, la voglia (e l'illusione) di vedere rifiorire la sua regione e la sua città; poi è crollata l'autostrada Palermo-Catania, spezzando in due la Sicilia, con quello che ha significato in termini di danni alla produttività. E in quel momento la frattura fra lui e la sua terra, che aveva sempre cercato di evitare, è diventata insanabile.
Poi dicono che i ragazzi "scappano". Non scappano, non hanno niente di cui vergognarsi e da cui scappare questi ragazzi e questi giovani uomini: dovrebbero scappare e nascondersi per la vergogna quelli che li costringono ancora, come cento e più anni fa, ad andare a cercare fortuna fuori. Dovrebbero vergognarsi quelli che quando costruiscono mettono uno strato in meno di cemento per farci uscire i soldi della mazzetta, quelli che fanno i concorsi pilotati, quelli che si riempiono la bocca di lotta alla mafia e all'illegalità e poi nei loro partiti accolgono e candidano i boss con tutti parenti, stretti e acquisiti, portatori di pacchetti di voti che puzzano di merda.
Oggi la Sicilia non è più divisa in due: oggi è divisa in tre, praticamente più che un'isola ormai è un arcipelago, perché una frana ha interrotto l'autostrada Catania-Messina. Nella notte è venuto giù un pezzo di costone e non è fantascienza ipotizzare che le piogge dei giorni scorsi abbiano dato il colpo di grazia a un territorio indebolito da decenni di distruzione della natura per favorire la cementificazione selvaggia. Quando ci fu il crollo del pilone della Palermo-Catania i geologi dissero che da tempo segnalavano la situazione; oggi i tecnici del Consorzio autostrade siciliane, competenti per la Catania-Messina, dicono che stanno monitorando da tempo la situazione. E allora, scusate la domanda, ma perché cazzo non siete intervenuti prima, nell'uno e nell'altro caso, senza aspettare che la situazione diventasse irreversibile e che la gente fosse costretta ormai a spostarsi soltanto in mongolfiera, sperando che un colpo di vento ci porti via, il più lontano possibile?
Mio figlio è incazzato nero, dice che dovrebbero smettere di chiederci di pagare le tasse per almeno dieci anni, finché non hanno sistemato tutto. Io non penso che dieci anni bastino. Lui è incazzato perché per il suo lavoro deve spostarsi da un capo all'altro dell'Isola ed è incazzato perché un pezzo di trasloco aveva pensato di farlo con la macchina.
Ah, già, dimenticavo di dirvelo: per colpa vostra - per colpa dei mafiosi, dei corrotti, dei governanti inetti e di chi li vota - mio figlio fra qualche mese andrà di nuovo via dalla Sicilia, andrà al Nord, e questa volta non tornerà forse nemmeno per le feste comandate e forse dimenticherà anche il nostro dialetto. Lui ci aveva provato (con quegli altri giovani di cui è metafora) a tenere in piedi questa terra, ma mancavano le fondamenta. E non venite a parlarmi di turismo e di Ponte sullo Stretto, per piacere.

giovedì 1 ottobre 2015

L'università porca

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Sono migliaia. Migliaia, capite? Altro che numero chiuso, test d'ingresso a Medicina, estate passata a studiare nella speranza di essere presi. Migliaia che si sono fatti il culo pur sapendo che ad essere scelti sarebbero stati soltanto in quindici. Migliaia trepidanti dietro una porta in attesa del risultato. Migliaia con irriducibile spinta motivazionale.
E per accedere a quale prestigiosissimo corso accademico? Ma a quello di Rocco Siffredi, naturalmente. Praticamente un corso di minchia. Come i tanti, del resto, che fioriscono negli atenei italiani pur di assicurare una cattedra ai figli dei baroni.
Questo si chiama Siffredi Hard Academy (emmecojoni), volendo tradurre approssimativamente "l'università porca": un corso (privato) di due settimane - praticamente una sveltina - per insegnare a ragazze e ragazzi come si fa l'attore porno, preceduto dallo slogan "i talenti vanno formati" e pubblicizzato con un video di una trentina di secondi in cui i maschi stanno seduti in cerchio con le gambe incrociate e sono vestitissimi in jeans e maglietta, mentre le ragazze - come da tradizione berlusconiana - sono al centro in abbigliamento da zoccole e gambe rigorosamente divaricate o a culo a ponte, giusto per farci intendere che nessuna delle sessantaquattro posizioni verrà trascurata.
Che poi, se ci pensate, non è tutta colpa di Siffredi. E' che il settore tira. Basta guardare i dati forniti da Pornhub, secondo cui gli italiani rientrano fra le prime dieci popolazioni che usufruiscono dei suoi servizi e servizietti.
La ricerca del sito di video pornografici svela anche che gli italiani cliccano meno la domenica (salvo poi scatenarsi il lunedì), si astengono ad agosto e "prendono una rispettosa pausa" il giorno di natale. La famiglia tradizionale prima di tutto. Preferibilmente accompagnata da indignazione per l'esistenza dei gay e per l'educazione di genere nelle scuole. Così il teatrino è perfetto. Roba da (porno)attori e da politici consumati. Tipo quello del Pd, quel tale Nicola Cucinotta che proclama senza vergogna "meglio omofobo che sodomita". Ragazzi, d'ora in poi se volete sfondare nella vita pubblica non iscrivetevi a Scienze politiche: andate all'università porca. Magari vi ritrovate consiglieri comunali o persino presidenti di regione.