venerdì 20 aprile 2018

Solo come un cane

Io lo so cosa si prova quando qualcuno fa male al tuo cane. Ho visto con i miei occhi – restando paralizzata e impotente - un uomo col bastone spezzare la zampetta di un cucciolo che gli ronzava intorno perché voleva giocare. Ho sentito quella bastonata fratturare anche le mie ossa, una per una; ho sentito il suo guaito e il mio. Sento ancora quel dolore, ogni volta che ci ripenso, ogni volta che un uomo mette in atto una vendetta trasversale nei confronti di una donna che odia costringendo un bambino ad assistere alla violenza o facendo del male all’unico punto fermo di quel bambino – cane, gatto o pappagallo che sia -, l’unico rifugio e l’unica fonte di affetto in quell’inferno che si ostinano a chiamare famiglia. 
Lo so talmente che vorrei avere davanti la faccia di merda che ieri a Roma, durante una lite furiosa con la moglie, ha strappato dalle braccia del figlio adolescente il suo cagnolino e lo ha lanciato dal settimo piano. Lo vorrei avere davanti non per sputargli in faccia o restituirgli la violenza – come pure istintivamente si sarebbe portati a fare -; del resto, lo hanno già arrestato e spero che chi lo deve giudicare terrà conto anche del fatto che dal 2005 è sancito, in tema di “violenza assistita“, che gli animali domestici sono figure di riferimento dei bambini e ragazzini. E che il dolore di un ragazzino e lo sconcerto di chi ha assistito alla scena non è «una pagliacciata», come ha detto l’assassino. Io quello lì lo vorrei guardare in faccia per fargli un quadro rapido dei sentimenti che proveranno verso di lui coloro ai quali ha fatto del male e di come sarà la sua vita.
A prescindere dal carcere, perché dal carcere – che è già una cosa terribile - prima o poi uscirà. Ed entrerà in un altro carcere: quello dei vicini (che infatti ieri lo volevano linciare) che lo disprezzeranno, dei familiari che tremeranno al pensiero di vederlo spuntare, di una madre che forse si vergognerà di lui, di una moglie che non vorrà più saperne perché avrebbe preferito essere ammazzata lei pur di non vedere soffrire il figlio, di un figlio che non vorrà incontrarlo mai più, nemmeno quando sarà vecchio e malato e avrà bisogno di assistenza e invece morirà solo, e glielo auguro di tutto cuore: solo come un cane.
Con la differenza che un cane, quel cane che lui vigliaccamente ha ucciso facendolo precipitare per 21 metri, dà affetto e quindi riceve affetto. Un cane non muore solo, un uomo malvagio invece sì. 

sabato 7 aprile 2018

Vita virtuale, morte reale

Che cosa assurda morire a trent’anni o poco più. Ma Lara non aveva trent’anni e non si chiamava nemmeno Lara.
Lara Mattei, così la conoscevamo tutti, un personaggio dei fumetti, l’alter ego proletario di Jessica Rabbit, una pagina piena di bandiere rosse, una nostalgia struggente per un capo politico evaporato. Intelligente, arguta, ironica. Lara Mattei, così la conoscevamo tutti, ma nessuno di noi la conosceva. Nessuno dei suoi “amici” (e per di più compagni) di Facebook sapeva che faccia avesse, alcuni convinti che quello fosse il suo vero nome, molti consapevoli che quello fosse un nick, quasi tutti impegnati a cercare di scoprire chi si celasse sotto quel nome e quell’improbabile foto da avatar. Non era un troll Lara: era una che esprimeva pensieri, interloquiva in maniera decisa e consapevole ma mai insultante o provocatoria, interagiva: la sentivi davvero amica, e per di più compagna.
Una volta Facebook mi segnalò che era il suo compleanno. Le mandai un messaggio d’auguri, aggiungendo «chiunque tu sia»: un po’ per precisare che, malgrado io odi l’anonimato, mi faceva piacere interloquire con lei/lui/loro/boh? E un po’ per ricordare a me stessa che io sono quella che crede solo a quello che vede e che forse non avrei dovuto essere lì a perdere tempo con una specie di fantasma.
A un certo punto Lara è sparita, ho pensato a una delle pause che di tanto in tanto ciascuno di noi si prende da Fb. Ieri abbiamo scoperto che Lara non si chiamava Lara (anche se questo già era chiaro a tutti), che non aveva poco più di trent’anni ma forse il doppio (sempre troppo pochi per andarsene) e che è morta da ben tre mesi. Come trovarsi in un salone delle feste pieno di gente che si diverte e all’improvviso scoprire il corpo senza vita di uno dei presenti, senza che nessuno se ne sia accorto, senza che nessuno abbia capito cosa stava succedendo.
In questo caso qualcuno che aveva notato qualcosa di strano c’era: dalla sua bacheca ho scoperto che in tanti la cercavano, che c’era chi aveva scritto ai suoi amici con lo stesso “cognome” nella speranza che fossero parenti a cui chiedere notizie, oppure cercando un marito che forse non esisteva, e chi si era rivolto persino a Chi l’ha visto?, che però non aveva potuto fare niente perché cercare qualcuno senza nome e senza volto è impossibile.
Lara è passata dalla vita virtuale alla morte reale senza un lamento, senza riempire Facebook di post lacrimosi o richieste di aiuto (io non so se ne sarei capace), forse non sapremo mai cosa le è successo, ma quella sua bacheca ancora attiva – come quelle di tanti altri che se ne sono andati nel tempo e di cui il social ci ricorda ogni anno il compleanno, rinnovando il dolore – ci deve far riflettere su quanto sia reale la vita virtuale e virtuale la morte reale. E sullo smarrimento che ci dà questo mondo né virtuale né reale, dove le battaglie, gli amori, gli scazzi, i corteggiamenti li facciamo in rete ma al momento di fare i conti con il mondo la gran parte di noi è solo un personaggio di un videogioco.

A Lara, o chiunque lei fosse, piacevano i miei post e i pezzi che scrivevo su questo blog, e spesso li condivideva, ma questo non potrà leggerlo né condividerlo. Perché la morte è una cosa maledettamente reale.