martedì 31 gennaio 2012

Tutta l'economia siciliana nelle mani della mafia

Qualche giorno fa l'aveva detto Antonio Ingroia: "Il Parlamento siciliano è lo specchio fedele di una società e di una classe dirigente profondamente inquinata, soprattutto ai piani alti, dalle collusioni con il sistema mafioso". Già, ma Antonio Ingroia è partigiano della Costituzione, ergo "comunista", e qualche decerebrato invece di baciare a terra dove passa lui e i pochi come lui e invece di fare tesoro di quello che dice, invoca punizioni esemplari.
Oggi l'accusa, ancora più dura e - se possibile - ancora più esplicita, arriva come una frustata dal Procuratore capo di Palermo, Francesco Messineo: "Abbiamo il fondato sospetto che tutto il sistema economico siciliano, con particolare riguardo al settore degli appalti pubblici, sia stabilmente sotto il controllo della mafia".
Che poi vuol dire esattamente la stessa cosa, perché la gestione degli appalti pubblici è nelle mani appunto dei politici collusi con la mafia, dei funzionari collusi con i politici, della mafia collusa con i funzionari pubblici e via così concatenando. Solo che Ingroia, in quell'occasione, si è soffermato solo sull'Assemblea regionale siciliana mentre il suo capo oggi ha confermato in maniera assolutamente esplicita quello che molti di noi sanno già e cioè che l'isola non è bagnata dal mare e baciata dal sole, ma immersa totalmente in una nebbia nera, puzzolente e vischiosa.
Messineo stamattina ha parlato agli studenti palermitani, a Palazzo Steri, in occasione della prima di una serie di lezioni antimafia promosse dalla Fondazione Falcone in collaborazione con l'Università e Confindustria Sicilia e ha ricostruito la consistenza della mafia (solo per fare un esempio: fra tre e quattromila "individui" fra le province di Palermo, Trapani e Agrigento), i progressi fatti dagli inquirenti, gli strumenti legislativi che li hanno consentiti, come la confisca dei beni e l'istituto del collaboratore di giustizia. Ribadendo, però, che non bisogna cantare vittoria se il numero degli omicidi è calato: appunto perché invece il potere di infiltrazione della mafia nel settore economico c'è tutto.
Poi ha ricordato come ai tempi in cui era studente lui si negava perfino l'esistenza della mafia, imputandone l'invenzione alla fantasia di giornalisti sfaccendati.
In tutta franchezza, non sembra che la situazione in questo senso sia cambiata molto: i giornalisti continuano ad essere intimiditi dalla mafia o indotti al silenzio dai loro stessi editori; i magistrati che fanno il loro lavoro e che - avendo giurato sulla Costituzione - dedicano (e rischiano) la vita alla difesa della Carta costituzionale vengono redarguiti e intimiditi per ubbidire agli ordini di quei partiti che alimentano e si alimentano di quel sistema di collusioni.
A Ingroia, per essersi dichiarato partigiano della Costituzione, hanno detto qualcosa che suonava come: "Sta' attento, ti teniamo d'occhio". E non era molto diverso da quei bigliettini recapitati a casa dal minacciante al minacciato in cui c'è scritto soltanto il nome di suo figlio e quello della scuola che frequenta.
Val la pena riportare le parole di un altro magistrato intervenuto oggi allo Seri, Gioacchino Natoli, a proposito di Giovanni Falcone: "Posso dire, da testimone diretto, di aver visto pochissime persone aiutarlo, ma di ricordarne moltissime che lo hanno ostacolato". Vent'anni dopo, la storia sembra non averci insegnato niente.

lunedì 30 gennaio 2012

Un sermone da 750.000 euro

Io non sono pregiudizialmente contraria al fatto che gli artisti guadagnino un pacco di soldi. Soprattutto se sono artisti che ci fanno riflettere, che veicolano idee o stimolano lo spirito critico, meglio ancora se lo fanno con parole e strumenti semplici. Metti Celentano: siamo diventati ambientalisti e oppositori della speculazione edilizia più con il suo ragazzo della via Gluck che con mille trattati o convegni.
Però tutto ha un limite e soprattutto va inserito nel contesto, rapportato al momento. E questo è un momento di merda, lunghissimo momento di merda per gli italiani, nel quale sulla crisi globale si innesta il ventennio fascioberlusconiano e ancora il trimestre finanziarmontiano. Crisi al cubo (non solo economica, ma politica e di valori), che le destre - che indossino il loden o il perizoma - fanno pagare tutta a chi non ha più nemmeno gli occhi per piangere. Ora Celentano, che di politica capisce poco - ma ha il merito di aver detto due o tre cose giuste sull'ambiente e sulla guerra e in più con quegli strumenti semplici che raggiungono tutti -, che è figlio di povera gente emigrata dal sud al nord, che da ragazzo ha cominciato facendo lavori umili, che però sono cinquant'anni che guadagna quanto vuole lui, almeno adesso che annaspiamo tutti come in un dopoguerra un minimo di pudore avrebbe dovuto averlo nel chiedere alla Rai quella cifra stratosferica di 750.000 euro per partecipare al Festival di Sanremo.
Ma un modo per riscattarsi ce l'ha e in quel caso io sarei molto contenta di dargli i miei soldi (miei, se ne ricordi, perché i soldi che la Rai gli darà sono miei e di quelli che pagano il canone) ed è stato lui stesso a suggerirmelo con la sua giusta battaglia per esprimersi liberamente. Bene, c'è un ragazzo di 29 anni che si chiama Giovanni Tizian, fa il giornalista free-lance (cioè uno di quelli che vengono pagati quattro euro al pezzo e non vengono assunti) e vive sotto scorta per avere scritto di mafia: Celentano scelga di farsi pagare come lui - quattro euro al pezzo, un pezzo per ogni giorno del Festival, e fa venti euro in tutto - oppure prenda i soldi che gli daranno a Sanremo (pari allo stipendio annuo di 57 persone a mille euro al mese per tredici mensilità), ce ne aggiunga un po' di quelli che ha guadagnato durante tutta una vita e dimostri di avere veramente a cuore la libertà di espressione aprendo un giornale, una tv o una radio in cui assumere non i grossi nomi pronti a trasmigrare di qua e di là solo sulla base di un compenso da capogiro, ma appunto questi giornalisti che hanno deciso di vivere la loro vita e la loro professione con serietà e dignità e che, se non hanno un referente politico che li faccia assumere alla Rai, è solo perché hanno scelto di non averlo e non certo perché non ne abbiano trovato uno: l'Italia è piena di politici ai quali farsi leccare il culo piace talmente tanto che si farebbero fare le extention alla lingua per leccarselo da soli in momenti di penuria di leccatori.
Ecco: l'antipolitico Celentano la smetta di fare il politico arraffone e si dimostri un libero pensatore. Si accontenti di un compenso "equo" e rapportato al momento di crisi: altrimenti, faccia una lunga pausa, lunga cinque giorni, ché la gente non sa che farsene dei sermoni di un riccone.

domenica 29 gennaio 2012

Pippo, Pluto e Paperino candidati sindaco a Palermo

Allora, vogliamo vedere quali (e quanti!) sono stati finora i potenziali candidati sindaco di Palermo per le prossime elezioni amministrative?
Sono sicura che qualcuno mi sfuggirà. Comunque: Riccardo Alessi, Sonia Alfano, Giulia Bongiorno, Rita Borsellino, Marianna Caronia, Francesco Cascio, Caterina Chinnici, Fabrizio Ferrandelli, Roberto Lagalla, Beppe Lumia, Gianfranco Miccichè, Antonella Monastra, Riccardo Nuti, Leoluca Orlando, Nadia Spallitta, Ninni Terminelli, Carlo Vizzini....
Insomma: Sarti, Burgnich, Facchetti, Bedin, Guarneri, Picchi, Jair, Mazzola, Peirò, Suarez, Corso.
Mancano solo Pippo, Pluto e Paperino. Ma siamo fiduciosi.

venerdì 27 gennaio 2012

La pecora e il lupo

Vi ricordate il registro delle opposizioni? No, non era la lista di proscrizione di tutti i "comunisti" - magistrati, politici moderati, qualche (rarissimo) prete che faceva il prete - considerati da Berlusconi nemici da eliminare in qualsiasi modo, ma un'invenzione di quel governo: uno strumento istituito nel 2010 che avrebbe dovuto liberarci dagli scocciatori che quotidianamente, a dozzine come le uova, ti telefonano a casa - preferibilmente ad ora di pranzo o di cena - per proporti un nuovo contratto di telefonia o un servizio elettrico più vantaggioso e concorrenziale degli altri.
Sul sito ti spiegano che "Il Registro Pubblico delle Opposizioni è un nuovo servizio concepito a tutela del cittadino, il cui numero è presente negli elenchi telefonici pubblici, che decide di non voler più ricevere telefonate per scopi commerciali o di ricerche di mercato e, in pari tempo, è uno strumento per rendere più competitivo, dinamico e trasparente il mercato tra gli Operatori di marketing telefonico" e, un po' più giù, aggiungono: "L’entrata in vigore del Registro Pubblico delle Opposizioni obbliga l’Operatore a registrarsi al sistema e a comunicare la lista dei numeri che intende contattare, pena incorrere nelle sanzioni previste dal Codice della Privacy".
Insomma, perfetto: io, iscrivendomi, chiedo che non mi rompano più i coglioni e loro - come per incanto - non me li rompono più. Come si dice a Oxford, neither for the dick (per i napoletani: manco po' cazz). Mi sono iscritta appena lo hanno messo in funzione, ma quotidianamente, puntuale come un orologio svizzero, appena ti metti a tavola il telefono comincia a squillare e una voce addestrata a parlare con accento milanese (secondo loro, evidentemente, è più convincente: a me, affetta da razzismo di ritorno, fa venire immediatamente l'orticaria) ti propone - dopo averti chiamato confidenzialmente per nome - la luna nel pozzo.
Dal sito non si riesce a ricavare il costo di questo preziosissimo servizio a "tutela del cittadino", ma vi si legge che la realizzazione e gestione del Registro è stata affidata dal Ministero dello Sviluppo economico - Dipartimento per le Comunicazioni alla Fondazione Ugo Bordoni. E sapete chi c'è nel comitato dei fondatori della Fondazione? Wind, Terna, Telespazio, Vodafone, 3 Italia, Poste italiane, Telecom Italia, Fastweb, Ericsson. Tutto normale, no? Già, come affidare la pecora al lupo.

Lo sfigato, ovvero "nuddu ammiscatu ccu nenti"

La retorica sugli studenti lavoratori ve la risparmio. E non perché non sia assolutamente vero che tantissimi giovani lavorano per mantenersi agli studi dilatando quindi i tempi. Come è assolutamente vero che, se di giorno lavori e di notte studi, è normale che tu non dia il meglio di te né sul posto di lavoro - col rischio di perderlo - né quando vai a fare esami. Non rendi e non vivi. Ve la risparmio, perché l'hanno fatta tutti e a un certo punto risulta persino stucchevole e vampiresca.
Vorrei richiamare invece la vostra attenzione sui tanti giovani brillanti, addirittura geniali, che a un certo punto ti dicono che l'università non gli dà più niente (e non è che si laureano a 28 anni, da "sfigati", no: decidono proprio di mandarla affanculo l'università, con grave danno per la società intera) perché si sono stufati di sentire uno scimunito di un paio di anni più grande di loro in giacca e cravatta che si sente un grande professore universitario solo perché - da figlio o nipote di professore universitario - ha preso agli esami qualche voto in più di quanto meritasse e poi si è laureato per grazia ricevuta e gli racconta ("a pappagallo", si diceva ai miei tempi, ed era una delle cose che facevano inorridire i bravi insegnanti) la sintesi del libro di letteratura del liceo.
Loro abbandonano, dopo aver visto decine di inutili figli di papà e di galoppini elettorali prendere voti alti senza avere studiato, mentre quegli altri continuano "una brillante carriera universitaria", partecipano a concorsi cuciti su misura, diventano manager, editorialisti, viceministri, ministri...
Ma gli "sfigati" non sono quelli che abbandonano l'università o quelli che si laureano tardi: sono quelli che senza un padre pitreista o una madre dama di carità o un protettore politico sarebbero stati - come si dice in Sicilia - "nuddu ammiscato ccu nenti", nessuno unito al niente, zero tagliato; sono quelli che se li lasci tre giorni da soli muoiono di fame perché non sono capaci di farsi un uovo à la coque; sono quelli che quando prendono una multa non la pagano e se la fanno "levare", sono quelli che credono di poter misurare le dimensioni del loro pisello in base alle dimensioni della loro auto. Sono servi e si credono padroni.

lunedì 23 gennaio 2012

Beato quel popolo che non ha bisogno di eroi

Preparatevi: in Italia è in arrivo un nuovo eroe. Anzi, due al prezzo di uno, perché c'è grossa crisi e in questo periodo gli eroi li danno via come niente. Artefici della nuova beatificazione - fa male dirlo - ancora una volta i giornalisti, quelli che chiamano affettuosamente "zii" i protagonisti di un delitto atroce o acclamano come deus ex machina delle magnifiche sorti e progressive della Patria quello che ha segnato il goal decisivo per vincere la Coppa dei campioni.
E proprio di calcio parliamo (e di cosa, sennò?) perché oggi alcuni cronisti con voce "rotta" dall'emozione (e non sapete quanto mi sono rotta io di sentirvi dire cazzate!) ci riferivano delle gesta senz'altro storiche e senz'altro eroiche del tecnico del Parma, Roberto Donadoni.
Sapete cosa ha fatto Donadoni? Assolutamente niente. Mi spiego: durante la partita con il Bologna, il bimbo piccolissimo di pochi mesi di un calciatore, Stefano Morrone, è stato male, come la stragrande maggioranza dei neonati, e la mamma (come, giustamente, la stragrande maggioranza delle mamme dei neonati) era angosciatissima e aveva portato il piccolo in ospedale. Ebbene, Donadoni a fine primo tempo è andato da Morrone e gli ha intimato di correre a casa. E Morrone è corso a casa.
Manco fosse stato il presidente della Repubblica, nella sua funzione di Supremo comandante delle Forze armate che presiede un consiglio di guerra e non si può allontanare neanche se casca il mondo. Quello, in fondo, stava facendo una partita, stava facendo il suo lavoro (peraltro esageratamente pagato rispetto ai tanti che si fanno un culo quadrato per 800 euro al mese) e come chiunque chiamato da casa per un grave problema di salute era autorizzato (e, direi, moralmente obbligato) a lasciare tutto in asso e correre via.
A discolpa di Donadoni, che con questa beatificazione giornalistica non c'entra niente, ho il dovere di riportare il suo stupore di fronte alla retorica barocca dei cronisti sportivi: mi sembrava la cosa più sensata da fare - ha dichiarato più o meno ai microfoni -: il figlio stava male ed era giusto che la moglie avesse accanto il marito.
Aveva proprio ragione Bertold Brecht: "Beato quel popolo che non ha bisogno di eroi".

mercoledì 18 gennaio 2012

N'omme 'e niente

Ciclicamente, in Sicilia e non solo, interi equipaggi dei pescherecci vengono arrestati per avere salvato migranti in difficoltà: per avere, in fin dei conti, fatto prevalere le leggi della vita e della solidarietà fra chi va per mare. E non c'è bisogno di scomodare Verga per sapere il carico di angoscia (altro che lupini!) che si porta dietro ogni battuta di pesca per famiglie siciliane strutturate ancora come due secoli fa, quando i maschi partivano e non si sapeva se sarebbero tornati e, se tornavano, spesso la barca era vuota e non si mangiava. Come non mangiano - per tutto il tempo che i loro congiunti trascorrono in carcere - le famiglie dei pescatori arrestati per un gesto di umanità.
Non lo ha compiuto - a quanto sembra - questo gesto di umanità e non ha fatto prevalere le leggi del mare e della solidarietà il comandante Schettino, del quale oggi emerge un'immagine da viveur da strapazzo (forse ubriaco, forse fatto di qualcosa, forse troppo occupato a fare il gallo con qualche passeggera, certamente codardo e con scarsissimo senso del dovere), ma il gip ha deciso che il massimo di arresti da infliggergli era quello al caldo di casa sua, con moglie e figlia. Decisione non condivisa dal procuratore di Grosseto, che infatti farà opposizione, perché non si capisce in base a quale ragionamento sarebbero cadute le tre motivazioni che inducono agli arresti in carcere e cioè il pericolo di fuga, di reiterazione del reato e di inquinamento delle prove.
Cominciando da quest'ultimo punto, mi sembra "ingenua" la raccomandazione che il gip gli ha fatto di non avere rapporti con nessuno all'esterno e forse ci sarebbe da fare una riflessione sullo stesso istituto degli arresti domiciliari che, se (mi pare di capire, da profana di questioni giuridiche) ancora applicato con i parametri di venti o trent'anni fa, risulta uno strumento assolutamente desueto. Ma come si fa a pensare che oggi un detenuto agli arresti domiciliari (Schettino, ma anche un trafficante di droga o un mafioso) non abbia mille modi, fra mail, chat o altro per comunicare con l'esterno? Come si può pensare che non si faccia procurare una scheda nuova per il suo telefonino? E come si fa a non pensare che - dato il gravissimo reato di cui si è macchiato e dato il suo "profilo psicologico" - non tenti la fuga (e magari vada a fare la bella vita a Panama con il Lavitola di turno)? Che fanno, gli mettono dei piantoni che si stabiliscono a casa sua e controllano per l'intero arco delle ventiquattr'ore che non parli al telefono o che non scappi (cosa che, a quanto pare, gli piace fare nei momenti difficili)? E come li pagano se, grazie ai tagli del governo Berlusconi, i tribunali e le questure non hanno più i soldi nemmeno per le fotocopie?
Ancora, quanto alla possibilità di reiterazione del reato, in base a quanto dichiarato dal suo legale, non risulta al momento che Schettino "abbia ricevuto alcun provvedimento di sospensione dalla Costa'' (tanto che, per assurdo, si potrebbe pensare di ritrovarlo alla guida di qualche altra nave, magari fuori dall'Italia). Se fosse così, la compagnia di navigazione sarebbe correa. E forse lo è comunque, a giudicare dalle dichiarazioni in merito al reclutamento degli equipaggi (tutti hanno parlato di persone inesperte e che non capivano né l'italiano né l'inglese) rilasciate al sito di informazione Lettera43.it dal presidente dell'Autorità portuale di Cagliari, Piergiorgio Massidda, secondo il quale gli armatori preferiscono gli stranieri perché "gli accordi internazionali permettono di pagare la previdenza in base alle leggi del Paese di origine del lavoratore. Un filippino o un cingalese costano alla compagnia assai meno di un italiano"
Per finire, una notazione da donna a donne, cioè a moglie e figlia che lo difendono come le donne di mafia o di camorra fanno con i loro uomini: io uno così non me lo sarei ripreso a casa. Perché, come dicono dalle loro parti, uno che lascia morire tante persone in mare (senza perdere, come i pescatori che salvano i migranti, né il guadagno né la libertà) è "n'omme 'e niente".

lunedì 16 gennaio 2012

Gli scemi e gli scempi

Stamattina a Palermo hanno arrestato l'ex comandante dei vigili urbani. Lo hanno trovato a Portella della Ginestra (sito che, per quello che rappresenta per la storia del Paese, memento di cosa fanno insieme padroni e mafiosi contro gli uomini, dovrebbe far parte dell'elenco dell'Unesco, patrimonio dell'umanità: protetto dagli scempi e dagli scemi) mentre con altri tre psicopatici frustrati cercava di dimostrare a se stesso e ai suoi compagni di giochi - che facevano altrettanto - di essere maschio.
Che facevano? Sparavano. E sparavano talmente tanto - pensate! - che a chiamare i carabinieri sono stati dei cacciatori preoccupati dal rumore delle armi.
Maurizio Pedicone e i suoi tre amici sono stati trovati in un poligono di tiro en plein air, "in tenuta da guerra" e usavano armi da guerra detenute illegalmente (400 ne hanno trovate i militari durante una perquisizione, ma tre dei quattro arrestati risultano "collezionisti") e forse anche modificate illegalmente.
E però sembra che Pedicone, invece di vergognarsi come un ladro, "avrebbe cercato - come scrive l'agenzia Ansa - di farla franca ricordando ai carabinieri il ruolo ricoperto". Che forse è anche peggio del già pessimo "lei non sa chi sono io", perché accanto all'intimidazione c'è forse anche il tentativo di rendere complici i carabinieri, di indurli a chiudere un occhio in nome di una divisa che in qualche modo li accomuna (ma quelli giustamente se ne sono fottuti, altrimenti non ne avremmo saputo niente e non staremmo qui a parlarne).
Un comandante dei vigili urbani a Palermo che usa armi illegali e poi cerca "di farla franca"; un comandante di una nave al Giglio che usa rotte illegali, fa rischiare la vita a migliaia di persone, alcune ne uccide, racconta un sacco di balle e alla fine scappa (e sfido chiunque a trovare fino a questo momento un altro esempio simile di un comandante anche di una barchetta a remi di tre metri che se la sia data a gambe lasciando la barca in difficoltà) e tutto questo per fare il cretino, solo per fare il cretino: perché bisognava "fare l'inchino" all'isola.
Non è solo Portella che dovrebbe essere patrimonio dell'Umanità in Italia, ma tutti quelli che in qualche modo ci passano credendolo un Paese civile e che invece hanno un gran bisogno di essere protetti dagli scempi e dagli scemi. Di solito, prima arrivano gli scemi e a ruota seguono gli scempi.

domenica 15 gennaio 2012

The Artist, la passione, la vita

Qualche giorno fa ho finito di studiare "Ricostruire il partito comunista" (Diliberto, Giacchè, Sorini - Edizioni Simple) e, come spesso mi capita dopo aver letto un libro, che si tratti di un saggio o di un romanzo, resto per giorni chiusa dentro una sorta di "bolla" che mi induce ad interpretare tutto - persino la pappa dei miei gatti - alla luce delle cose che ho assimilato.
Sicché è successo che io abbia vissuto così anche il film che ho visto ieri: The Artist, film muto e in bianco e nero del regista Michel Hazanavicius.
Li accomuna nei miei pensieri l'epoca di partenza e il percorso nei decenni. Inizio anni Venti: in Italia nasce il partito comunista, a Hollywood - spero di non essere considerata blasfema per il parallelismo - George Valentin è un attore di successo del cinema muto che non riesce ad accettare l'avvento del sonoro. Attore strepitoso, che parla con il corpo, con lo sguardo, con i muscoli del viso (e altrettanto strepitoso il cane che gli recita accanto: "gli manca solo la parola", dirà di lui il suo padrone) suscitando nel pubblico, più e meglio di milioni di parole al vento, sentimenti di condivisione e di immedesimazione, provocando (come è nella vita) l'alternarsi di un sorriso, di una preoccupazione, di una risata, di un sospiro di angoscia per una mente che corre verso il precipizio. E se il film è muto i sospiri di angoscia del pubblico li senti, li puoi contare, li puoi catalogare uno per uno.
Quell'angoscia, quella sensazione di sprofondare nelle sabbie mobili, è la stessa che a volte ti prende quando sai che la tua idea e la tua passione è buona, è ancora valida, dà un senso alla tua vita e può rendere dignitosa la vita di tutti gli altri, ma la gente non ti capisce più. E allora - dicono in estrema sintesi Diliberto, Giacchè e Sorini (che non me ne vorranno se li "uso" per questo parallelismo e non mi soffermo, per consapevole mia inadeguatezza culturale, a parlare diffusamente del loro lavoro) - non bisogna buttare via l'impianto teorico, ma attualizzarlo e trovare linguaggi nuovi. Così come, sembra dirci il film, non è restando arroccati ciascuno sulle proprie posizioni, non è mettendo in contrapposizione il vecchio e il nuovo, gli anziani e i giovani, che si trova la soluzione, ma al contrario attraverso un patto generazionale, uno scambio di esperienze e una complicità che alla fine ti fanno venire voglia di ballare insieme e di intraprendere insieme, con la passione elevata al quadrato, un percorso che è un po' passato e un po' futuro.
Comunque, qualunque sia la vostra storia e quello che ci leggerete, vi consiglio di andare a vederlo questo film muto e in bianco e nero in questo mondo vociante e in un technicolor esasperato, perché si esce dalla sala soddisfatti e con la consapevolezza di avere ancora molto da dare e da fare.

http://www.youtube.com/watch?v=O8K9AZcSQJE

giovedì 12 gennaio 2012

Ancora a nasciri e già si chiama Cola

"Ancora a nasciri e già si chiama Cola". Non so da dove derivi questo modo di dire siciliano - non è ancora nato e già si chiama Cola, che sta per Nicola -, certo è molto antico e certamente risale ai tempi in cui non c'era l'ecografia e nessuno s'immaginava di poter sapere in anticipo il sesso del nascituro se non attraverso la cosiddetta esperienza delle donne, in base alla quale se la pancia era a punta - per priapismo congenito e mentale - si trattava di un maschio.
Ma sto divagando. Il fatto è che oggi l'Ansa ha battuto una notizia in base alla quale, sebbene non sia ancora nemmeno stata fissata la data delle elezioni amministrative in Sicilia, a Palermo sarebbe già in corso da settimane "la caccia al voto". Voto di scambio: "I galoppini - spiega l'agenzia di stampa - vanno in giro con carta e penna alla mano, compilando elenchi con l'impegno di inserire i nominativi di chi cerca lavoro in vere e proprie graduatorie per un posto in cooperative sociali alle quali poi la pubblica amministrazione affiderebbe servizi. Lo stipendio che viene promesso varia da 400 a 800 euro".
Con la certezza che si chiamerà Cola. Che cioè quell'esercito di disperati senza lavoro coltivato ad arte, voterà per i mafiosi che gli faranno avere l'elemosina di un posto a 400 euro.
Come se niente fosse successo, come se le inchieste della magistratura non li sfiorassero, anzi proprio con la certezza che le inchieste della magistratura non li sfioreranno. E non perché i magistrati non facciano il loro lavoro - per quanto qualcuno sia arrivato a far passare la tesi che farsi dare i voti dai mafiosi ad uno ad uno non è lo stesso che farseli dare dalla mafia nel suo complesso (ah, a proposito: sembra che i posti promessi siano soprattutto nella Sanità) -, ma nella certezza assoluta di farla franca in qualche modo: con un'amnistia, con una prescrizione, con un difetto di notifica, con un voto "bipartisan" (ma "monopartisan", nel senso dell'unico, grande partito dei criminali) in Parlamento che vieti l'arresto di uno che se la fa con i boss.
Appunto: ancora a nasciri e già si chiama Cola. Nicola. Come Cosentino.

mercoledì 11 gennaio 2012

Malinconico come l'immacolata concezione

Quando, a metà mattina, entro in un bar a prendere un caffè, per prima cosa vado alla cassa e mi faccio dare lo scontrino. Non solo perché appartengo alla categoria di quelli che pensano sia giusto pagare le tasse, ma perché voglio evitare che nel frattempo arrivi qualche conoscente e paghi il mio caffè. E se per caso non mi sono accorta del conoscente che entrava proprio mentre ero alla cassa e quello insiste per pagare anche per me e se per caso quel giorno avevo fame e avevo deciso di prendere anche un cornetto, fingo di volere solo un caffè. Perché mi mette in imbarazzo: perché un conto è entrare al bar con un amico o un'amica e pagare una volta per uno cifre irrisorie e un conto è permettere che un estraneo ti paghi la colazione intera o il pranzo. O addirittura una vacanza.
Sarà perché sono una donna e l'idea di farmi pagare una vacanza o perfino un caffè mi farebbe sentire una mantenuta. Sarà perché vivo in Sicilia e l'idea mi evoca quelle scene di film sulla mafia in cui il boss seduto al tavolo di un ristorante a un certo punto fa un cenno al cameriere perché porti una bottiglia di champagne del più costoso a un tavolo poco più in là o per fargli capire che pagherà l'intero conto dei commensali seduti a quell'altro tavolo. Suggello di un diritto di proprietà e di sottomissione.
Un caffè, mi basta un caffè per farmi sentire in imbarazzo. Non ne ha provato invece, e chissà per quanto tempo, il sottosegretario Carlo Malinconico, forse "a disposizione" della cricca dei grandi appalti, a farsi pagare le sue vacanze di lusso da migliaia di euro in un albergo in cui una suite può arrivare a costare per una notte molto di più di quanto non guadagni in un mese un operaio o un operatore di call center o un giornalista che subisce le angherie di un editore criminale. E probabilmente non ne ha provato nemmeno la malinconica, la consorte cioè, nel gioire di una vacanza "aggratise" dovuta forse a qualche prestazione del marito alla cricca: qualcosa che somiglia terribilmente alla prostituzione. Perché i casi sono due: o la signora lo sapeva e dunque è peggio del marito o non lo sapeva e però, se non è completamente cretina, qualche domanda se la sarà pur fatta.
Completamente cretini invece sembra questo nuovo governo e il suo sottosegretario appena dimesso considerino gli italiani: prima Malinconico se n'è uscito con la solita balla che non ne sapeva niente - come l'immacolata concezione -, poi ci ha raccontato che comunque qualche giorno fa ha provveduto a saldare il suo debito con l'albergo, e su tutto c'è Monti che lo ha nominato. Dunque, se io vado al bar e al momento di pagare mi dicono che l'ha già fatto qualcun altro, mi giro immediatamente per individuare il pagatore anonimo, per capire se è un amico e dunque ringraziarlo oppure uno sconosciuto malintenzionato e dirgli di farcisi un clistere con il suo caffè. Punto primo. Punto secondo: le vacanze sarebbero avvenute fra il 2007 e il 2008 e lui paga solo ora il conto? E qual è quell'albergo che avrebbe aspettato quattro anni senza fargli un culo così tramite avvocato? Dirò di più: qual è quell'albergo che ti consente di andartene senza pagare cash un contro stratosferico dopo una settimana di vacanza extralusso se non perché qualcun altro l'ha già fatto? Punto terzo, ma primissimo: perché, se questa faccenda era già nota nel 2010, Monti se l'è messo nel suo governo? Forse perché pensava che quei coglioni degli italiani non se ne sarebbero accorti, o forse perché Malinconico rappresentava una certa continuità di "gestione"? Del resto, fosse stato per lui, si sarebbe tenuto al governo preso pure Letta (che comunque non ha smesso di essere Richelieu).
E, per piacere, non mi si parli di "cambio di passo" solo perché lo ha fatto dimettere appena lo scandalo non è stato più arginabile. Se - come dice lo stesso Monti - l'esecutivo non può permettersi ombre, semplicemente non ce lo doveva mettere. Ma questa vicenda - con gli stessi nomi che attraversano allegramente i governi, gli stessi sghignazzamenti di imprenditori viscidi come vermi, gli stessi maggiordomi più o meno asserviti al mercato - dimostra soltanto come questo sia un governo-lions di straricchi che si scambiano favori e potere. Mancano solo le puttane e i lustrini. Ma non è detta l'ultima parola.

mercoledì 4 gennaio 2012

Lettera di un carcerato a Lele Mora

Caro Lele,
ho sentito le tue parole disperate, il tuo grido d'allarme, il tuo "non ce la faccio più" e non ho saputo resistere all'umana tentazione di solidarizzare con te, di scriverti qualche parola di conforto, di farti sapere che c'è chi ti capisce.
Anch'io sono carcerato, in isolamento da anni, senza nemmeno compagni di cella con cui scambiare due parole, e quindi posso capire il tuo sconforto. Ero giovane quando sono entrato qui dentro e ci sono diventato vecchio, non ho potuto festeggiare il compleanno dei miei figli, loro sono cresciuti e io non me ne sono accorto, la più piccola ha finito il liceo e non so più nemmeno che faccia abbia, non riesco a immaginare come sia cambiata da quando l'ho vista l'ultima volta poco più che bambina, non ho più assolto ai miei doveri/piaceri coniugali e quelle rare volte che vedo mia moglie non posso neppure allungare una mano per farle una carezza. Qui, fra queste quattro mura, è sempre buio; questa è una cella senza finestre, neanche una piccolissima apertura di quelle con le grate che si vedevano nei film anche se non lo so più cosa si vede nei film perché al cinema non ci posso andare e nemmeno a prendere una pizza con gli amici. Ci sono delle mattine che non ho voglia di alzarmi, del resto qui non è mai mattina ed è sempre notte fonda. E non so più se abbia un senso pensare di uscire da qui un giorno, ora che mia moglie mi ha lasciato e i miei figli sono andati all'estero dopo che questo Paese è stato ridotto a un puttanaio da un vecchio porco che, mi dicono, tu conosci bene.
Sai, una volta anch'io ho tentato il suicidio con un metodo simile al tuo, ma purtroppo ho fallito: mi ero tappato il buco del culo con un tappo di champagne pensando che, nel momento in cui si fosse presentato il bisogno, sarei esploso in mille pezzi. Ma avevo fatto male i conti: non mangiavo da giorni e quindi non c'era niente da cacare.
Ecco, però, vedi, io ti devo ringraziare, perché io non sono un carcerato vero: anch'io non faccio un cazzo come te dalla mattina alla sera, ma sono un disoccupato di lunga durata e la mia cella, la mia prigione, non è fatta di cemento ma è nel mio cervello. Però ti devo ringraziare, perché mi hai fatto venire voglia di uscire da qui: per sputare su quella tua faccia di merda.

lunedì 2 gennaio 2012

La nona coltellata

Quando fu assassinata Maria Grazia Cutuli, la locale carta da pesce pensò bene di affidare un editoriale a un nostalgico di casini e casinò, che non riuscì a resistere all'orgasmo di farsi un'overdose di gossip. E dunque poco importava che Maria Grazia fosse morta mentre faceva giornalismo d'inchiesta in una zona di guerra, che fosse uno dei tanti giornalisti costretti a lasciare la loro terra per non restare servi: la cosa importante sembrava fosse la vita privata, come si trattasse di una soubrette, con tanto di sottintesi pruriginosi e allusioni. Sicché - forse era questo il sillogismo del moralizzatore dei costumi -, se conduci una vita (privata o professionale) spericolata, se la guerra la documenti standoci in mezzo - invece che da giornalista embedded che se la guarda stando comodamente al desk in una camera d'albergo - è ovvio che te la sei cercata.
E l'ha ritirata fuori Maria Grazia Cutuli, qualche giorno fa, in un pezzo pieno di retorica soffiata come un vetro di Murano o come il riso del ciocorì, per parlare di Stefania Noce, assassinata a 24 anni con otto coltellate dal suo fidanzato che non accettava la fine della loro storia. Proprietà privata la "femmina", su cui esercitare diritto di vita o di morte. L'ha ritirata fuori per raccontarci che Stefania avrebbe voluto fare la giornalista come Maria Grazia e dunque, sembra di cogliere un sottinteso, vivere pericolosamente la propria vita. Ma non bastava: lei - sottolinea l'editorialista - aveva già programmato il suo destino che non coincideva con quello del suo ragazzo. Grave colpa per una donna nella Sicilia soffocata dal burqa della stupidità maschile. Per finire, ancora una volta, il sottinteso, il sospetto, l'insinuazione: forse Stefania a Catania, dove frequentava l'università mentre lui studiava a Roma, "deve avere fatto altre amicizie". Insomma, cherchez l'homme o - come dicono certi siciliani antichi - "cercava l'erba ca diu maledissi" (ininfluente che il riferimento sia alle scelte private o all'ambizione professionale) e questo, attenuando la colpa dell'assassino, giustificherebbe il sangue agli occhi e la Cavalleria rusticana o - peggio - la lapidazione della "colpevole".
Del resto, attenuare la colpa è quello che cerca di fare l'avvocato del femminicida, dipingendolo come innamorato perso. E del resto, per i fascisti le "femmine" che lottano per i loro diritti e che aspirano alla realizzazione professionale sono puttane. Certo, è il mestiere dell'avvocato tentare di alleggerire la posizione dell'assistito ma forse si sarebbe potuto evitare di dare a Stefania la nona coltellata facendo difendere il suo assassino da un fascista, segretario regionale de La Destra di Francesco Storace.