lunedì 5 ottobre 2015

La Sicilia in mongolfiera


Mio figlio ha cominciato a parlare in dialetto siciliano quando, ormai molti anni fa, si è trasferito a Roma per fare l'università. Credo che fosse il suo modo per non creare una frattura fra sé e la sua terra. Dall'Italia è passato in Spagna, ha imparato a parlare fluentemente altre lingue, ma la Sicilia e il siciliano erano sempre lì, nella sua testa, nelle cose che leggeva, nei lavori che faceva: lui ci infilava sempre la sua isola.  
Finché è tornato: determinato ad investire soldi, tempo, intelligenza e competenze. Lo ha fatto, ha lottato come un leone, lavorando dodici ore al giorno, facendosi imprenditore di se stesso; ha puntellato questa terra con le sue stesse braccia, ha dimostrato che se una cosa la vuoi, la puoi ottenere tenendo dritta la barra senza cercare vie traverse. Ma non è bastato. Mio figlio - metafora dei nostri figli educati all'onestà - non è bastato. A un certo punto è crollato tutto: l'idea di trovare interlocutori, la speranza di contribuire a cambiare la mentalità, la voglia (e l'illusione) di vedere rifiorire la sua regione e la sua città; poi è crollata l'autostrada Palermo-Catania, spezzando in due la Sicilia, con quello che ha significato in termini di danni alla produttività. E in quel momento la frattura fra lui e la sua terra, che aveva sempre cercato di evitare, è diventata insanabile.
Poi dicono che i ragazzi "scappano". Non scappano, non hanno niente di cui vergognarsi e da cui scappare questi ragazzi e questi giovani uomini: dovrebbero scappare e nascondersi per la vergogna quelli che li costringono ancora, come cento e più anni fa, ad andare a cercare fortuna fuori. Dovrebbero vergognarsi quelli che quando costruiscono mettono uno strato in meno di cemento per farci uscire i soldi della mazzetta, quelli che fanno i concorsi pilotati, quelli che si riempiono la bocca di lotta alla mafia e all'illegalità e poi nei loro partiti accolgono e candidano i boss con tutti parenti, stretti e acquisiti, portatori di pacchetti di voti che puzzano di merda.
Oggi la Sicilia non è più divisa in due: oggi è divisa in tre, praticamente più che un'isola ormai è un arcipelago, perché una frana ha interrotto l'autostrada Catania-Messina. Nella notte è venuto giù un pezzo di costone e non è fantascienza ipotizzare che le piogge dei giorni scorsi abbiano dato il colpo di grazia a un territorio indebolito da decenni di distruzione della natura per favorire la cementificazione selvaggia. Quando ci fu il crollo del pilone della Palermo-Catania i geologi dissero che da tempo segnalavano la situazione; oggi i tecnici del Consorzio autostrade siciliane, competenti per la Catania-Messina, dicono che stanno monitorando da tempo la situazione. E allora, scusate la domanda, ma perché cazzo non siete intervenuti prima, nell'uno e nell'altro caso, senza aspettare che la situazione diventasse irreversibile e che la gente fosse costretta ormai a spostarsi soltanto in mongolfiera, sperando che un colpo di vento ci porti via, il più lontano possibile?
Mio figlio è incazzato nero, dice che dovrebbero smettere di chiederci di pagare le tasse per almeno dieci anni, finché non hanno sistemato tutto. Io non penso che dieci anni bastino. Lui è incazzato perché per il suo lavoro deve spostarsi da un capo all'altro dell'Isola ed è incazzato perché un pezzo di trasloco aveva pensato di farlo con la macchina.
Ah, già, dimenticavo di dirvelo: per colpa vostra - per colpa dei mafiosi, dei corrotti, dei governanti inetti e di chi li vota - mio figlio fra qualche mese andrà di nuovo via dalla Sicilia, andrà al Nord, e questa volta non tornerà forse nemmeno per le feste comandate e forse dimenticherà anche il nostro dialetto. Lui ci aveva provato (con quegli altri giovani di cui è metafora) a tenere in piedi questa terra, ma mancavano le fondamenta. E non venite a parlarmi di turismo e di Ponte sullo Stretto, per piacere.

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