mercoledì 28 febbraio 2018

Sessanta metri sotto terra



Oggi mi sembrava Vermicino. La stessa angoscia. È cominciata col gr delle 8, quando hanno detto che in Lazio un appuntato dei carabinieri aveva sparato alla moglie, uccidendola, e si era barricato in casa con le due figlie adolescenti.


A casa mia la radio sta accesa da quando mi alzo fino al tardo pomeriggio: sta in cucina e fa da sottofondo alle mie attività in qualunque stanza io mi trovi; una volta ogni ora mi avvicino per ascoltare le notizie. Oggi, nei gr che ascolto io, questa è stata invariabilmente la notizia d’apertura, ogni ora, con tutti gli aggiornamenti al di là e al di qua di una porta chiusa. Li ho ascoltati tutti, ogni ora. A un certo punto hanno detto che la moglie non era stata uccisa, ma era stata portata in ospedale gravemente ferita. Delle ragazzine non si sapeva niente. Forse erano vive. O forse le aveva uccise. Qualcuno diceva di averle sentite; qualcun altro riferiva che la nonna materna era pronta a entrare per mettere in salvo le nipoti, ma lui non l’aveva voluta; uno dei “negoziatori” (così li hanno chiamati, come quando c’è una guerra in corso) invece ha detto che non avevano grandi speranze che le figlie fossero ancora vive. Solo ipotesi, voci contraddittorie, speranze, sconforto, al buio, dietro una porta chiusa.


Mi sono sentita avvolgere da quella stessa angoscia collettiva di molti anni fa, quando Alfredino Rampi precipitò in un pozzo e per ore rimanemmo tutti là, davanti alla tv, a tendergli una mano per provare a tirarlo su. C’era anche Sandro Pertini, che ci andò personalmente. Ma questa è un’altra storia e un altro paese.


Oggi per ore l’unica certezza è stata che l’ennesimo maschio italiano, bianco, l’appuntato Luigi Capasso, incapace di accettare la separazione da una donna che considerava sua, in guerra contro una donna che considerava sua, a Cisterna di Latina aveva sparato alla moglie con la pistola di ordinanza mentre lei stava per salire in macchina e poi aveva sequestrato le ragazzine. Ogni ora: alle 8, alle 9, alle 10, alle 11, alle 12…


Al gr delle 15 il racconto dell’epilogo: le ha uccise e poi si è ucciso. La moglie ancora gravissima in ospedale.




Intanto ti capita di cercare qualche notizia in più online e trovi un articolo (uno dei tanti, sempre pronti a giustificare e beatificare un femminicida) dove, come di consueto, si fa riferimento alla pagina Facebook dell’assassino - «un ragazzo come tanti, una persona perbene…poi l’amore per le figlie e la moglie» - e ti vergogni di fare questo mestiere. E ti vergogni di un paese dove uno che ammazza la moglie può essere definito, sia pure retroattivamente, una persona perbene. Cosa deve fare di più uno, per essere definito per male? Deve sganciare bombe su un paese straniero? Ah, già, ma anche quella viene spacciata per un’azione perbene: infatti la chiamano azione umanitaria. Allora non ci resta che aspettare che qualche giornale ci informi che l’appuntato Capasso ha ucciso le figlie per non farle soffrire: un triplice femminicidio umanitario. E io in questo paese e in questa professione mi sento sempre più come Alfredino: sessanta metri sotto terra.

giovedì 8 febbraio 2018

Incoscienza di classe

Qualche giorno fa sono entrata in un negozio di abbigliamento della mia città e ho fatto il giro al contrario, cominciando dalla cassa: perché era lì che avevo avvistato la prima commessa e perché ero entrata esclusivamente per manifestare la mia solidarietà alle impiegate, dopo la decisione dell’azienda di chiudere i punti vendita in tutta Italia, con conseguente sterminio di massa dei dipendenti.
E lì ho avuto una vertigine, quando la ragazza mi ha guardata come per dire «ma questa pazza che cazzo dice?» liquidando la questione con un «e vabbè, signora, non è un problema!».
Non è un problema? No, evidentemente non è un problema e il problema sono io, perché poi ho continuato a girare per il negozio per annusare gli umori ed è arrivata la seconda vertigine: commesse sorridenti (va bene che rientra nei vostri compiti, ma incazzatevi almeno stavolta!) e clienti – quelle che lo sapevano già e le altre che lo apprendevano in quel momento -, tutte, la cui unica preoccupazione era «e adesso dove vado a comprare i vestiti?». Con commessa solerte e sempre più sorridente pronta a consolarle: «mi apro un negozio con i vestiti che vi piacciono, tanto li conosco i vostri gusti». Fosse facile. Fosse facile fare un investimento iniziale, pagare l’affitto, ordinare uno stock di abiti, versare le tasse, farsi estorcere il pizzo che in questa città è una tassa che si paga pure per respirare e che nei negozi pagano pure i clienti (per via dei prezzi maggiorati) e non solo i gestori.
Ho capito che dovevo andarmene, la vertigine aumentava. Sono ripassata dalla cassa per scambiare altre due parole con quella ragazza, che ancora una volta – con il suo ottimismo della volontà (o dell’incoscienza?) - ha inferto un duro colpo al mio pessimismo della ragione. In pratica il suo ragionamento era questo: ho 23 anni, vuole che non trovi subito un altro lavoro? Pro forma, quasi per farmi contenta, ha aggiunto di mala voglia: «Certo, mi dispiace per le altre che sono più grandi, ma…». Già, ma: «ma bisogna essere positivi altrimenti le cose positive non succedono», come fosse colpa o merito del Fato. Nessuna presa di coscienza (e quanto fa male a cinquant’anni da quella presa di coscienza giovanile collettiva, di studenti operai operaie impiegati impiegate, che fu il Sessantotto), individualismo allo stato puro, nessun vago pensiero sindacale, nessuna solidarietà di classe: io so’ io perché ho 23 anni e voi che ne avete 30 e siete già “vecchie” non siete un cazzo. E cazzi vostri. Senza rendersi conto che, appena avranno finito di dire alle sue compagne di lavoro che sono troppo vecchie per essere assunte, lo diranno a lei che nel frattempo – fra un curriculum e l’altro, fra un colloquio e l’altro, fra una proposta indecente e l’altra – di anni ne avrà compiuti 24, 25, 26, 27… e sarà troppo vecchia per il mercato della carne fresca.
Mentre a me resterà la rabbia e il sospetto che al momento della formazione, oltre a insegnare loro come essere gentili con le clienti, a sorridere, a convincere la signora taglia 54 di essere portatrice sana di una 42, che «le sta benissimo!», le abbiano anche lobotomizzate ed educate a dire «sì, grazie» e a sorridere anche al signor padrone e a diventarne “complici” fingendo serenità per non metterne a rischio i profitti, mentre lui sta facendo a pezzi le loro vite.

Avrei voluto urlarle: «Alice, sveglia, questo non è il paese delle meraviglie dove ci sono solo un coniglio nevrotico e adorabili animaletti colorati: questo è il paese degli orchi». Invece ho salutato e me ne sono andata, a capo chino come se dovessi vergognarmi di qualcosa. O come se avessi appena preso atto di una sconfitta: perché so che quella ragazza non ha colpa, ma abbiamo colpa tutti noi della sua incoscienza di classe.