domenica 28 dicembre 2014

Un parcheggio multipiano al posto del Colosseo


C'erano due posti ai quali non rinunciavo quando, da ragazzina, andavo a Roma a trovare mia sorella che lì faceva l'università: Molayem al Pantheon - dove andavo a fare provviste sufficienti per un anno di incensi e patchouli, ché a quei tempi non te li tiravano dietro al mercato come oggi - e Rinascita, per comprare libri, dischi, gadget e, soprattutto, respirare comunismo. Ci passavo delle ore.
Molayem è finito nella merda già da tempo e Rinascita lo segue adesso: mentre a Torino la casa di Gramsci è già diventata un albergo di lusso, oggi a Roma Rinascita diventa un supermercato, il tempio del capitalismo selvaggio. Come dire? Dio è morto, Gramsci è morto e anch'io non mi sento tanto bene. Anzi: mi sento malissimo e avverto un senso di nausea che nemmeno un'intera confezione di Debridat mi potrà guarire.
Io poi a Rinascita, il giornale, molti anni dopo (e chi me lo doveva dire?), ci ho lavorato, e questo mi inorgogliva molto. Rinascita è stata travolta qualche anno fa dalla mancanza di soldi dei partiti comunisti che ha ucciso i partiti e i giornali comunisti - perché tutti si lamentavano dei partiti che sono "tutti uguali", ma nessuno votava per noi che eravamo diversi - e però mai avrei immaginato che dei luoghi storici potessero fare quella fine, senza che una sovrintendenza o una qualunque istituzione culturale si opponga. E' come prendere a picconate il Colosseo per farci un parcheggio multipiano o buttare già il Teatro San Carlo di Napoli e mettere al suo posto un cinema multisala: cemento e profitto, profitto e cemento.
Oggi Rinascita, la libreria, il tempio della cultura comunista, viene picconata, buttata giù e uccisa come ultimo atto della sistematica distruzione di quelle idee di uguaglianza, libertà e diritti, oggi incarnata dal renzismo. Dopo l'articolo 18, sembra quasi "naturale" che svendano al capitalismo anche Rinascita. Ma non è naturale: è un'infamia.

Love intelligence


Ma come, le corna non erano una questione privata? Capisco che la gelosia possa fare più danni del terrorismo, ma non è troppo usare l'intelligence della prima superpotenza mondiale, pagata dai contribuenti, per scoprire se tua moglie o tuo marito s'è fatto l'amante?
A quanto pare quelli che guardano dal buco della serratura del mondo intero, ritenendo ciascuno di noi un potenziale terrorista, per oltre dieci anni avrebbero fatto anche altro: gli agenti della National Security Agency americana spiavano mogli e mariti, non solo le/i loro, ma anche quelli degli altri. Non si sa per voyerismo o per volontà ricattatorie, diciamo così per "arrotondare" lo stipendio, ma lo facevano. Come un Tom Ponzi o un Fabrizio Corona qualunque.
L'avevano soprannominata Loveint, love intelligence, facendo un torto all'intelligenza e un torto all'amore.
Sarebbe carino sapere che qualcuno di loro, mentre teneva d'occhio e d'orecchio l'amico, ha scoperto per caso che l'amico era l'amichetto della propria moglie, insospettabile come la moglie di Cesare.
Anche se ho il timore che, trattandosi di americani, non si accontenterebbe di una semplice scenata, ma scatenerebbe la terza guerra mondiale. Con la scusa - ça va sans dire - di esportare la democrazia a casa dell'infedele.  

sabato 27 dicembre 2014

Cerchio vizioso

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Io mi facevo due coglioni così. Quando da bambina vedevo mia nonna e le prozie in cerchio a recitare il rosario, ad ogni loro lamentosa giaculatoria mi facevo due coglioni così e mi veniva voglia di cominciare ad urlare e a correre per la strada come un'assatanata con istinti assassini. O di fare le capriole pur di squarciare quell'atmosfera lugubre, nebbiosa e oppressiva.
Devo ringraziare i vari Fassina, Civati e compagnia arlecchinando, cioè la pattuglia acrobatica della cosiddetta sinistra Pd, per avermi restituito questa immagine dimenticata della mia lontanissima infanzia. E' esattamente quello che provo ad ogni loro ora pro nobis: "è inammissibile, va contro i lavoratori", "non è di sinistra", "Renzi segue la troika". Ma restano in cerchio e ad andarsene non ci pensano nemmeno, al massimo si astengono, amoreggiano con una sinistra annacquata e rosée, ma restano incollati alla poltrona nel cerchio vizioso del potere per il potere.
Quello sta lì con le mani insanguinate, che accoltella l'articolo 18, e loro lo guardano restando seduti e chiusi in cerchio, lanciando di tanto in tanto il loro ora pro nobis circolare, ossessivo e noioso: "è inammissibile, va contro i lavoratori", "non è di sinistra", "Renzi segue la troika".
Ovviamente anche oggi i giornali sono pieni delle loro dichiarazioni di sdegno, alle quali dall'altra parte si risponde con l'accusa di "prese di posizioni ideologiche": come da canovaccio di quella Commedia dell'Arte che è la politica italiana. Però non fa ridere. Anzi: ti vengono due coglioni così.

domenica 14 dicembre 2014

Veronica


Veronica si chiama. Come quell'altra già condannata senza processo, senza interrogarsi sul carico di violenze e di solitudine accumulati in pochi anni di vita e che ti può portare alla pazzia. Veronica si chiama, come molte sue coetanee, debore con l'acca, jessiche con la g. Una Maria o una Giovanna non le trovi più a pagarle oro. Prodotti di una televisione malata, sogni da soap opera, vite da incubo, senza uno straccio di prospettiva, un aiuto qualunque.
Veronica l'ho conosciuta stamattina ad una festa di quartiere: sembra una bambina, lo sguardo mite e smarrito; e invece è già mamma di tre bambini, la più piccola in passeggino, il più grande ha già dieci anni.
Racconta storie di solitudine Veronica e forse nemmeno lo sa: il marito lavora (beato lui, verrebbe da dire, qualunque lavoro faccia, se non fosse che è chiaro che non ce la fanno a sfangare) e lei da sola non ce la fa ad occuparsi dei bambini.
Non chiede la luna, né per sé né per i propri figli: vorrebbe soltanto che non crescessero in strada, chiede soltanto uno o due pomeriggi di doposcuola per proteggerli dai pericoli che incontrano in quella strada: le auto, certo, ma anche tutto il resto, quello che non si può dire. Solo uno o due pomeriggi di doposcuola, perché la sua solitudine non si trasformi in disperazione come per quell'altra Veronica alla quale qualcuno attribuisce "un'indole malvagia".
Forse basterebbero soltanto un po' di attenzione e di servizi sociali: veramente sociali, cioè il minimo per rendere umana la vita degli esseri umani.

domenica 7 dicembre 2014

Quindici


Una rottura di cazzo. Diciamocelo: il gioco del Quindici di quando eravamo bambini, se uno non aveva pazienza (e io non ne ho mai avuta), era una rottura di cazzo. Stavi lì ore a cercare di mettere ogni numero al suo posto, di trovare la quadratura del quadrato, e ti veniva voglia di lanciarlo quanto più lontano possibile.
Poi ho cominciato a fare politica. E negli anni ho capito che il Quindici ne era la quintessenza. Rimpasti di giunta, messe a punto di governo, congressi di partito, la storia è sempre la stessa: ci sono quei quindici che vanno piazzati, cambiano posto, ma restano sempre dentro il quadrato. Smuovi i numeretti e uno che era sindaco te lo ritrovi capo del governo, coglione ma capo del governo: casella uno; l'otto giù il tre su e alla casella cinque - segretario del partito - trovi un altro che era stato consigliere comunale; tredici a destra dieci in alto a sinistra e al nove spunta un assessore; sposti il sette e sale il quattro e il trombato elettorale è piazzato in un cda di qualcosa, foss'anche la bocciofila.
Così all'infinito, a muoversi dentro un quadrato come un leone in gabbia, a fare le vasche come in una piscina pensando che sia l'oceano. Sempre con gli stessi numeri e le stesse facce che cambiano soltanto posto e che vorresti lanciare il più lontano possibile.
Il problema è che a considerarla una rottura di cazzo siamo rimasti soltanto in quindici. Tutti gli altri ci sguazzano, prigionieri della loro stessa piscina, illudendosi di essere liberi come pesci nell'oceano.

lunedì 1 dicembre 2014

Un vaccino contro la malvagità


Ma perché questo vizio tutto italico di concedere il diritto all'immortalità alla gente solo perché ha eccelso nel suo campo? Agli altri che non sono stati nessuno non spetta alcun salvacondotto e a chi è stato ricco e famoso invece sì?
Leggo su uno dei tanti siti on line un articolo sulla morte di Carolina Lama, "la più grande violinista del '900", di cui si sospetta sia morta a causa del "vaccino killer".
Non mi addentro nella discussione sui vaccini, perché non ne ho le competenze, anche se dei colossi farmaceutici penso il peggio possibile, ma il fatto è uno: questa signora aveva 92 anni e non è servito a salvarla dalla morte il fatto di essere stata "la maggiore strumentista italiana ed europea di viola del ‘900", di avere insegnato all'Accademia di Santa Cecilia, avere "svolto una lunga ed affermata carriera concertistica in tutto il mondo, con oltre duemila esibizioni, anche in qualità di solista" e di essersi "esibita in tutti i maggiori teatri d’Europa, Asia, Africa, Nord e Sud America".
Aveva 92 anni, punto. Aveva 92 anni, si è sentita male (e probabilmente si sarebbe sentita male anche senza vaccino) ed è morta, punto. A novant'anni è facile che si muoia, facciamocene una ragione. Dopo può capitare che qualcuno meriti di essere ricordato di più e qualcuno meno (non per le persone che lo amavano), ma se uno muore a novant'anni passati non è un'ingiustizia: è la vita, è la morte.
Un'ingiustizia, un orrore è se una donna qualunque, una donna senza nome viene uccisa in guerra o dal suo ex compagno, in quella guerra atroce ingaggiata da maschi impotenti contro il genere femminile. Un'ingiustizia, un orrore è se centinaia di persone muoiono perché qualcuno si arricchisce infarcendo di amianto i loro corpi come fossero bignè al cioccolato. Un'ingiustizia, un orrore è se un bambino qualunque, un bambino senza nome viene violentato e ucciso da un pedofilo. Un'ingiustizia è che quel bambino sia diventato famoso perché è stato ucciso e non perché gli è stato dato il tempo di diventare un grande letterato, un grande pianista o un grande attore consentendogli - come i più - di morire di vecchiaia.
Dovrebbero inventare un vaccino contro la malvagità. Ma crollerebbero le vendite di armi, di droga e di tutte le porcherie del mondo. E questo il mercato non lo vuole, non può permetterselo.

martedì 18 novembre 2014

Voltagabbano


Oggi su Facebook si disquisiva sul sesso degli angeli. O meglio: del curriculum, strumento attraverso il quale si dovrebbe trovare il lavoro adeguato alle proprie competenze. Il quale lavoro - come gli angeli e dunque come il loro sesso -, però, non esiste.
Nello specifico, si parlava del plurale di curriculum a partire da un pezzo pubblicato dall'Huffington Post e firmato da tal Umberto Croppi, evidentemente ritenuto da qualcuno un esperto in materia, il quale afferma - con fascistissima certezza - che il plurale di curriculum è curriculum mentre curricula sarebbe una specie di esercizio onanistico praticato da quelli che hanno studiato il latino per far vedere che hanno studiato il latino.
Ora, non c'è dubbio che il signore in questione, diplomato sommelier, con un curriculum da esperto in comunicazione e direttore di un'agenzia pubblicitaria, debba essere davvero un'autorità in materia di ricerca del lavoro se nell'arco della sua vita ha ricoperto incarichi nazionali nei partiti, passando allegramente dall'Msi alla Rete ai Verdi e approdando ad Alemanno e poi a Marino. Però viene puntualmente e doviziosamente smentito dall'Accademia della Crusca che spiega come il plurale di curriculum sia proprio curricula, con buona pace di Croppi.
Ovviamente ciascuno resterà sulle proprie posizioni. Nulla quaestio. In alternativa, si potrebbe ovviare al problema adottando il metodo Cochi e Renato: "Io ho mandato un curriculum, anzi due".
Resta il fatto che per trovare lavoro non serve il curriculum, ma una gran botta di curriculum. A meno che uno non decida di fare di mestiere il voltagabbana. A proposito: bisognerebbe chiedere a Croppi, superesperto in materia, se voltagabbana al maschile fa voltagabbano. E comunque: in vino veritas.

venerdì 14 novembre 2014

U saziu nun cridi o diunu


Ponte? Sì, certo, ponte. Dalle parti mie volevano farne uno che non serviva a niente, se non a far guadagnare soldi alla mafia e a qualche azienda a rischio bancarotta, a mantenere in vita una società fantasma popolata da fancazzisti stipendiati a peso d'oro, ad ammazzare con il buio tutto quello che ci stava sotto e a intralciare il volo di quello che ci stava sopra.
A Palermo ce n'è uno, quello sul fiume Oreto, dove la gente - soprattutto se disoccupata - si suicida a grappoli.
Ma non sembra che siano questi i ponti che preoccupano Ernesto Carbone, presunto brillante ex manager e presunto brillante parlamentare renziano secondo cui lo sciopero generale della Cgil è stato indetto per il 5 dicembre con l'obiettivo di far fare un bel ponte ai lavoratori. Che quindi, se tanto mi dà tanto e se non interpreto male il senso del suo tweet ("Così il ponte è servito", concetto ribadito oggi affermando di non avere intenzione di chiedere scusa per quello che ha scritto), sarebbero dei fannulloni.
Non torno sul fatto che i lavoratori scioperando perdono la paga, perché solo quelli in mala fede fingono di non saperlo, ma mi soffermerei piuttosto su alcuni episodi molto poco onorevoli della vita politica, personale e professionale del fedelissimo del bullo di Palazzo Chigi. A cominciare dal fatto che è stato sotto processo per sostituzione di persona perché si sarebbe intrufolato nel profilo Facebook di una sua ex per ricoprirla di merda. Lui sostiene di essere stato assolto ma della sua assoluzione in rete non c'è traccia. Crediamogli sulla parola.
E dobbiamo credergli sulla parola anche quando giura e spergiura di avere agito "in piena legittimità" per difendersi dall'accusa di essersi dato alla pazza gioia con la carta di credito aziendale quando era presidente e amministratore delegato della società Sin.
Una cosa che difficilmente il giovane renzista potrà smentire - a meno che non si voglia sostenere che il sito della Camera dei deputati è Dagospia o Chi - è quello che si legge nella sua pagina istituzionale e cioè che dal suo insediamento nel marzo 2013 Carbone ha presentato come primo firmatario una sola proposta di legge. Dunque, chi sarebbe il fannullone?
Qualcuno informi Carbone che il giorno dello sciopero generale a protestare contro le politiche del lavoro del governo di destra-destra guidato dal suo amico Matteo Renzi ci saranno anche migliaia di persone che il ponte, malgrado loro, lo fanno 365 giorni l'anno. Si chiamano disoccupati e giornalmente pensano che sarebbe meglio buttarsi giù da un ponte. Ma dubito che capirebbe: come si dice dalle mie parti, "u saziu nun cridi o diunu".

mercoledì 12 novembre 2014

Speriamo che non caghi


Mi sono sentita (e continuo a sentirmi) come Annamaria Franzoni. Cioè mi sono sentita come avrebbe dovuto sentirsi Annamaria Franzoni quando ha deciso di fare un altro figlio: una merda.
Un gatto (come un bambino o un amore) non si sostituisce così, da un giorno all'altro e nemmeno da un secolo all'altro. Io non lo volevo un altro gatto. E io, fra l'altro, non me n'ero sbarazzata: io Ernesto lo avrei tenuto altri 19 anni e altri 19 e poi ancora 19, se le leggi della natura non fossero implacabili. Come Ernesto non ci sarà mai nessun altro (e nemmeno come Alice, che era la sua ombra al punto da seguirlo poco dopo per la disperazione di non vederlo tornare), perché lui era - come dice una mia amica - "il gatto della vita" e il gatto della vita non può che essere uno solo. E' "il": non è "un".
Però il cuore è elastico e ci infili dentro tutta la roba e tutta la gente che vuoi, senza che l'una escluda l'altra. Così, quando un'altra amica mi ha segnalato questo scricciolo con la motivazione che, essendo rosso, si intonava bene alla mia casa (alle mie poltrone, ai miei capelli, alle mie idee), ho pensato che avrebbe potuto farmi cambiare parere rispetto alla mia decisione irremovibile. E poi una casa non è casa senza fusa e quei pochi etti di pelo che da un paio di giorni rispondono al nome di Crodino (in realtà, naturalmente se ne fotte e non risponde affatto o solo quando decide lui) di fusa ne producono una quantità sufficiente ad alimentare una centrale termoelettrica e ne rivendicano a viva voce che manco Maurizio Landini sarebbe capace di fare tanto.
Dunque si ricomincia, o più semplicemente si continua, senza avere eliminato né dimenticato nessuno. Gli altri ricominciano con pappe e pannolini; io, che non ho più l'età, ricomincio con insalate di peli, collant sfilati, impronte dei gommini sul pavimento appena lavato e fili tirati nei vestiti. A lui raccolto dalla strada e a me perennemente in mezzo a una strada faccio un augurio, perché non ne possiamo più di sfiga: in culo alla balena. E speriamo che non caghi. Il gatto, non la balena.

martedì 11 novembre 2014

Manichini


C'è una foto raccapricciante dell'agenzia Ansa sull'alluvione di oggi a Chiavari: sono manichini, trascinati via da un negozio di abbigliamento, che galleggiano per la via a faccia in giù come cadaveri sul pelo del fiume. 

Un'immagine che fa più paura e trasmette più sconforto delle notizie che nel frattempo arrivano sui morti veri.

Perché è l'essenza di un intero Paese: manichini in balìa della piena di una classe dirigente politica e imprenditoriale che punta al profitto, coûte que coûte, anche a costo di disintegrare l'ambiente e uccidere gli esseri viventi. Immagine e concetto tanto più raccapriccianti soprattutto se arrivano negli stessi momenti in cui un ministro del governo dello Sblocca Italia, tal Gian Luca Galletti, di professione uomo di Pieferdinando Casini (quello con il suocero palazzinaro, per capirci) nonché commercialista, a quanto pare senza la minima competenza ambientale o vocazione ambientalista, interviene agli Stati generali contro il dissesto idrogeologico e con tipica ipocrisia democristiana annuncia che "in questo Paese non ci saranno più condoni edilizi, perché sono dei tentati omicidi alla tutela del territorio".

A parte l'incongruità della frase (che vuol dire "omicidi alla tutela del territorio"?), dalla quale infatti molti giornalisti hanno tolto le ultime quattro parole facendo apparire Galletti come una specie di salvatore della Patria, i condoni edilizi non ci saranno più probabilmente perché grazie allo Sblocca Italia si potrà costruire, trivellare, "grandoperare" a piacimento senza bisogno di autorizzazioni preventive e quindi di eventuali sanatorie successive.

Problema risolto "a monte" dunque, mentre a valle - a causa dei manichini che continuano a definire di centrosinistra questo governo e di sinistra il principale partito di questo governo - faremo tutti la fine dei manichini, trascinati dalla corrente, travolti dalle frane, seppelliti dal dissesto idrogeologico ma soprattutto da quello politico e morale.

 

venerdì 7 novembre 2014

In fila per due


A Milano c'è uno che si è inventato un lavoro dal nulla. Talmente bravo - stando, almeno, a quanto ci racconta dal suo sito - da riuscire a firmare una convenzione con la Camera di Commercio e da depositare al Ministero il primo contratto collettivo di lavoro della categoria.
Il suo è un lavoro che nessuno vuole più fare. Anzi, un lavoro che nessuno ha mai voluto fare. Perché - diciamocelo - è una gran rottura di coglioni.
Il tipo è un ultracinquantenne campano iperqualificato al quale, dopo essere stato licenziato, sarebbe toccata la stessa fine di tanti ultracinquantenni iperqualificati: la disoccupazione a vita. Sicché si è inventato questo lavoro: il codista. Cioè fa la coda alle poste, all'ufficio delle entrate, dal medico, ovunque ci sia da fare una fila, al posto degli altri. E ora lo insegna pure con corsi di formazione in giro per l'Italia, al termine dei quali si diventa "codisti certificati" che lui si occupa personalmente di selezionare e inviare alle aziende che ne fanno richiesta.
La prestazione del codista - minimo due ore - si paga 10 euro l'ora Iva esclusa. Non è chiaro dove si timbra il cartellino e come si fa a dimostrare di avere impiegato tre ore e non, per un'iperbolica botta di culo, dieci minuti.
Né si evince se i corsi di formazione prevedono anche imprecazioni e bestemmie o stratagemmi per saltare la fila o se è previsto il diritto di sciopero per condizioni di lavoro disagiate: tipo file troppo lunghe, per esempio.
Quello che invece è chiaro è che anche lui, come ormai la stragrande maggioranza degli italiani con titolo di studio superiore, scrive po' con l'accento. E io - guarda un po' -, pur riconoscendo il giusto merito all'inventiva campana, questo laureato in Scienze della Comunicazione lo rimanderei in fila: in fila per due davanti a un'aula di prima elementare.
O gli direi, come Salvo Ficarra a Valentino Picone nella Repubblica fondata sulla disoccupazione: "Tu laureato in Scienze della Comunicazione? Ma se ti capisco solo io!"
E poi, scusa, come fai ad avere cinquant'anni ed essere laureato in Scienze della Comunicazione? Lunga la fila, eh?

mercoledì 5 novembre 2014

Scarti della società


Io me ne frego se ad essere colpita è Marianna Madia, che mi sta politicamente sul cazzo come tutte le ministre e i ministri del governo Renzi, primo ministro in testa: il punto è un altro. Il punto è che i politici si attaccano su questioni politiche e con argomentazioni politiche e un giornalista o sedicente tale non può permettersi di dare impunemente della pompinara a una ministra della Repubblica ma nemmeno all'ultimo scarto della società e nemmeno se questo è funzionale a sostenere una notizia.
Che non c'è. Che notizia è - per quanto per un giornale di merda - che una giovane donna stia in macchina con il proprio marito in un momento di pausa a mangiare un gelato? Sarebbe stata una notizia se il gelato lo avesse pagato la presidenza del Consiglio dei ministri (come fu per quello che sfrontatamente Renzi offrì al mondo intero a spese di tutti noi); sarebbe stata una notizia (ma solo per i parametri di un giornale di merda) se invece che con il marito fosse stata in macchina con l'amante; sarebbe stata una notizia se invece di leccare un gelato fosse stata sorpresa a sniffare una pista di coca.
Ma il "giornalista" Alfonso Signorini, direttore di un giornale di merda, proprietà (lui e il giornale) di un uomo per il quale le donne sono solo delle troie da pagare, pur di vendere qualche copia in più non ha disdegnato la non notizia e il titolo malizioso, ammiccante, umiliante: "Marianna Madia ci sa fare con il gelato".
Tale e quale a quegli scarti della società - loro sì - malati di arretratezza culturale, nei quali ancora capita di imbattersi nelle vie delle nostre città presunte civilizzate: personaggi - ma, almeno loro, con l'attenuante dell'ignoranza - che sembrano essere usciti da un film di Ciprì e Maresco, voce roca, capelli unti, pancia strabordante, cristi d'oro al petto che ti vedono mentre passeggi con il gelato in mano e ti rivolgono una frase alla Signorini. Personaggi, gli uni e l'altro, che ti provocano soltanto nausea e disgusto, personaggi di cui faremmo volentieri a meno: scarti dell'umanità, appunto. Ma nel caso di Signorini senza alcuna attenuante.

P.S.: Mi aspetterei che l'Ordine dei giornalisti della Lombardia lo prendesse, come merita, a calci in culo. Ma temo che, ancora una volta, come nel caso di Renato Farina, dimostrerà la propria inutilità.

martedì 4 novembre 2014

Tutti insieme appassionatamente


Al liceo mi capitava di fare una versione dal latino o dal greco quasi all'impronta, ho studiato due lingue fin da bambina (quando era già tanto se ne studiavi una sola), ho frequentato la facoltà di Lingue, ho un titolo di traduttore conseguito al Centro culturale francese della mia città. Tutto questo non "per spacchiarmela", come si dice nella lingua della mia regione, ma per dire che non ho niente in contrario all'uso delle lingue straniere e che, anzi, non considero straniere ma sorelle tutte le lingue, morte, vive o malaticce che siano.
Però poi mi arriva un comunicato stampa che nelle prime otto righe contiene le parole brand, shooting, mood, social, selfie wall, location, e mi girano i coglioni. Perché mi viene in mente Matteo Renzi e il suo job act e tutti i suoi prisencolinensinainciusol che lui usa senza saper parlare l'inglese ma per parlare la lingua dell'imbroglio.
E da Renzi a Renzo il passo è breve: "Uscito poi, e camminando di mala voglia, per la prima volta, verso la casa della sua promessa, in mezzo alla stizza, tornava con la mente su quel colloquio; e sempre più lo trovava strano. L'accoglienza fredda e impicciata di don Abbondio, quel suo parlare stentato insieme e impaziente, que' due occhi grigi che, mentre parlava, eran sempre andati scappando qua e là, come se avesser avuto paura d'incontrarsi con le parole che gli uscivan di bocca, quel farsi quasi nuovo del matrimonio così espressamente concertato, e sopra tutto quell'accennar sempre qualche gran cosa, non dicendo mai nulla di chiaro; tutte queste circostanze messe insieme facevan pensare a Renzo che ci fosse sotto un mistero diverso da quello che don Abbondio aveva voluto far credere".
Pure a Renzo - che era un poveraccio ma non era stupido - giravano i coglioni intuendo l'inganno nelle parole di Don Abbondio: "Si piglia gioco di me? - interruppe il giovine. - Che vuol ch'io faccia del suo latinorum?"
Ecco, Renzi, che vuol che noi facciamo del suo inglesorum e dell'inglesorum sotto vuoto spinto di politici improvvisati e giornalisti servi che usano brandelli di una lingua straniera per imbrogliarci? Un brand è un marchio. Esiste la parola in italiano. Come esistono "servizio fotografico", "stato d'animo", "autoscatto", "muro" e piano per il lavoro. Ma per voi piano per il lavoro significa piano per i licenziamenti e per voi esiste - ultimo grido della moda - un'unica categoria chiamata "operatori del lavoro", cioè un tutti insieme appassionatamente padroni e sfruttati.
Mi dispiace per lei, signor finto innovatore, ma io non le permetto - né a lei né a quel concentrato di vacuità rappresentato dai suoi adepti politici e giornalistici - di prendersi gioco di me: per me un padrone è un padrone e un lavoratore è un lavoratore e non possono stare dalla stessa parte. E a farvi fottere, per quanto mi riguarda, vi ci mando in italiano.

venerdì 31 ottobre 2014

Legittima difesa


Lettera a una Picierno purtroppo nata (mentre sarebbe stato mille volte meglio un aborto terapeutico).
Disoccupata da anni, da anni non vado a manifestazioni che non siano raggiungibili a piedi da casa mia. Come molti disoccupati, come molti lavoratori sottopagati o a rischio licenziamento, per i quali scioperare è un lusso che non possono permettersi. Questa volta no: questa volta la situazione si stava facendo troppo grave per non andare a Roma il 25 ottobre, per non fare sentire forte la nostra voce contro il governo del fascistello in camicia bianca. Ma - Picierno sarà delusa - il pullman non me l'ha pagato la Cgil. La Cgil ha avviato una sottoscrizione per quelli che volevano partire in treno e sono stati tantissimi quelli che, pur non potendo partire, hanno voluto dare il loro contributo per consentire ad altri di farlo. Lo posso testimoniare perché, nel mio piccolissimo, ho fatto da tramite fra la Cgil della mia città e i miei compagni.
Io sono andata in aereo (come da allegata pezza d'appoggio), con i miei soldi, prendendo un biglietto a 50 euro con un mese d'anticipo, appena indetta la manifestazione ma quando ancora le questioni organizzative non erano forse nemmeno in discussione. Dovevo esserci e l'ho fatto. Ryanair - ha presente, Picierno? -: quelle specie di diligenze dove da un momento all'altro ti aspetti di vedere spuntare Calamity Jane e che di solito, invece di atterrare, fanno un tuffo carpiato con triplo salto mortale. Dovevo esserci, ho preso cinquanta euro del mio inesistente bilancio e ho fatto il biglietto. Anche se questo significherà aggiungere privazioni a privazioni. Ho fatto la mia valutazione politica e non mi ha pagato nessuno.
E mi sento offesa. Di più: potrei dire (ma non lo farò) che non accetto lezioni di morale dalla discepola del re delle clientele. Potrei dire (ma non lo farò) che Picierno è una stronza. Posso dire a testa alta che non mi ha mai pagata nessuno per pensare. Posso dire a voce alta - nella speranza che qualche magistrato lo senta - che nelle parole dell'ultras renziana non c'è alcun diritto di cronaca o di critica ma soltanto diffamazione, reato penale che commette chi colpisce l'onore e la reputazione delle persone e per il quale è previsto il carcere. Diffamazione non soltanto verso Susanna Camusso o la Cgil, ma verso tutti noi - un milione, fatevene una ragione - che eravamo a Roma il 25 ottobre. E quindi se io dico (non: "potrei dire", ma "dico" perché non sono una vigliacca) che Picierno è una stronza, la mia è legittima difesa.





mercoledì 29 ottobre 2014

Eventualmente

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C'è una stronza - non vedo in che altro modo definirla - che su subito.it ha pubblicato un'offerta di lavoro con la quale cerca qualcuno che vada a casa sua per fare il doposcuola a suo figlio, alunno di scuola media. Dice che bisogna stare là tutti i pomeriggi dalle 15,30 finché non ha finito i compiti, dunque almeno tre ore al giorno, e che lo stipendio - si fa per dire - sarà di cento euro mensili. Aggiungendo che si farà una settimana di prova, "eventualmente" retribuita. Dunque, eventualmente, anche aggratise.
Quindi la stronza pretende che un/una giovane, dopo aver passato dai tre ai cinque anni e anche più a studiare e - per studiare - avere speso migliaia di euro fra libri e tasse universitarie, vada da lei a fare non soltanto un lavoro che magari non era esattamente quello a cui aspirava, ma per di più per ricevere un euro virgola sei periodico per ogni ora di lezione. Roba che un'ipotetica figlia maggiore liceale, se sua madre le avesse proposto di fare lezione al fratello ciuccio aumentandole la paghetta mensile a cento euro, l'avrebbe mandata a cagare malgrado l'amore fraterno spiegandole che nemmeno per fare le pulizie si prende così poco e soprattutto che tre/quattro ore al giorno per cinque giorni a settimana significano un lavoro impegnativo. Significa, per esempio, non avere tempo per studiare. E all'ipotetica figlia maggiore liceale andrebbe pure bene, perché non avrebbe spese di benzina o di autobus per raggiungere il cosiddetto luogo di lavoro.
Ho risposto all'annuncio della stronza, unicamente per chiederle se non si vergogna, e sarebbe divertente se ciascuno che si imbatte in quell'offerta/offesa facesse lo stesso. Intanto, anche senza forzare troppo con l'analogia, io ci vedo almeno due o tre illeciti: violazione dell'articolo 36 della Costituzione, caporalato, mobbing (non è forse violenza privata considerare meno della merda la professionalità altrui?). E forse qualcuno dovrebbe ragionare sulla possibilità di denunciare la stronza e le altre stronze e gli altri stronzi come lei. Ma prima bisognerebbe denunciare e cacciare via a calci in culo chi permette alla stronza di essere stronza: magari il fascista in camicia bianca amico dei padroni secondo il quale il posto fisso non esiste più e quell'altro con la faccia da ebete che ci propina la bizzarra equazione sciopero generale = più disoccupazione. Magari bisognerebbe mandarli tutti e due al doposcuola. O farli ricominciare dalle aste, "eventualmente" bocciandoli e rimandandoli in prima elementare finché non capiscono che il lavoro merita rispetto e diritti.


domenica 26 ottobre 2014

Una famiglia allargata


Sapete che vi dico? In questo momento non parlo come dirigente di partito e scrivo mentre è in corso il Comitato centrale del mio partito a cui non ho potuto partecipare e che non so cosa deciderà; non fraintendetemi, però: non smetto dopo più di quarant'anni di essere comunista, ma - sapete che vi dico? - mi iscrivo al partito nato il 25 ottobre. A San Giovanni c'era un milione di persone e per ognuna che è partita ce n'erano almeno altre cinque che per varie ragioni (soprattutto economiche, perché a questo è servito anche lo smantellamento di tutti i diritti: ridurci alla fame per toglierci pure la possibilità di protestare) non hanno potuto esserci: almeno cinque milioni di persone, più del doppio di quelle che (destri compresi, cioè i più) hanno votato Pd alle ultime elezioni europee.
Cinque milioni di persone sono un partito grosso. Sì, lo so: là in mezzo c'erano tanti che hanno votato Pd e che ora la devono smettere di fare i pesci in barile, perché non basta una manifestazione a cancellare la responsabilità di avere dato il Paese in mano a un avventuriero. Ma adesso abbiamo tutti un dovere: farlo vivere quel partito nato il 25 ottobre senza che nemmeno ce ne accorgessimo. E' come quei bambini nati senza essere stati programmati ma che, dal momento in cui esistono, si amano con tutti se stessi, perché sono belli, intelligenti, allegri, socievoli e hanno una gran voglia di vivere. Diamogli un nome: chiamiamolo partito del lavoro, partito per il lavoro, partito per la Costituzione (non era questo, forse, che rivendicavamo - lavoro e rispetto della Costituzione -, tutti noi, precari, pensionati, lavoratori a tempo indeterminato e a tempo determinato, disoccupati, due giorni fa a Roma?), chiamiamolo come cazzo vogliamo, ma nutriamolo e facciamolo crescere. Tutti insieme, come se avesse milioni di mamme e di papà, come se fosse una famiglia allargata, di quelle dove ci si vuole più bene che in quelle tradizionali e ipocrite che piacciono a Giovanardi.
Io se c'è un partito comunista sono contenta, ma se ce n'è uno di tutta la sinistra lo sono ancora di più: perché non è normale, in nessuna parte del mondo, che ci sia un partito di destra e non ce ne sia uno di sinistra. E non è normale che un partito di destra si definisca di sinistra. Io voglio un partito di sinistra. E chi preferisce che il bambino sia nato morto perché pensa di essere più a sinistra degli altri o pensa di avere il copyright e pretende di annettersi gli altri in nome di una sorta di purezza della razza è solo un criminale politico. Esattamente come Renzi e il suo partito dei padroni, degli evasori fiscali, dei mazzettari e dei cementificatori.
Qualcuno ha detto che Renzi non potrà non tenere conto di quel milione di manifestanti, pur sapendo che lui - da arrogante e sbruffone fascista quale è - non ne terrà conto: adesso il punto è che noi non possiamo non tenerne conto. Altrimenti ci mandiamo affanculo da soli, senza bisogno che lo faccia Grillo.

mercoledì 8 ottobre 2014

Servo dei marchionni


Allora, signor Fagiolo, ora ti spiego una delle ragioni per cui l'articolo 18 non andrebbe abolito ma esteso alle aziende con meno di 15 dipendenti.
Te lo spiego con un esempio facile facile, così - forse - anche tu lo puoi capire.
Metti che c'è in una regione piuttosto isolata dell'Italia uno che ha una fabbrica di vestiti dove impiega un buon numero di lavoratori, mettiamo un centinaio, tutti fidatissimi (alcuni perché naturalmente lobotomizzati, altri perché - pur odiandolo - lo temono non avendo un'alternativa), di quelli con cui nelle feste comandate ci si scambia gli auguri, retribuiti come da contratto nazionale, formalmente tutto in regola, dove si producono abiti a tutto spiano anche grazie a una rete di complicità più o meno illegali che gli garantiscono il monopolio.
Metti che lo stesso ha anche una piantagione dove si coltiva la pianta di cotone, una fabbrica dove si ricavano i filamenti, un'altra dove si producono i colori per tessuti, una dove si fabbricano le forbici, un'altra dove si fanno le macchine da cucire, una dove si costruiscono le lampadine per illuminare l'azienda di abbigliamento, un'altra ancora dove si fanno i termosifoni e una dove si fanno i condizionatori d'aria per riscaldare o rinfrescare l'azienda di abbigliamento, una dove si fabbricano i cessi per i dipendenti dell'azienda di abbigliamento, un'altra ancora dove si assemblano i mobili per arredare l'azienda di abbigliamento e così via. Tutte con meno di quindici dipendenti - molto meno: a volte soltanto due o tre -, tutte con almeno una macchina da cucire dove all'occasione confezionare qualche abito, tutte intestate alla numerosa prole, alla moglie, ai parenti fino all'ultimo grado e ai dipendenti lobotomizzati del padrone della fabbrica di vestiti. Piccole aziende, che proprio per questo possono pagare i lavoratori infinitamente meno di quanto non siano pagati gli altri e che per questo hanno diritto ad incentivi. Che però finiscono tutti nelle tasche sformate dello stesso padrone.
Il quale (oltre a sfruttare i dipendenti e a mandargli gli sgherri a minacciarli quando provano a ribellarsi), se gli gira, perché gli stai sul culo, perché è un misogino, perché non gliela dai, perché resti incinta, perché fai attività sindacale, perché sei comunista, perché sei una persona per bene e i suoi intrallazzi non ti piacciono, per una ragione qualunque, insomma, si può inventare che l'azienda va male e ti licenzia. E tu non hai strumenti per difenderti, non hai potere contrattuale, non puoi aspirare alla solidarietà umana dei tuoi compagni di lavoro perché sarebbe come chiedere loro di suicidarsi, non puoi obiettare che - trattandosi di un gruppo imprenditoriale e non di una piccola azienda familiare - ti potrebbe ricollocare nella casa madre. Così lui licenzia la gente a grappoli, senza giusta causa e senza motivo se non quello di aumentare i propri profitti sfruttando i dipendenti come bestie da soma.
Nella regione lo sanno tutti che lui è il padrone di tutto, ma - per paura, per ignavia o per complicità - nessuno dice niente. E lui continua a vendere stock di vestiti scadenti e fuori moda - perché tanto non c'è un altro che li fabbrichi in tutta la regione - e a prendersi i contributi dello Stato per sostenere la sua grande impresa con la scusa che servono alle piccole aziende intestate a parenti stronzi quanto lui e a dipendenti lobotomizzati.
Questa, caro il mio fagiolone, e senza tenere conto degli altri reati commessi dal monopolista dell'abbigliamento, si chiama truffa ai danni dello Stato e se tu fossi veramente uno statista questo non dovresti permetterlo: dovresti rompergli il giocattolo estendendo l'articolo 18 anche alle aziende con meno di 15 dipendenti. Ma sei un servo dei padroni, un provinciale alla corte dei marchionni. E un inutile fagiolone.

lunedì 6 ottobre 2014

West Side Story 2.0


"Solo sprangate altro che parlare costa gente". Costa, scritto così. Virgole e altra punteggiatura manco a parlarne. E già basterebbe questo, perché non è che se intrattieni una conversazione su Facebook devi fare per forza l'asino. Il problema è che questo asino è davvero e, più che la mancanza di virgole o le parole inventate, a dare la misura della sua ignoranza è il (dis)valore della frase. Tragedia doppia e tripla: perché queste parole denotano il senso di arrogante superiorità tipico dell'ignoranza, il razzismo nei confronti di qualcuno, la violenza come unico argomento. E per di più non è il ragionamento di un leghista contro un "negro" che, secondo la vulgata più comoda, ci viene a rubare il lavoro, ma razzismo privo della benché minima ricerca delle cause nei confronti di qualcun altro che ha manifestato razzismo verso chi ci viene a rubare non il lavoro ma la disperazione. Sulla quale, peraltro, non bisognerebbe litigare dal momento che ce n'è in abbondanza per tutti.
Razzismo al quadrato e pure al cubo, razzismo che genera razzismo dopo una scena alla West Side Story 2.0 osservata a Catania. L'ha raccontata su Fb un amico giustamente sconvolto: forse poco meno di un centinaio di ragazzi e ragazze fra i 14 e i 18 anni (verosimilmente gli stessi - sfumatura alta dei capelli per i maschi, abbigliamento e trucco da Crazy horse per le bambine - che il sabato pomeriggio scendono in centro dal loro quartiere privo di tutto e combattono la noia spintonando e spaventando i passanti), armati di catene e diretti verso il quartiere San Berillo per quella che è apparsa come una spedizione punitiva nei confronti dei numerosi immigrati che vi abitano.
Disperati contro disperati, i primi arrivati da un quartiere privo di tutto, i secondi approdati in un quartiere privo di tutto, capaci solo di parlare il linguaggio della rabbia, qualcuno accanendosi su qualcun altro in condizioni peggiori delle sue. Talmente carichi di rabbia (e forse anche di noia) da esploderne. Sembra che si siano divisi i giorni: il sabato i ragazzini catanesi contro i migranti (e, a quanto pare, pure contro i turisti), gli altri giorni bande di immigrati contro altre bande di immigrati. E per tutta la settimana, evidentemente, odio cieco su Facebook da parte di chi commenta i fatti.
Non so quale di questi razzismi mi spaventa di più, perché pensare che "costa" gente - cioè con i ragazzini dei quartieri popolari talmente emarginati da non essere capaci di vivere in mezzo alla gente - l'unico argomento di discussione possano essere le sprangate è forse la tipologia più spaventosa di razzismo, l'odio verso chi è diverso e non ci interessa sapere perché è diverso, perché è un disadattato.
Eppure, se quelli sono diversi per il colore della pelle, questi lo sono in testa per responsabilità di tutti noi: un ventennio di tv che offre modelli vincenti di troie e magnaccia in erba, genitori (almeno quelli che avrebbero gli strumenti per capire) che i figli li fanno ma non se ne curano, insegnanti demotivati o privi di mezzi, e persino noi che camminiamo per strada sbuffando alla vista di bande di ragazzini molesti e pensiamo "costa gente" solo sprangate, altro che parlare. Costa, costa carissima l'ignoranza e l'indifferenza di tutti noi.

sabato 4 ottobre 2014

Uguali


Qualche giorno fa ho visto la foto di un militante (?) del Pd siciliano intervenire a un incontro del suo partito. Oddio, "militante": non smetto di usare categorie démodées. Sembra che nel Pd, oltre a non essere rimasto nemmeno un briciolo di sinistra, non ci siano più militanti e tesserati (che poi le due cose sono collegate).
Diciamo che quella foto ritraeva un burocrate, uno destinato a diventare qualcuno, con il piglio di chi dà lezione, pantaloni blu con le pinces e stretti sotto, camicia bianca d'ordinanza.
Dovremmo esserci abituati, no, a vedere questi neoberluschini in divisa? E poi adesso anche i dati sul tesseramento ci confermano che il Pd è un partito di plastica, senz'anima, senza idee di sinistra e con molte idee di destra, senza passione e con molto calcolo. Eppure, no: fa impressione, ti suscita lo stesso raccapriccio che provoca la vista di uno di quegli enormi scarafaggi marrone di ultima generazione che hanno invaso le città prediligendo gli scarichi e hanno soppiantato quelli - rossi e molto più piccoli - che invadevano le case piene di libri. Lo stesso raccapriccio che provocava nei suoi familiari la vista di Gregor Samsa.
A rovistare, metaforicamente, nella merda c'è il rischio di una metamorfosi. Roba da vecchi rincoglioniti la militanza in un partito, le scuole quadri, gli scioperi per il lavoro, i volantinaggi nelle fabbriche e nei quartieri popolari, le riunioni di collettivo, i turni per la pulizia del cesso in sedi dove spesso non c'era l'acqua corrente. Meglio, molto meglio, per voi, i pantaloni blu e la triste camicina bianca, il partito come pollaio dove allevare clientes in batteria. I voti si prendono con i favori, i diritti si buttano nel cesso.
Me la rigiro mentalmente fra le mani quella foto e fra le mani vorrei avere lui, quel "militante" piddino, per assestargli un paio di ceffoni. Non sarà esattamente il metodo Montessori, ma a volte servono le terapie d'urto per aggredire malattie gravi come la carrierite. E ogni tanto uno schiaffo a un bambino può essere salutare. Già, perché quello che ho omesso di dirvi è che quel cosiddetto militante così tristemente bardato da yuppie renziano quarantenne era un ragazzo di appena diciassette anni. Anormale. Perché non è normale un ragazzino vestito in quel modo, a meno che non stia andando a fare la prima comunione (che già di per sé non è una cosa normale).
Se lo avessi fra le mani, gli direi: levati questa merda che hai addosso (e nel cervello) e vatti a mettere una maglietta ciancicata e un paio di jeans! Altrimenti, per te e per quelli come te è meglio una fine alla Gregor Samsa. Con una differenza rispetto a lui: che voi non siete dei diversi emarginati; voi siete drammaticamente degli uguali. Uguali a quelli dei club "Forza Silvio".

mercoledì 1 ottobre 2014

Lamette


Molti anni fa scrissi il classico romanzetto d'esordio - due terzi di autobiografia e un terzo di invenzione, violentemente shakerati nell'inutile tentativo di depistare quanti si sarebbero dedicati allo sport voyeristico dell'individuare i personaggi -: di quelli che si scrivono quando si ha bisogno di curare qualche malattia interiore.
Romanzetto che sarebbe rimasto nient'altro che il diario di un essere semplicemente complicato se io non avessi tentato di ingraziarmi protagonisti e lettori. Insomma, ho scritto quello che gli altri volevano sentirsi dire e che il comune sentire vuole sentire: ho espresso amore per una casa di cui odio l'impianto ideologico; ho riconosciuto saggezza a una persona che disprezzo; non ho sputtanato come avrebbe meritato un padre di merda; mi sono etichettata calcolatrice, su suggerimento di una scrittrice vera, perché sembra che una buona dose di cinismo non guasti e se sei stronza vendi di più.
Quindi il diario - in quanto tale autoconfessione e autocoscienza, e in quanto tale sincero - è andato a farsi fottere e il romanzetto è rimasto un animale ibrido con tutti i presupposti per essere sterile. Confesso che ogni volta che ci ripenso m'incazzo: magari nessun editore avrebbe pubblicato un diario che era soltanto tale, ma forse lo avrei preferito al non essere io.
Poi mi sono imbattuta in un libro di Michela Marzano, filosofa, parlamentare Pd (e questo è già un problema), quarantenne renziana (e questo è un grosso problema): "Il diritto di essere io", s'intitola ed è una raccolta di saggi prevalentemente sulle questioni di genere, pubblicati in precedenza su Repubblica. Tesine da liceali o da laurea triennale, in realtà: ben scritte, ma niente di più, sul piano dei contenuti, di quanto io e le altre (intendo le mie coetanee e coeve) non avessimo già appurato da anni con metodo empirico e cioè sulla nostra pelle.
Insomma, sono stata attratta dal titolo - perché è esattamente quello che rivendico da quel romanzetto in poi, quando scrivo qualcosa -, ma man mano che leggevo mi sono resa conto che non mi diceva niente di nuovo. Beh, però - ho pensato - forse potrà essere utile (ammesso che leggano) per le ventenni. Forse persino per le trentenni e le quarantenni berlusconianrenziane, convinte che per fare politica non servano le idee ma avere la figa ed essere delle strafighe da défilé di moda.
Poi ho capito che era una causa persa quando ho visto la Boschi a Ballarò, che ride quando parla di disoccupati e dell'Italia dice che è un Paese "molto bello", come una turista americana di passaggio. Very nice. E allora rivendico il diritto di essere io e di definire oca una che considero niente di più che un'oca; mentre come testo di riferimento più che la Marzano mi viene in mente Donatella Rettore: dammi una lametta che ti taglio le vene.

martedì 30 settembre 2014

Cent'anni di amicizia

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Sulla mia Lettera 32 (la stessa con la quale foravo le matrici dei volantini) ho battuto la sua tesi di laurea, a occhio e croce nel mesozoico; insieme a lui - e con altri pazzi come noi, come si è pazzi a vent'anni - abbiamo ciabattato dentro le nostre espadrillas nella casa di campagna dei miei nonni; insieme abbiamo creduto di poter cambiare il mondo; insieme abbiamo cantato allo sfinimento Generale di De Gregori; ci siamo scambiati confidenze e pene d'amore; ho passato più pomeriggi a casa sua che a casa mia, dividendomi fra i miei gatti e il suo gatto, e sua madre mi voleva bene come una figlia; suo padre mi ha regalato uno dei suoi dipinti quando mi sono sposata; suo fratello quando ho partorito mi ha regalato il fascio di rose rosse più grande che io abbia mai visto, manco fosse figlio suo.
Io tutte queste cose quasi non me le ricordavo più: erano conservate da qualche parte. Poi, mentre leggevo il "libretto d'opera" del cd, è stato come quando apri un cassetto: le foto in bianco e nero sono sbocciate tutte insieme all'improvviso.
Il cd è "Cent'anni", l'ultimo di Giampiero Mazzone, cantautore "pluridecorato" (no, qui non allegherò il curriculum - si trova in rete -: e non è che posso fare tutto io!), che è venuto a parlarne qualche giorno fa in occasione del Bukfestival a Catania, la città dove ha vissuto fin quando non è stato necessario diventare grandi e spiccare il volo.
Tipologia particolare di siciliano di scoglio, Giampiero: di quelli che se ne sono andati e dove stanno stanno bene, ma restano attaccati come le patelle non tanto o non solo alla loro terra come entità astratta (o come entità "turistica" di sole, mare, cibo, Etna... e che palle!) ma all'essenza profonda della Sicilia, di cui vive - e trasmette nei suoi brani - le questioni occupazionali mai risolte, l'assistenzialismo, l'emigrazione, il cancro della mafia. Non è un caso se - dopo secoli in terra straniera - alcune delle sue canzoni sono scritte in dialetto siciliano. E così ci ritrovi Fossati, Lolli, De Andrè, Guccini, gli anni Settanta insomma, ma anche (e pure questa è tutta "colpa" degli anni Settanta) le sonorità della musica popolare colta: quella, per capirci, che fa la differenza fra folclorico e folcloristico, che - come ci ha insegnato Alberto Mario Cirese - non sono affatto la stessa cosa.
Insomma, io di musica sul piano tecnico ci capisco poco, anche se appartengo a quella categoria di persone che morirebbero senza, e quindi il mio non può essere un giudizio da esperto. Ma visto che - come dice un altro mio amico - non sto scrivendo una recensione per Ciao2001, che io ci capisca qualcosa o no mi sembra che sia irrilevante. E, per di più, siccome sto parlando di un "fratello", non faccio testo.
I testi li fa lui, il mio amico Giampiero. E quei testi (insieme a quelle note) sono tutti miei, li sento miei: perché mi restituiscono cent'anni di battaglie, cent'anni di rabbia, cent'anni della sua triste ironia, cent'anni di amicizia.

venerdì 26 settembre 2014

Screenshottabili


Mio nonno, ogni volta che vedeva i Beatles in tv, li definiva - accompagnando la frase con una smorfia di disgusto - usando una parola siciliana che arriva dritta dritta dal francese: "Chi ssu affriggiùsi!" Affreux, abominevole, spaventoso, orribile, mostruoso, "extrêmement laid", ladiu dalle parti mie, lariu in catanese. Termine che riservava anche a Paolo Villaggio, soprattutto quando interpretava il professor Kranz.
Gli facevano schifo, li trovava disgustosi (gli uni e l'altro), ma è indubbio che erano entrati nella sua vita, un po' per le foto dei quattro che io ritagliavo dai giornali e appiccicavo - come tutte - sul diario e un po' per il tormentone dei "camilini d pliùsc" che facevo risuonare per casa con le mie imitazioni. E insomma non poteva ignorarli, fingere che non esistessero.
Così come sono certa che se oggi fosse vivo (e avrebbe circa 120 anni) saprebbe benissimo che esistono le intercettazioni telefoniche e gli screenshot. Magari non avrebbe chiaro il meccanismo, non lo si vedrebbe intento a sditeggiare con la mano sinistra in formazione completa per immortalare qualche puttanata di un rivale politico o di un avversario di briscola, ma certamente avrebbe l'accortezza di non scrivere cose compromettenti in una discussione pubblica. E, conoscendo la riservatezza del tipo, credo neanche parlando in chat con una persona alla volta.
Ora, la questione è questa: posto che siamo tutti intercettati e che siamo tutti screenshottati o screenshottabili, posto che ne siamo consapevoli e posto che non c'è cosa più "affriggiusa" e disdicevole della calunnia e che non è lo stesso bisbigliarla in un orecchio o metterla nero su bianco, mi spiegate perché alcuni sembra che ci godano a farsi beccare con le mani nella marmellata? E' stupidità molesta? E' la sindrome da Grande fratello che vi provoca un orgasmo ogni volta che qualcuno ascolta (o legge) le vostre parole, sia pure per sbattervi in galera per narcotraffico internazionale o per tangenti? E' narcisismo al limite dell'esibizionismo? Cioè, vorreste tanto andare al parco, aprire l'impermeabile e tirare fuori il pisello e invece vomitate parole in libertà al telefono o sui social sperando che qualcuno vi noti?
La sensazione è che vi piaccia più farle sapere le cose che farle, come quei maschi che non fanno un punto con le femmine però non fanno altro che raccontare storie da mille e una notte. Ma qui saremmo già nel campo - alto - della psicoanalisi. E invece siamo in quello - sotto il livello delle scarpe e per di più disgustoso, orribile, affriggiusu - dell'arroganza.

mercoledì 3 settembre 2014

Incubatore di solitudine


Qualche giorno fa un mio amico, fotografo di altissimo livello, ha manifestato un certo fastidio per tutti quelli che, senza conoscere nemmeno la grammatica di base della fotografia, condividono scatti improvvisati sui social network. Nei fatti, svilendo la professione.
Da un certo punto di vista, ha ragione: anch'io m'incazzo come una jena di fronte a tutti quelli che, non conoscendo la grammatica italiana né le regole base del giornalismo, si improvvisano giornalisti e hanno la presunzione di definirsi tali. Quando hai fatto secoli di gavetta e affrontato mesi di studio "matto e disperatissimo" prima di sostenere gli esami da professionista, il minimo che possa succederti è che ti girino a elica.
Sento però il dovere di fare una piccola difesa d'ufficio per gli improvvisati e inesperti fotografi - forse perché anche a me da qualche tempo è venuta questa fissa (ma non mi sognerei mai di definirmi "fotografo") -, chiedendo al mio amico fotografo di essere un po' più clemente, perché una piccola differenza c'è.
Prendi la luna. La luna bisogna guardarla in due: uno la vede, dice un "guarda!" come se fosse la prima volta nei millenni che la luna appare nel cielo e tutti e due sollevano lo sguardo accompagnando il gesto con un sospiro.
E se nel momento in cui vedi la luna accanto a te non c'è quell'uno che farebbe due? La fotografi e la metti su Facebook. Senza pretese. Soltanto per dire "guarda!" ad altri "uni" che in quel momento sono da soli in strada, al lavoro, al mare, a casa davanti a quell'incubatore di solitudine che è l'asocial network. E hai la sensazione di non essere da solo.
Anche se sai bene che a quegli uni puoi aggiungere tutti gli zeri che vuoi, farli diventare centinaia, migliaia, milioni, ma non saranno mai due.